Recensione a:
Simone Belvedere, Mens extensa. L’anima di Prometeo in un mondo di macchine, Lekton edizioni, Acireale 2019, Pagine 120, € 11,00
di Mattia Spanò
E l’astronave e già passata e tu dov’eri?
Nei vernissage a festeggiare eroi leggeri
L’attualità si estrinsecava in altre forme
Tutti esauriti, lì, a sognar che non si dorme
Sì l’astronave è già passata e tu dormivi
Meglio così magari non ti divertivi.[1]
Il mito di Prometeo è un’elaborazione culturale tutto sommato recente. Riflessione – questa – che a primo impatto non può che risultare almeno, e a voler essere gentili, sui generis. Come può, una narrazione che riteniamo originaria e fondativa perché tessuta agli albori della cultura occidentale, essere considerata, per così dire, giovane? Perché ancestrale, la figura di Prometeo, lo è di certo, se approcciata sotto il rispetto della storia culturale e simbolica dell’uomo occidentale: primordiale, in relazione a quel sapere che, da un certo punto in poi, si ridefinisce logos distanziandosi dal mythos.
Ma se, al contrario, si ripensa il mito prometeico alla luce del fondo di gran lunga più remoto della storia di homo sapiens – che, secondo le più recenti ricostruzioni scientifiche, abita il pianeta da circa duecentomila anni – ecco che si riconfigura in una collocazione genealogica ben diversa.
Al che sorge, spontaneo, un ulteriore interrogativo filosofico: a quale Prometeo ci si sta riferendo? Al protagonista della vicenda teogonica narrata in versi da Esiodo? Al titano incatenato da Zeus per aver varcato la soglia del limite che, ancora oggi, riattraversa in teatro le gesta drammatiche pennellate da Eschilo? O al Prometeo che Platone, nel Protagora, tratteggia in contrappunto e complementarietà al fratello Epimeteo? O, ancora, al policefalo iniziatore della tecnica frequentato – tra gli altri – da Goethe, Leopardi, Marx, Byron, Shelley, Liszt, Anders?
Ecco che, allora, un’ulteriore traccia si inscrive nell’archivio della questione: ogni variazione sul mito di Prometeo alla quale ci si è riferiti – e non sono, ovviamente, che solo poche delle innumerevoli – si configura come un canale di approssimazione allo spirito complessivo delle epoche e delle regioni geografiche che lo hanno frequentato ed elaborato. E che, anche nel frequentarlo e rielaborarlo, si sono strutturate, assumendo – ancora e sempre – rinnovate posizioni e posture nell’inesauribile ripetizione dell’archetipo di cui Prometeo è custode.
Archetipo che, tuttora, si ripropone. Oggi, che sul pianeta si aggira L’anima di Prometeo in un mondo di macchine, sottotitolo del saggio di Simone Belvedere Mens extensa, edito da Letkon edizioni.
L’opera si scompagina come la prima soglia di un orizzonte di ricerca più ampio, che si impernia sul «legame tra discipline umanistiche e scientifiche» per volgersi «su tematiche concernenti l’uomo, le sue conquiste tecnologiche, le società industriali avanzate, la psicologia e la cultura di massa» (p. 7). Prima soglia, perché l’intento dell’autore risiede nel tentativo di restituire «un primo chiarimento dei termini stessi del problema» (p. 7), esercizio metodico fondativo del lavoro filosofico. A maggior ragione se si dispiega in un’epoca caratterizzata da una diffusa e generalizzata ipertrofia informazionale che fa della comunicazione una pratica che si svolge perlopiù a valle e nel chiasso. Se, e quando, si svolge. E, ammesso che avvenga, in che misura. Interrogativo che, in altri termini, significa sostare sull’entità della consapevolezza che accompagna i nostri momenti speculativi e comunicativi, teoretici e prassici, almeno in due sensi: quanto è consapevole l’uomo odierno di ciò che fa, dice, discute e della temperie complessiva in cui ciò accade?
Perché orientarsi, oggi – gettati in un mondo di macchine da anime prometeiche quali siamo – suppone la ripetizione, sempre in cammino, del gesto conoscitivo socratico in relazione al sé e al mondo. O, si potrebbe aggiungere, con le parole del filosofo del linguaggio Marco Mazzone – autore della prefazione del testo – del tentativo di abitare e non obliare il «legame profondo tra noi e il mondo nel quale siamo “gettati” […]. Noi siamo, in parte, il nostro mondo: concresciamo con esso» (p. 10).
