Recensione a:
Károly Kerényi, Miti e misteri, Bollati Boringhieri, Torino 2017, Pagine 373, € 14,00
di Marcosebastiano Patanè
Nella nota bibliografica di Miti e misteri, volume costituito da quindici saggi di diversa ampiezza composti tra il 1939 e il 1949, Furio Jesi riporta un passo dalle Lettere di Cesare Pavese in cui quest’ultimo esprime il proprio interesse per la «“rievocazione di mondi culturali autosufficienti, chiusi in sé, interpretabili non risalendo a ritroso il corso dell’evoluzione ma facendo atto di intuizione, di identificazione; alla Vico e alla tedesca”» (18). Fu Pavese, spiega Jesi, a volere l’opera di Kerényi pubblicata nella collana di studi religiosi etnologici e antropologici di Einaudi, collana di cui il langarolo era il direttore, proprio a motivo del suo interesse per tali mondi «chiusi», in un certo senso mondi perduti. Il mondo della mitologia dei Greci sembra infatti rientrare a tutti gli effetti in questa categoria, un mondo troppo lontano dallo spirito dell’uomo moderno e contemporaneo per poter essere recuperato per mezzo di una semplice rievocazione storica o di un’indagine scientifica troppo superficiale.
Per poter parlare di mitologia è necessario tenere ben presenti alcuni elementi fondamentali: il «contatto sincrono con “il divino che ci circonda” – termini in cui possiamo indicare, nel senso della mitologia, il mondo di natura che abbraccia l’uomo […]» (232) e il «contatto genealogico nell’interno del genere umano» (ibidem)caratteristico di ogni esistenza umana individuale, elementi che «comportano una fusione (Verwobenheit) molteplice. Tale “fusione” è il presupposto della mitologia» (ibidem); in questa condizione di Verwobenheit la mitologia incarna il linguaggio della condizione umana e cioè il linguaggio del genere umano che parla di sé nel suo rapporto con ciò che è non-umano, come parte di un Intero, un linguaggio caratterizzato da un «realismo paradossale» (233).
Ulteriore elemento fondamentale per lo studio della mitologia dei Greci è quello della distanza. Se è vero infatti che i mondi «“chiusi in sé”» possono essere in qualche modo recuperati da atti intuitivi e immedesimativi, è vero anche che atti del genere sortiscono spesso l’illusione di una penetrazione nella materia presa in considerazione. A questo proposito Jesi riporta nella sua introduzione un passo tratto da Romanzo e mitologia in cui Kerényi commenta un passo autobiografico di Wilamowitz in cui viene criticata la presunzione del «“professore di Berlino”» (14) di accedere direttamente al senso delle figure degli dèi per il tramite di immagini antiche, come l’avvistamento improvviso di un caprone lungo le pareti di una gola in Arcadia che Wilamowitz riporta come un’epifania del dio Pan. «Per Kerényi, Wilamowitz aveva commesso due errori interrelati: aveva ignorato la distanza che ci separa dagli antichi, e avevo detto “io” con autorità di professore anziché di poeta» (ibidem).
È vero quindi che il mondo della mitologia non sia un mondo irrimediabilmente perduto, e tuttavia non può essere esattamente recuperato. Solamente la capacità veggente dei poeti è in grado di accedere a quella dimensione di mitogenesi (ancora una volta: non al senso autentico e definito del mito dei Greci o di altri popoli) propria del poeta-veggente, cioè di colui che vede, contempla e contribuisce a creare le figure degli dèi e il prototipo, Urbild, cioè «un’immagine (Bild)» in cui «assume forma la coscienza dell’“essere fusi” (Verwobenheit) con tutto il mondo sensibile: un “essere fusi” che, nel sogno, e concretato dalla maschera, molto rigido come – paradossalmente – una rigida copertura di perenni fluttuazioni metamorfiche su ogni Io» (17).
I saggi/poeti/veggenti di ogni tempo vedono, ascoltano, creano, parlano e scrivono a partire dalla Verwobenheit. Per descrivere l’opera di tali uomini Kerényi utilizza il termine “simbolismo” il cui senso viene fatto derivare dal termine “simbolico” secondo il senso attribuitogli da Goethe e cioè simbolico come «ciò che “corrisponde perfettamente alla natura” e per cui mezzo è il mondo che parla di se stesso» (44), per esempio il mito legato alle figure della Grande Madre, della Notte e di Nemesi. Mitogenesi, parola poetica, Verwobenheit e simbolismo, dunque, sembrano contenere i riferimenti a una dimensione in cui il poeta-veggente accoglie lo zampillare del simbolismo del mondo per restituirlo in immagini e figure del mito, cioè in mitologemi, che egli crea e che sono in grado di fondare interi mondi, poiché in essi origina un’intera ermeneutica della condizione del genere umano nel mondo.
