Prometeo: dismisura, dolore e conciliazione

di Stefano Piazzese

La Moira che decide il destino non ha stabilito che accada questo: sarà stremato da mille pene prima di sfuggire a queste catene. La mia arte è di gran lunga meno potente della necessità.[1]

 

Chi è Prometeo? La risposta alla domanda non può certamente essere univoca poiché si tratta di un personaggio della mitologia greca che, probabilmente in misura maggiore rispetto a tutti gli altri, ha attraversato la cultura occidentale dando luogo a una vivace poliedricità di figure elaborate dalla poesia, dalla letteratura, dalla filosofia, dalla musica e dal mondo dell’arte in generale. Goethe, Shelley, Byron e Pavese[2] sono alcune delle tante tappe della storia degli effetti che ha dato vita ai cosiddetti prometeismi del Titano ribelle, apoteosi della potenza della tecnica, della forza demiurgica della mente umana nel dominare la natura. Eppure, nonostante la costante presenza di questo nome a ogni mutamento epocale di paradigma culturale in Europa (e anche oltre i suoi confini), rappresentando in questo modo un riferimento ermeneutico storico – quasi fosse un costante criterio interpretativo –, s’impone la domanda posta in apertura: la molteplicità di figure create dallo spirito umano risulta spesso distante dalla verità del tragico eschileo, nucleo di significazione primaria costituente la forma originaria del Prometeo interpretato in tanti modi. Dunque, si darà risposta al quesito posto abbeverandosi alla fonte della grecità, principio primo e generativo della figura di Prometeo nella cultura occidentale. Si andrà alle origini, nello ‘spazio’ della parola eschilea dove il Titano apparve, e dal dispiegarsi della sua vicenda tragica verranno colti gli aspetti portanti del dramma che permettono di comprendere i limiti delle interpretazioni[3] di questa figura avvenute nel corso dei secoli fino a oggi.

Cosa significa Prometeo? Nonostante l’eponimia costituisca uno dei caratteri principali della tragedia eschilea – nomen sigillum veri –, secondo il quale il Titano avrebbe nel suo stesso nome la Μῆτις, l’intelligenza giusta per fare fronte a qualsiasi circostanza, e dunque il significato di Προμηθεὺς (colui che riflette prima) sarebbe sufficiente per rispondere alla domanda in quanto indica l’aspetto determinante del personaggio che si disvela nel tragico, qui non si vuole rimanere entro i confini di questa prospettiva. Bisogna immergersi nella complessa e multiforme trama nel dramma.

Cosa ha originato il conflitto cosmico tra Zeus e Prometeo? Dalla sua comparsa nella scena tragica il Titano fa subito riferimento alla motivazione che ha generato la condizione in cui si trova, legato a una roccia «nell’inumano deserto» della Scizia. Προμηθεὺς è δεσμώτης per il dono della scintilla di fuoco che fece ai mortali, cominciamento di ogni arte e tecnica: «brillò per loro una via di salvezza, una grande risorsa. E ora, per questa colpa sconto la pena, qui inchiodato, costretto dalle catene, per aria sospeso»[4]. Lui, il preveggente, tormentato a causa delle torture impostegli da Zeus, si domanda sulla durata della propria sofferenza: «quando mai avranno termine questi dolori?»[5], e la domanda che pone introduce la risposta che conosce già: «non si sfugge alla stretta di necessità»[6]. Qui bisogna sempre considerare il messaggio etico-religioso della tragedia eschilea, dimensione dalla quale non è possibile prescindere nell’arduo tentativo di interpretarla. È, infatti, il discorso etico-religioso a fondare il λόγος tragico di Eschilo «per ciò che concerne, per esempio, l’organizzazione e la disposizione della vicenda tragica, oppure la strutturazione interna dei personaggi, oppure anche il modo di costruire le immagini»[7].

Il dono del fuoco inaugura la via di salvezza per i mortali che versavano in uno stato di miseria tale da suscitare un sentimento di pietà. Difatti, il Titano declama: «io ho avuto pietà dei mortali, e questo mi è toccato subire; ma di me nessuno ha avuto pietà»[8]. Colui che ha avuto pietà adesso si ritrova solo, e pensa che nessuno simpatizzi con le sue sofferenze – escluse le Oceanine e Oceano. Egli non sa che partecipano al suo dolore «tutti, tutti i mortali»[9]. Il risultato del dono di Prometeo agli umani fu che essi impararono molte arti[10]. Efesto e Kratos, ipostasi della presenza di Zeus che non compare mai direttamente sulla scena, problematizzano la pietà del Titano verso i mortali, soprattutto Kratos che domanda: «sono capaci i tuoi uomini di liberarti da queste pene?»[11]. Un aspetto degno di nota, che rende ancora più chiaro l’agire di Prometeo, è la consapevolezza: egli, da preveggente qual è, era già a conoscenza delle pene che avrebbe patito, del prezzo che avrebbe pagato per la disobbedienza all’ordine stabilito da Zeus e, nonostante ciò, scelse il proprio errore: «ma io sapevo già tutto, lo sapevo! Volevo, volevo farlo il mio sbaglio: non intendo negarlo! Per aver aiutato i mortali, avrei avuto un castigo»[12].