Si tratta, in altri termini, di accogliere homo sapiens come cyborg, ente naturale che co-emerge e si co-evolve con il suo ambiente, avvalendosi dell’impiego di strumenti esosomatici per la costruzione del sé e di un habitat «che aumentino le probabilità di sopravvivenza» (p. 49). Operazione – questa – d’origine remota e caratterizzata da una concomitante ripercussione sull’essere umano stesso che, nell’intervento atto a modificare l’ambiente circostante, è contestualmente modificato tanto dai suoi artefatti tecnologici quanto dalla cornice complessiva, nel frattempo, mutata.
Portando il discorso alle estreme conseguenze – o, in questo caso, si dovrebbe dire alle estremità dell’origine – si può addirittura sostenere che non sia l’uomo a creare gli strumenti ma che siano gli strumenti a creare l’uomo. O, perlomeno, che nel tracciato evolutivo di homo sapiens, non si dia l’uno senza l’altro. Anche perché, affinché qualcosa accada e assuma una determinata figura storico-evolutiva piuttosto che un’altra è necessario che vi sia una disponibilità preventiva che, in riferimento all’uomo, diviene nel tempo «la sua protesica, prometeica propensione alla manipolazione degli elementi naturali, finalizzata alla creazione di artefatti, i quali popolano il suo mondo e lo plasmano, consentendo all’homo faber il superamento dei propri limiti» (p. 48).
Quando, come e perché ciò sia accaduto, chi o cosa abbia assunto la forma della causa, chi o cosa si sia strutturato come effetto, non è possibile rinvenirlo con matematica precisione: l’origine, tanto quanto l’avvenire, è un processo relazionale potenzialmente in-finito.
Nelle metamorfiche figure dei saperi frequentati dall’uomo, la verità assume però una configurazione di transito fondamentale: ad un certo punto – non meglio precisabile – della storia dell’umanità, homo sapiens inizia ad impiegare qualcosa per realizzare qualcos’altro in vista di un progetto. In questo luogo di passaggio emerge un rinnovato concetto di strumento destinato a ripetersi nel tempo. Non si tratta del “semplice” rapporto immediato di frammenti di mondo con gli oggetti del mondo esterni al sé, tale per cui l’impiego degli stessi si risolve nell’azione di volta in volta attuale. Si tratta, al contrario, della soglia originaria di un uso degli strumenti esosomatici in cui il fare ciò che si fa è accompagnato dal sapere – seppur asintotico e ininterrotto – ciò che si fa.
Ecco che, allora, dall’impiego (seppur non necessariamente) episodico del bastone accade un salto prospettico fondamentale: il rudimentale fermento speculativo che fa del bastone un’estensione del proprio corpo, una protesi; il bastone è, dunque, trasferito in un sapere che ne annuncia nuovi usi: tanto del bastone quanto del corpo che può usufruirne in quanto sua protesi. In questa cornice, ad un tempo, si disvela anche il mondo che, nella sua “bastonabilità”, assume una rinnovata abitabilità. E così via, di strumento in strumento, si innesca una dinamica di costante e indomito rinnovamento che coinvolge uomo, strumenti e mondo. Perché ogni protesi reca, inevitabilmente, in sé possibilità e limiti[2]. Dal caso del bastone – il più ancestrale e classico degli esempi – ai più moderni strumenti che costituiscono la frontiera tecnico-tecnologica della corrente epoca, «gli artefatti tecnologici sono un retaggio culturalmente trasmesso attraverso la sua riproduzione selettiva e le conseguenti modificazioni operate dalle generazioni successive» (pp. 50-51). In altri termini, si tratta della capacità umana – di matrice prometeica – di «spostare più in là i limiti imposti dalla morfologia del corpo umano» il cui motore «è proprio l’incontro della mente con il mondo circostante, il legame tra la mente e l’ambiente, da cui scaturisce il mondo dell’uomo» (p. 113).
Corpo che procede oltre i suoi confini fisici nella commistione con il mondo-ambiente di cui è frammento, sulla scorta dell’operatività di una mente che «permea di sé lo spazio fisico» (p. 47): Mens extensa, dunque. Nell’espressione che dà il titolo al lavoro di Simone Belvedere riecheggia la voce di Cartesio, del suo «dualismo ontologico», a sua volta «riproposizione di un tema antico, a lungo dibattuto e mai completamente esaurito» (p. 17).
