La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa

di Alberto Giovanni Biuso, Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè

L’orrore. Scelta non casuale citare una delle opere più oscure, enigmatiche ma più profondamente teoretiche della modernità letteraria, la nota battuta finale del Kurtz di Heart of Darkness. Perché è questa tenebra che anche gli umani sono, tenebra che la filosofia e la lucidità razionale che la genera e l’accompagna mettono in scena con la maestria del più tardo dei tre grandi tragici greci, Euripide. Cuore, del resto, che è uno dei protagonisti, se non il protagonista, della tragedia e della messa in scena siracusana per la regia di Tiezzi.

Nell’economia degli elementi che per il mondo greco riguardano quella metà del genere umano che fa capo al femminile, il legame indissolubile con le forze telluriche e ctonie, la fertilità, le sofferenze legate al destino della prole, i vincoli matrimoniali, l’utilizzo delle arti magiche, la vendetta sanguinosa contro i torti subiti, è possibile interpretare l’utilizzo di maschere animali come un ulteriore e riuscito rimando alla sfera mitico-cosmologica della riflessione greca sulla femminilità. Negli ordinamenti mitico-cosmologici più arcaici, compreso l’ordinamento pre-olimpico dei Greci, la figura femminile, la Grande Madre degli dèi, non solo è connessa alla sfera della sessualità in rapporto alla generazione e alla colpa che da essa scaturisce – colpa, questa, la cui esorcizzazione era appunto deputata alla grande dea – ma essa si mostra anche signora della natura selvaggia e di tutti gli altri animali, e cioè del mondo fuori i confini della polis.

È forse possibile, allora, leggere l’utilizzo delle maschere animali in scena come un ulteriore rimando al mondo arcaico dominato dall’elemento femminile della potenza generatrice e selvaggia, un utilizzo, questo, che sottolinea in particolare la continuità tra i viventi, i viventi che dalla potenza generatrice sono portati alla vita e governati e nel cui grembo torneranno con la loro morte. Medea entra in scena con una maschera corvina e sembra stare al centro di una rete fittissima di allusioni, rimandi e risonanze appartenenti a una stratificazione culturale millenaria sulle vicende, sulla natura e sul destino umano, di quella metà dell’umanità incarnata dal genere femminile. Medea è, infatti, moglie tradita e sbeffeggiata, donna offesa dalla violazione dei vincoli matrimoniali in nome del profitto e del potere, madre fertile e compagna fedele, ma anche maga e ingannatrice, capace di azioni violente e spietate, come spietato e violento sa essere il mondo della natura selvaggia.

Non è un caso dunque se il piano escogitato dalla nipote del dio del Sole sembra riecheggiare la figura della dea Nemesi, una figura centrale dell’ordinamento pre-olimpico, Nemesi che ancora una volta emerge terribile dalle profondità abissali ai confini del mondo ordinato, Nemesi che si riverbera nelle parole e nelle azioni della maga vendicatrice Medea e si incarna nel rosso e nel nero di cui si tinge la scena, nelle lame di luce sanguigna che fendono l’oscurità densa del palco e che rappresentano efficacemente il massacro consumato fuori di esso. La Grande Madre, Nemesi, Afrodite ed Era sembrano essere le quattro divinità la cui potenza ribolle in Medea; Era la compagna di Zeus, da Zeus costantemente tradita, di cui Medea è rappresentate e devota, tanto da erigere fuori Corinto un altare dedicato ad Afrodite Urania ed Era Acraia sulla cima dell’Acrocorinto, non a caso luogo sacro a Elio che il dio aveva lasciato in eredità ad Afrodite.