Il πάθος della pietà che ispira e guida l’azione prometeica si tramuta in una forma originale di orgoglio permeato dal privilegio dell’errore. Errore che fa tremare e che mette in discussione le basi dell’ordine stabilito dal nuovo potere che porta il nome di Zeus. Prometeo vuole ristabilire l’armonia alterata dalla prepotenza di Zeus, e nel fare ciò egli è ὕβριιζε[13]: non intende adattarsi alle leggi dello «scettro insolente»[14]. Le parole che Oceano rivolge al Titano rendono chiaro questo τόπος:

 

voglio darti il consiglio migliore, anche se tu sei già astuto. Devi sempre sapere chi sei e adattarti alle regole nuove: perché nuovo è questo tiranno che domina tra gli dèi. Se scagli parole tracotanti e taglienti, subito, anche se il suo trono sta molto più in alto, Zeus le può sentire: e allora mole di pene che subisci ti sembrerà un gioco tra bambini. […] Tu non sei mai umile, non cedi di fronte al dolore […] o forse, tu che sei tanto sapiente, non sai che sulla lingua che blatera vanamente si abbatte il castigo?[15]

 

Prometeo «parla troppo liberamente», dice il coro[16], rendendo così esplicita la propria tracotanza. Tanto il parlare quanto l’agire di Prometeo vanno interpretati all’interno della dimensione politica in cui Eschilo colloca la propria parola tragica: la tragedia del poeta di Eleusi doveva assolvere anche a una funzione politica. Quest’ultima, però, non è mai individuabile in modo diretto e nell’immediato, ma solo per via di mediazioni. Va da sé che la politicità delle tragedie eschilee emerge non attraverso il riferimento più o meno velato agli avvenimenti contemporanei al poeta – anche qui vanno fanno fatte, però, le dovute precisazioni, in quanto è fuori di dubbio che nell’Orestea vi siano lapalissiani rimandi all’alleanza fra Atene e Argo e alla riforma dell’Areopago[17] –, ma nel ‘proporre’ un discorso che tocchi nell’immediato le strutture portanti della società del tempo mostrando i limiti della condizione umana, il suo problematico rapporto con la divinità, i diversi aspetti del vivere sociale. «Ed è in relazione a questi temi che si rivela, mediatamente, la politicità della tragedia greca, nel senso che di regola lo sbocco consisteva in un atteggiamento che presupponeva il riconoscimento e l’accettazione delle strutture sociali e politiche fondamentali»[18]. Il Prometeo incatenato è il tentativo di comprendere e portare alla luce i sommovimenti che agitano e scuotono anche la πόλις, i rapporti che la intessono, le risonanze esistentive che la animano, i costumi che in essa prendono vita e vengono tramandati. Prometeo è forma che dice sempre il suo traboccamento, che con-tiene la propria crisi.

Posto ciò, in merito al termine τύραννος, ‘momento’ esegetico fondamentale della tragedia in questione e della sua ermeneutica,Di Benedetto invita a considerare che

 

l’aggettivo neos, «nuovo», non è preferenzialmente associato con tyrannos, ma attraverso una molteplicità di nessi è usato per rendere la situazione che ‘oggettivamente’ si è venuta a creare con la detronizzazione di Crono. È ovvio l’accostamento a questo proposito con la Teogonia di Esiodo. Ma soprattutto è da tenere presente il passo dell’inno a Zeus dell’Agamennone dove la successione Urano Crono Zeus è presentata in modo da sottolineare l’anteriorità dei primi due di fronte a Zeus: è produttivo il confronto di questo passo dell’Agamennone anche con i vv. 149-51 del Prometeo[19].

 

Il Titano altera l’ordine stabilito da Zeus poiché ritenuto non misurato nei confronti delle miserie dei mortali, e la sua vicenda funge da monito: ogni potere, se non esercitato con misura, può venir meno e vacillare di fronte a un potere più forte – l’avvento del potere più forte, in questo caso, rimanda a un tempo che ancora deve venire –­­ o a una minaccia che incombe. L’evento che vede Crono spodestato da Zeus potrebbe ripetersi nei confronti di quest’ultimo la cui ingiustizia consiste, appunto, nella dismisura. Con Eschilo e il suo Prometeo incatenato si manifesta l’avvio rivoluzionario del tempo storico in termini di irreversibilità, ragion per cui «la prima sapienza di Prometeo – insegnamento per gli uomini, minaccia per Zeus – è che esiste il tempo: esiste la storia»[20]. Vediamo quanto sia complesso cogliere il misterioso intreccio che rende il personaggio tragico colpevole e allo stesso tempo innocente, aspetto che caratterizza tutta la tragedia greca in diverse forme. Prometeo è giusto o tracotante nell’aver compiuto la scelta che ha attuato – i doni che ha elargito ai mortali? E nel fare ciò è stato davvero φιλάνθρωπος? Zeus è tracotante o giusto nel modo in cui ha trattato i mortali? È giusto o ingiusto nell’imporre crudeli pene al Titano, andando così incontro alla caduta del proprio dominio per mano di un futuro eroe di cui non si conosce il nome? A questi interrogativi risponde l’argomento hegeliano secondo cui «noi dobbiamo soprattutto […] scartare la falsa rappresentazione di colpa e innocenza; gli eroi tragici sono sia colpevoli che innocenti»[21]. Sono domande complesse, ma proviamo a dare una risposta attraverso due riferimenti filosofici.