Ecco che, allora, l’autore di Mens extensa intraprende un duplice tornante storico-culturale[3] volto a indagare le riflessioni sull’umano che hanno scandito, nel tempo, il rapporto tra «l’anima e il corpo, tra l’interno e l’esterno, tra la mente e il mondo» (p. 24), prima e dopo la distinzione tra le res proposta da Cartesio. Emerge un tracciato composito, sinusoidale, complesso che culmina nel mai sopito interrogativo: «Ma qual è il luogo del mentale in natura?». Domanda prima e ultima che – sorta con homo sapiens e frequentata nei secoli dai più svariati approcci – sarà poi raccolta, in tempi a noi prossimi, «da scienze cognitive e neuroscienza», nel tentativo «di dar voce a nuove concezioni della mente» (p. 28), ulteriormente puntellate «nei tardi anni Ottanta-Novanta del XX secolo […] alla luce delle scoperte in campo informatico», oltre che «neurologico e fisiologico, consentendo una più profonda trattazione della questione sull’anima e il suo rapporto col mondo» (p. 40). Che i modelli ermeneutici si sviluppino sulla scorta dell’incedere del progresso tecnologico – del ciclo degli strumenti – o che la dinamica avvenga in senso contrario, non può che rimanere una questione aperta.
Interessante è notare come l’avanzamento tecnologico abbia permesso l’impiego di nuovi strumenti atti a definire rinnovati modelli interpretativi del rapporto mente-corpo ma che, al contempo, è il secolare lavoro di ricerca sul tema – che si origina, comunque, a partire da un’impalcatura teorica e prassica di fondo – ad aver permesso l’attuale avanzamento tecnologico.
E non si tratta di un processo meramente progressivo, per cui la nuova assunzione sostituisce e dimentica la precedente. Così accade che, quando si affianca alla possibilità di una scansione “oggettiva” della mente con le brain images, il cognitivismo – «scuola psicologica che si occupa della vita mentale da quando hanno fatto la comparsa i computer» (p. 54) –, torna in auge, e dotata di una ritrovata dignità scientifica, una nuova forma di dualismo che vede il «dominio della metafora della mente intesa come software, implementabile da varie tipologia di hardware» (p. 44).
Si tratta della ripresa di un antico e rinnovato paradigma interpretativo, fondato stavolta sull’assimilazione del funzionamento della mente umana al sistema macchinico dei computer, che avvicina – e, in alcuni casi estremi, addirittura appiattisce – gli studi cognitivi sull’informatica. Un tale approccio, però, nel considerare la mente sotto il rispetto della procedura algoritmica, allontana – quando non separa – il corpo dalla mente, e scinde conseguentemente l’uomo dall’ambiente. I successivi studi, affrontati a ridosso del XXI secolo, ponendo in risalto le differenze che intercorrono tra le intelligenze artificiali e umane, hanno mostrato i limiti di un simile approccio e condotto ad una riconsiderazione «esternista» del computer, «per cui esso è la manifestazione dell’azione mentale umana che si riversa nel mondo»; «un suo paredro tecnologico» (p. 57) che, capace di ampliare notevolmente le possibilità cognitive e comunicative dell’uomo, può rivelarsi – se inteso come strumento di simulazione – «in grado di fronteggiare la complessità dei processi di una mente non più separata dalla realtà» (p. 58).
Mosso nuovamente dalla necessità di oltrepassare i vincoli posti dalla rinnovata forma di dualismo ontologico cartesiano, l’uomo si volge allo studio della Vita Artificiale, setacciando la mente con nuovi e sempre più raffinati strumenti di simulazione: dalla fine degli anni Ottanta, alle ricerche biologiche si affiancano linee di indagine imperniate sulla «costruzione di sistemi artificiali» (p. 66) tesi a riprodurre la vita mentale umana. Ma, nonostante i grandi progressi registrati sul fronte delle reti neurali e in ambito cibernetico – non dimentichi del fatto che simulare la realtà significhi comprimerla nel tentativo stesso di conoscerla –, arricchito ma intatto nel suo fondo inesauribile, ritorna l’interrogativo: dove finisce la mente e inizia il mondo?