Eros, la potenza di Afrodite, si impossessa del cuore di Medea, della sua volontà, persino cancellando la sua mente, passione più forte di qualunque ragionamento e che i Greci hanno insegnato a temere, a diffidare, a regolare con la virtù più grande del cosmo ellenico, il senso della misura invocato dalla nutrice. E infatti è un male per gli umani l’amore. Questa verità antica e discussa viene enunciata da Medea, che non parla di sé soltanto ma degli effetti universali e spesso nefasti che un sentimento di possesso così esclusivo comporta e produce. Medea è una maga dei veleni e del linguaggio. Sa porsi a un livello dialettico assai alto nel confronto retorico con Giasone durante il quale i due sposi cercano di sovrastare l’uno le ragioni dell’altro con le proprie. E sono ragioni tutte razionali, ragioni tutte etiche. Anche questo fa la grandezza del filosofo/drammaturgo Euripide: aver reso inestricabile nei suoi testi la mescolanza tra il più raffinato ragionare e la più estrema violenza fisica, in una guerra dialettica e materica che soltanto nei Greci ha potuto giungere a unità. Mentre i moderni hanno separato del tutto la razionalità diventata cartesiana e il sentimento diventato romantico, in Euripide si tratta di due aspetti della stessa struttura, di due modi d’essere che transitano senza posa l’uno nell’altro e che non costituiscono dunque – come vorrebbe Nietzsche – la fine della tragedia ma forse, al contrario, il suo più splendente e oggettivo inveramento.

«Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni. […] Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia» (A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 51). Una gioia tanto sicura quanto inquieta, tanto incerta quanto alla fine solare mentre sul carro celeste che la porta verso Atene Medea rivolge all’annichilito Giasone, al quale ha ucciso i due figli con lui generati, parole di saggezza e di disprezzo:

«Alle tue parole potrei certo opporre lunghe repliche, se il padre Zeus non sapesse sia quello che avesti da me, sia quello che m’hai fatto tu. Non potevo permettere che tu, spregiato il letto mio, te la godessi allegramente, facendoti beffe di me, né che la tua sposa regale e Creonte, che a te la diede in moglie, mi cacciassero via da questa terra impunemente. Dopo questo dì pure, se vuoi, che sono una leonessa o la Scilla che sta lungo il Tirreno: in ogni caso t’ho colpito al cuore (τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην, v. 1360, trad. di F.M. Pontani)».

Un cuore contro altri cuori: il cuore avvelenato di Medea che si scaglia duramente con la sua tremenda rappresaglia contro l’amore di un padre e re (Creonte), di una figlia e sposa (Glauce), di un padre e marito (Giasone). Medea avrebbe dovuto uccidere tre persone: Creonte, sua figlia e Giasone, ma a quest’ultimo riserva la macchinazione più feroce. L’avrebbe ucciso privandolo di qualunque discendenza, sia quella a venire con le nozze regali a cui si stava apprestando, sia quella presente, i due figli avuti con Medea. La donna, com’è tipico in Euripide (si pensi a Elena) maestra di inganni, doppiogiochista, malefica e sanguinaria, a Giasone avrebbe mangiato il cuore, o, come prorompe nella gloria solare della vendetta compiuta e alla fine elevata a vittoria splendente, l’avrebbe lì colpito, determinando con ciò la sua sciagura definitiva.

E al cuore da millenni vengono colpiti anche gli spettatori e i lettori di questa vicenda estrema, alla quale la traduzione di Massimo Fusillo offre un linguaggio del tutto immerso nella contemporaneità e ricco di riferimenti anche impliciti; nuovamente Conrad, ad esempio, che in Heart of Darkness così descrive un’altra estrema forza umana e materica: «His stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”» (Dover Publications, New York 1990, p. 65)

Non è casuale o frutto soltanto di scarsa educazione teatrale se in occasione di questa rappresentazione siracusana da un certo momento in poi gli spettatori, per lo più folle di studenti medi e liceali, abbiano cominciato ad applaudire quasi a ogni discorso dei personaggi. Era anche un tentativo (inconsapevole, ovviamente) di neutralizzare con la banalità e la familiarità dell’applauso l’orrore al quale stavano assistendo.