«“La vera, irraggiungibile grandezza dei greci è il loro mito: qualcosa come la loro filosofia avrebbero creato anche i moderni; il mito, no”. Il mito – come esso in questa bella frase del Burckhardt è messo accanto alla filosofia – si dovrebbe chiamare più giustamente con la parola greca, già da lungo tempo familiare, di “mitologia”. Nei mitologemi che formano il contenuto del grande “mito” dei Greci – la loro mitologia – anche il logos aveva la sua parte» (226).
In questo contesto le parole primordiali costituiscono la linfa vitale di miti e mitologemi, il cui contenuto non può essere considerato separatamente dalla religione né dal contenuto più spiccatamente sapienziale che ne deriva. Primordiale, qui, così come spontaneo e simbolico sono attributi che fanno riferimento a un contatto quanto più stretto possibile con la natura e con ciò che massimamente sta all’origine e quindi più gravido di senso. «La pura nominazione di un dio è “mito” e lo sviluppamento del “mito”, il “mitologema”, per quanto possa tradursi in puro “poema”, è la vita degli dèi stessi nell’anima degli uomini che li riconoscono» (25-26). Il sentimento religioso dei popoli, in particolare dei Greci, è un edificio dalla costruzione spontanea checostituisce la dimora del mito, di modo tale che sia i mitologemi che i rituali misterici condividono una casa comune nella sfera del divino e delle sue figure, sfera, questa, a sua volta inscindibile dal rapporto tra mondo naturale e mondo umano.
«“Io non domino il linguaggio […] ma il linguaggio mi domina completamente. […] io vivo con esso in un contatto per cui mezzo io concepisco pensieri, ed esso può fare di me quello che vuole. Io obbedisco alla sua parola”» (244). La citazione da Detti e contraddetti di Karl Kraus è inserita da Kerényi in apertura della sua analisi sul significato della figura della dea natura nell’omonimo saggio La dea Natura; è dalla parola infatti – continua Kraus citato da Kerényi – che «“scatta incontro la giovane idea, per agire di riflesso sul linguaggio che l’aveva creata. Una simile gravidanza di idee è una grazia che ci costringe a ginocchio e crea per noi il dovere di non risparmiare alcuna trepida cura di esattezza”» (ibidem).
Di una tale grazia, secondo Kerényi, sono intrise le parole Physis, Logos, Mythos e i nomi degli dèi, parole primordiali e quindi naturalmente concettuali, naturalmente donatrici di senso, un senso non infuso dall’uomo, dal poeta, dal filosofo, dal sacerdote, ma spontaneamente emergente dal non-umano del rapporto uomo-natura. In ogni istante del suo être-au-monde l’uomo sta al mondo prima di tutto come una corporeità prassica in costante rapporto con il proprio ambiente, il che non esclude anzi implica già nella corporeità umana un rapporto originario con una parola nel cui vortice ogni umano è preso, a patto che esso sia esposto alla sua ontogenesi culturale all’interno di una comunità.
È chiaro dunque che le figure degli dèi «non sono oggetto di culto per adoratori di dèmoni, bensì oggetto di contemplazione per saggi» (236). Della figura del dio si può dire: «Ich bin kein ausgeklügelt Buch, / Ich bin ein Gott mit seinem Widerspruch… (Io non sono un libro escogitato, / Sono un dio con tutta la sua contraddizione)» (53). Primordiale, sapienziale, contraddittorio, religioso, spontaneo, naturale sono dimensioni di senso che si incontrano al crocevia tra umano e non-umano, alla fonte di un’apparizione naturale di senso, cioè di una spontanea manifestazione simbolica che avviene nell’autocoscienza del genere umano in quanto parte di un Intero che riflette sul proprio statuto e per contrasto su quello di altri ordini, come la sfera del divino. E che cosa è l’uomo? «Lo dice Zeus nell’Iliade ai cavalli immortali di Achille, […] “non vi è nulla di più povero” o di più “nullo” (Il. XVII 443-47)» (366). Conoscere se stessi, γνῶθι σαυτόν, sapere che si è uomini ed entro tali limiti stare e, conoscendo i limiti del genere umano, avere consapevolezza di ciò che umano non è. Una saggezza umana per gli umani a partire dall’esser fusi con il mondo, una saggezza racchiusa nelle due figure per eccellenza del genere umano, una per il genere femminile, Niobe, e una per il genere maschile, Prometeo, due figure divine che mettono in relazione diretta il mito più antico, quello collegato alla luna, e quello più recente in cui l’uomo è sempre più al centro «anche dei fatti del cielo» (234). Anche di una tale saggezza narrano i miti