di Pietro Pancamo[1]
Alzandomi di botto da sogni invasi di “dentacoli” –aguzzi e avviluppanti–, all’istante m’accorgevo, autoironico sul serio (mi “risi” conto, dunque; mi risi contro?), che l’adagio popolare si può riscrivere così: “Il cuore batte, dove l’anima duole”.
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Circa il tempo umano ed ogni attimo in merito, mi hanno avvertita troppo tardi della vita e che, cioè, scegliendo, qui in Cielo, la zona apposita buddista, mi sarei potuta reincarnare. Però è meglio così, probabilmente; per quale motivo, infatti, tornare sulla Terra? Lì regnano il commercio “all’ingrasso” e le altre schifezze che m’hanno infestato sia l’esistenza, sia qualunque minuto in tema di respiro.
No, a pensarci bene, mancare l’occasione per rinascere, mi ha aiutato a salvarmi la vit… la morte! Almeno quella…
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Se han paura della disperazione preferiscono ignorarlo; quindi solo i militari prestano attenzione al suo continuo blaterare (quello maniacale di un povero demente che avendo studiato, forse troppo, la meccanica dei quanti, ora mugugna, a ritmo ossessionato, un’orribile canzone: è l’Aria, com’è ovvio, sulla quarta stringa ed è così che la farfuglia: «La vita è una lunga/ iniziazione alla morte»).
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Se dai sogni sottraggo i ricordi, infami tutti quanti, si dice coraggio la differenza che ottengo; però a volte è negativa e prende il nome di “paura”.
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Cloto, Lachesi, Atropo
Ecco, il poeta è là che si esibisce, parlando della vita: «Essendo, lo sappiamo, un fior di cloto tutto vizzo ed appassito (qual è, accidenti, il termine giusto e più indicato? “Atrofizzato”? “Atropizzato”?), a noi, desiderosi d’una tregua, offre in oblio, cioè in dono, un letè davvero esagerato: la morte, com’è noto».
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Scrivere è un crimine che distrugge l’esistenza; a delinquere mi ha spinto una lirica di Poe (che dunque, posso dire, è il corvo del reato).
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In quest’esilio dalla vita d’azione e produttiva che avrei desiderato, in questo riposo forzato ed ossessivo, in questo limbo quotidiano (che in realtà è un paradiso infernale, in cui il vispo dolore profuso dal mio impegno è andato perso per intero) sono ogni giorno in vuota compagnia d’un fallimento pneumatico, che purtroppo fa capo a me; nel frattempo il sistema nervoso (intendo il mio, ormai logoro come un vecchio) chiacchiera stentatamente (e sdentatamente) con la gentilezza imperscrutabile di qualche inutile alieno, che mi parla italiano in islandese.
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Depressione
Scrivo, cammino un po’, rivernicio le pareti: faccio tentativi di speranza.
Disperanza.
No! Devo ricordarmi: sono due parole. Due parole distinte! Devo ricordarmi, devo ricordarmi: devo sforzarmi! Sforzarmi (scrivo, cammino un po’, rivernicio le pareti: faccio tentativi di speranza) e fingere di verde ogni mia giornata.
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Passi il giorno a ripetere: «Non reggo, non reggo più».
Ciò che può sembrare, in te, disinteresse (o generosità, di quella vera), è in realtà indiscriminato… ribrezzo d’ogni cosa. Mentre il prossimo ti scambia per filantropo, tutto ti nausea e quindi te ne liberi. No, sperimentare la vita non ti ha fatto mica bene. Anzi, dài solo i numeri, ormai. Ad esempio, rileggiti un po’, nel diario, le righe di ieri! «Il sangue è rosso perché striscia di continuo contro le pareti delle vene e s’infiamma per l’attrito. Perciò il sangue è malattia che inonda tutto il corpo. E questo è quanto».
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Dando in un sorriso tanto amaro da sembrare una smorfia di coraggio, io proclamo: «Ecco, sì, m’ingesso un dente con argilla ventilata: appartengo non per nulla alla schiera senza fine dei feriti naturali».
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È questo mare
È questo mare alla deriva
che rende ogni rotta
prima giusta, poi sbagliata.
Non è possibile raggiungere la terra;
nessuna proda ci sarà più preda:
neanche la riva più rozza ed arrangiata.
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Mi dànno compagnia
(e fastidio, soprattutto)
ricordi sconosciuti come un incubo
(ambientati, stranamente,
in un passato consanguineo del mio corpo).
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Da tanti anni
dorme trafelato:
sferra sogni a tutti gli incubi
e ha una notte per capello.
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Si chiama poesia
(e)spiare gli errori della gente?
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Mi sforzo d’insultarti
pure quando non ne ho voglia:
l’odio, come vedi,
è molto premuroso.
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Ti amo poco. Però da sempre.
E sempre non è poco.
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Condizionato
da lacrime e singhiozzi,
mi (p)unisco prontamente
al sole brusco del dolore.
Ma poi, a detrimento
dell’autolesionismo
che vige nell’esilio,
il ricordo del passato luminoso,
e di come sia fuggito
piantandomi alla svelta,
ritorna ad irritarmi,
ritorna a provocarmi
e quindi mi consolo.
«Sì,» –difatti esclamo–
«m’appare più nobile il dolore,
e più capace di sparire,
tutto trasognato
di rabbia come sono.
(Rabbia, si capisce!
Isotopo dell’estasi
–no, no, dell’entusiasmo!–
radiattivo alquanto)».
[1] pietro.pancamo@alice.it; pipancam@tin.it.