Medea è quindi certamente eros, la potenza ingovernabile del sentimento amoroso che spinge fino alle azioni più nefaste e deprecabili, come uccidere i propri figli per vendicarsi dell’offesa ricevuta: il tradimento di Giasone, il quale per conseguire le sue imprese aveva indotto la moglie a tradire la sua patria, lasciare la sua terra e vivere da straniera. Medea è contrattualità tradita, mancato appuntamento col Mit-sein, relegamento di una donna alla sola funzione materna. Donna potente e dalle risorse arcaiche è costretta alla domesticazione civilizzatrice della Grecia e perciò resta nella Differenza pura, non ha alcun riconoscimento da parte dell’alterità che la ospita e non ha possibilità di traductio in nuovi orizzonti valoriali. Giasone è ancora una volta il filosofo-antropologo che incontra il ‘selvaggio’. Euripide infatti mostra interessi etnologici da Medea (431 a.C) fino alle Baccanti (407 a.C.). Queste sono tragedie teoretiche. Euripide è un maestro nel descrivere il comportamento dei Greci di fronte alla differenza, in particolare quella orientale e mediorientale. Giasone e Penteo rappresentano due modi diversi di approcciarsi all’Altro. Il primo è emblema della furbizia, dell’usurpazione e della razionalità strumentale: Medea, con i suoi poteri, si presta alla sua manipolazione. Le risorse della maga dalla discendenza solare sono prosciugate dall’infantile sete di potere dell’Argonauta. Penteo è invece razionalità pura, incredulità e paura.

Il senso geometrico della tragedia e la precisione a orologeria degli eventi incastrano comunque i fatti e gli umani in una perfetta dimensione deterministica, in cui nel sistema di forze rappresentate dalle ragioni particolari dei personaggi c’è sempre qualcuno non toccato da alcuna responsabilità e che nondimeno ne fa le spese, per essere il riverbero di una colpa commessa da un congiunto (Giasone) o il bersaglio di una vendetta amorosa (la sua nuova sposa). I figli di Medea, infatti, non avevano altra colpa che essere i figli dell’eroe del Vello. La filiazione, generare, è uno dei motivi conduttori più forti della tragedia. I figli di Medea e Giasone, mascherati da conigli indifesi, il cui destino sacrificale pesa già sulle loro teste dal primo ingresso in scena; i futuri figli di Giasone, in fondo colpevole per il suo eccesso di razionalità nel voler ignorare la potenza delle passioni, cercando scioccamente di mitigarla con il calcolo di un buon matrimonio che avrebbe garantito agiatezza alla sua famiglia; Glauce, figlia di Creonte, anche lei un’incolpevole, se non per l’essere stata promessa a Giasone; i figli che Egeo desidera al punto da recarsi a Delfi per conoscere un modo per averne, persuaso da Medea ad accoglierla una volta perpetrati i suoi crimini e indotto al giuramento.

I figli, dunque, un Leitmotiv tanto ovvio quanto fondamentale, oggetto di passioni opposte e tra le più estreme, da una parte generati dall’eros, dall’amore tra Giasone e Medea, e dall’altra trucidati dalla vendetta accecante. Certamente Medea, dopo tremendi conflitti interiori ben rappresentati dalla Marinoni, fa rivalere i suoi diritti di nascita, di essere imparentata con il Sole, sul cui carro sale vincitrice e radiosa, una divinità punitrice intervenuta per ristabilire l’equilibrio. Ma come può una donna, divenuta abominio, una madre che uccide i propri figli incolpevoli per vendetta, essere portata in trionfo? Apparire splendente come una dea giudicatrice? Nello spettacolo è da cogliere un elemento moderno e sicuramente avulso dal contesto greco: il riscatto della donna dalla sua condizione subordinata agli uomini (mascherati non a caso da coccodrilli, animali aggressivi; mentre Medea richiama fortemente, con la sua maschera corvina e il lungo costume piumato con strascico, il Raven di Poe), servile (il coro è composto da serve, che in chiusura intingono i panni nel sangue e detergono la scena), una donna quindi che forte della sua intelligenza e passionalità rovescia il suo destino. In Medea l’offesa si fa quindi carne. Il sangue, come Euripide fa dire nella tragedia, genera altro sangue e la donna compie l’ingiustificabile. Questa tragedia è infatti tragedia dell’innocenza, tragedia di chi subisce la storia prima ancora di farla.