Che, in altri termini, e alla luce dell’ormai radicata diffusione orizzontale di tecnologie che «hanno radicalmente cambiato il nostro modi di vivere, di comunicare e anche di pensare alle macchine» (p. 69), significa ritornare sull’interrogativo primo e ultimo: che cos’è l’uomo? E, ancora: a che livello di profondità e consapevolezza si pone, oggi, questa domanda che si ripiega su sé stessa tra teoria e prassi?
A questo punto occorre, ancora una volta, ripercorrere il tornante proposto da Simone Belvedere: «cambiando il mondo in un ambiente intelligente, l’homo faber viene a sua volta modificato, nel tempo, attraverso artefatti tecnologici che vengono tramandanti culturalmente. Nella sua ricerca incessante, l’uomo odierno si trova a fronteggiare, quindi, nuove tecnologie che rendono il suo mondo un luogo più piccolo […] forse più veloce e intelligente, ma non per questo un luogo più sicuro in cui vivere» (p. 68). Dalla mediacrazia – impalcatura tendenzialmente infocratica dell’attuale assetto comunicativo – alle tecnologie inquinanti, transitando per Human Engineering ed armi nucleari, molteplici e variegati sono i più recenti varchi tecnici che l’uomo, ripetendo l’archetipo prometeico, ha aperto ed è tenuto a fronteggiare negli anni Venti del ventesimo secolo. Se, e quando, riesce a farlo. E ammesso che lo voglia. Tra chi, come Andy Clark, «difende la tesi secondo cui l’estensione mentale attraverso la tecnologia sia il naturale completamento delle nostre potenzialità di cyborg per natura» (p. 76), e chi, sulla scorta di Günter Anders, denuncia gli esiziali rischi ai quali conduce il dislivello di un novello Prometeo che, ritenendo gli artefatti superiori al facitore, continua passivamente e «lentamente a seguire la via aperta dai nostri prodotti» (p. 81).
Tutto ciò accade in una cornice in cui, nel frattempo, prosegue la contesa tra apocalittici e integrati, si assiste allo sviluppo di nuovi e compositi movimenti propendenti – più o meno marcatamente – verso il postumano o nella direzione del recupero di una naturalità che sta andando disperdendosi e nella quale, soprattutto, procede l’uomo in rapporto ai suoi strumenti e viceversa. Imperversa la vita, insomma. Flusso che umanamente non può che darsi nel linguaggio – che di ogni artefatto tecnologico è «antenato comune» (p. 113) – benché inceda, ancora e sempre, oltre ogni forma linguistica che pretenda di conchiuderlo definitivamente. E qui ritorna il mito prometeico. Quale, ci si era chiesti? Quello che si rinnova, asintoticamente e ininterrottamente, nella continua scrittura di un archivio già scritto, nell’apertura di nuovi inizi in un inizio, già da sempre, iniziato perché essenzialmente caratterizzato da un’origine e un avvenire umanamente incolmabili. Titano che, nell’opera di Simone Belvedere, riemerge archetipicamente nel suo incontro con Zeus, come in ogni incrocio tra tecnica e necessità che reca in sé nuovi vantaggi e nuovi problemi. A noi, del gesto di Prometeo, tocca abitarne fondo e orizzonti, occasioni di slancio ed esercizi di limite. Laddove lo slancio, spesso, sta nel limite e il senso del limite, parimenti, nello slancio.
[1] S. Caputo, L’astronave che arriva, in No Smoking, CGD, Milano 1985.
[2] Su ciò Cfr. C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 63-78.
[3] L’impiego del termine filosofico, al posto di culturale, potrebbe apparire in questo contesto riduttivo. Si è optato per l’utilizzo del secondo, e non del primo, al fine di rendere il tracciato delineato dall’autore nella sua complessità. Se da un lato è, infatti, vero che la ricostruzione cronologica proposta si estenda su una trama più propriamente storico-filosofica, dall’altro lato, è altresì vero che presenta innumerevoli, puntuali ed approfonditi spunti che esulano da un alveo disciplinare univocamente definibile e rimandano, piuttosto, al complesso intreccio di pratiche che costituisce la ricerca umana. La scelta è, inoltre, dettata dalla decisa volontà di rispettare il proposito dell’autore di tracciare, con l’opera in questione, una cerniera tra discipline umanistiche e scientifiche – intento che, per quanto possa valere, è condiviso da chi scrive.