E tuttavia, la conclusione non può che essere più originaria, e dunque più originalmente greca: l’umano è in balia di forze che pur generandosi in lui lo superano, principalmente amore e vendetta; non può esserci creatura felice su questa terra finché rimane in vita. Medea, nella sua gloria vittoriosa e macchiatasi di un crimine immondo, ha ricomposto i pezzi, ricongiunto le lacerazioni, ripianato la colpa della generazione condannando se stessa e colui con cui ha generato, ma salvando anche delle vite, concedendo inaspettatamente felicità. I più felici, potremmo dire, sono coloro che non hanno visto la luce, i figli beati che Giasone non avrebbe mai avuto e di cui Medea ha spezzato il rischio uccidendo anche la loro madre, estirpandone la possibilità.

Insomma, Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. I due figlioletti infatti sono venuti al mondo benché non tarderanno a lasciarlo. Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori.

È significativo che Euripide parli dei figli sempre per bocca dei genitori che li hanno portati al mondo, secondo un paradigma che è assai lontano da quello della modernità. Si scopre così che i figli sono oggetto di amore ma anche il prodotto del proprio calcolato egoismo, come chiaramente confessa Medea al Pedagogo dicendogli che avrebbe desiderato averli al suo fianco nella stagione senile della vita fino alla morte. Ma i figli diventano anche la causa di un inquantificabile e imprevedibile turbamento. Lo si vede nell’ansia che spinge Creonte ad allontanare la nipote del Sole da Corinto; o nella preoccupazione di Giasone per la sorte dei figli, sorte che prima cerca di garantire unendosi a una famiglia regale e poi di difendere dalla precedente moglie; e infine in Egeo, che sono sempre i figli – stavolta perché mancano – a indurre a sospirare dolore e a invocare la saggezza di Apollo. Sono i figli che crescendo tradiscono la patria, il padre e il fratello, quelli che – come afferma il Pedagogo rivolgendosi a Medea piangente – a una certa fase della vita si distaccano; che voluti e amati accrescono in sciagure anche la vita già difficile dei loro genitori. Così canta il Coro:

«E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi (vv. 1090-1111, trad. di A. Tonelli)».

E allora «tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola» (v. 251, trad. di A. Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo.

Medea è una tragedia sulle passioni umane a cui non ci si può sottrarre perché «più potente dei miei piani è la furia del cuore» che «per i mortali è causa delle più grandi sventure» (vv. 1079-1080, trad. di A. Tonelli) e soltanto la misura sa rendere soave. L’amore che Medea ha portato a Giasone è stato totale. E quando è totale il sentimento, diventa in seguito totale la sofferenza che in Medea suscita lo strazio di chi desidera vedersi morire; ma uno strazio così potente per non distruggersi deve seminare distruzione altrove e punire la causa del proprio male. Così Medea si vendica del tradimento subìto e colpisce Giasone con un tormento altrettanto grande ma che nel lacerare una parte (il marito) redime l’altra (i figli).

 

 

Medea

di Euripide

Regia: Federico Tiezzi

Traduzione: Massimo Fusillo

Scenografo: Marco Rossi

Costumi: Giovanna Buzzi

Disegno luci: Gianni Pollini

Maestro del coro: Francesca Della Monica

Musiche originali del prologo: Silvia Colasanti (eseguite dal coro di voci bianche e orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretti da Giuseppe Sabbatini e da Carlo Donadio)

Direttore di scena: Nanni Ragusa

Con Laura Marinoni (Medea), Debora Zuin (Nutrice), Riccardo Livermore (Pedagogo), Roberto Latini (Creonte), Alessandro Averone (Giasone), Luigi Tabita (Egeo), Sandra Toffolatti (Il Nunzio), Matteo Paguni e Francesco Cutale (Figli di Medea)

Teatro Greco di Siracusa