Nel frammento 119 di Eraclito si legge: ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων (demone per l’uomo è il suo carattere)[22]. Nel libro X della Πολιτεία, quando si parla del mito di Er, il filosofo afferma: «non sarà il dáimon a scegliere voi, ma voi il dáimon. […] La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il Dio non ne ha colpa»[23]. Il concetto di δαίμων è fondamentale per comprendere la tensione dialettica che caratterizza l’intreccio libertà-necessità. Stando ai due filosofi, per l’uomo (in questo caso per il personaggio tragico) vi è una limitata e condizionata libertà nella scelta del proprio δαίμων, del proprio destino, ma una volta compiuta la scelta quella scelta lo necessita, lo determina, ed entra sotto il dominio di Necessità. Così i nostri personaggi tragici, Prometeo e Zeus, manifestano questa tensione dialettica; essi, compiuta la scelta, determinano anche ciò che ineluttabilmente avverrà: non si torna indietro, s’impone Necessità. Non vi è altra causa a cui addossare la colpa. Il δαίμων di Prometeo consiste nel non poter accettare l’ingiustizia di Zeus.

Il destino si compie sotto il giogo di Ἀνάγκη[24] a cui è sottoposto anche il potere di Zeus[25]. Se nelle altre tragedie eschilee la divina sovranità del figlio di Crono e Rea era posta sine die, nel Prometeo incatenato viene proclamato quello che potrebbe essere considerato il limite a tale sovranità, e dunque a ogni esercizio del potere che non opera secondo armonia: «nella potente figura qui evocata, Ἀνάγκη-Necessità è dunque condotta da Μοῖρα-Destino e il carro allegorico così raffigurato è potentissimo»[26], una potenza che supera anche quelle di Prometeo e di Zeus. I demoni della memoria – Ερινύες – assieme a Moira detengono le redini di Necessità, una signoria che regola la direzione del destino tanto per i mortali quanto per gli dèi. Riflettendo sul fatto che il limite al potere di Zeus emerge anche dalla sua volontà di conoscere il proprio futuro per mezzo del dono della preveggenza di cui Prometeo è depositario, sorge, dunque, l’interrogativo che sembrerebbe aprire la strada alla possibilità di un ribaltamento/tramonto di quella che è considerata la più alta e potente forma di governo: nessun potere è destinato a durare per sempre, e anche le fondamenta del più saldo dei troni, se non corrispondono a Θέμις, sono destinate a tremare, vacillare, crollare – «e cosa ha deciso il destino per Zeus? Che debba regnare per sempre?»[27]. Per la prima volta il poeta dichiara che tutti, anche il nuovo τύραννος[28], manifestazione e apoteosi regale del nuovo ordine costituito, sono soggetti al dominio di Necessità:

 

CORIFEA: ma chi è che tiene il governo di necessità?

PROMETEO: Le Moire dai tre volti e le Erinni, dèmoni della memoria.

CORIFEA: E Zeus, allora? Rispetto a loro è meno potente?

PROMETEO: Certo, non si può sottrarre a quanto è stato deciso dal destino[29].

 

Tra i doni che Prometeo fa agli umani si pone spesso molta attenzione solo sul fuoco da cui discendono tutte le τέχναι. Eppure, quello più importante, in termini di implicazioni esistenziali, è il dono delle τυϕλὰς ἐλπίδας[30], le cieche speranze, ovvero la speranza illusoria che in una vita-per-la-morte produce uno o più orizzonti di senso che permettono ai mortali di vivere-nonostante; nonostante l’ineluttabile destino della morte. Tale atteggiamento coincide, appunto, «con l’imprevidenza, la provvisoria ignoranza del proprio destino. Prometeo, il preveggente, salva i mortali dalla preveggenza, devastante perché vera e certa, della morte»[31].

Le cieche speranze operano un’azione di obnubilamento dell’orizzonte della morte –  un aspetto che si può cogliere in modo profondo nel dialogo tra Io e Prometeo. La fanciulla, che nelle Supplici viene solamente evocata, ha qui un ruolo centrale nella vicenda, e non appena riconosce il Titano subito gli chiede di fare chiarezza intorno al proprio futuro, implora che le vengano rivelate le pene che ancora dovrà esperire. Prometeo inizialmente desiste, ma alla fine cede al πάθος della pietà e le rivela, con dovizia di particolari, tutte le pene che verranno. Ciò non cambia nemmeno di poco la condizione di Io. Difatti, la fanciulla esce dalla scena tragica nello stesso modo in cui vi era entrata, ovvero in preda ai dolori per l’estro di Zeus che la tormenta giorno e notte. Conoscere le vicende future è un male: le cieche speranze sono necessarie per un’esistenza che, nonostante il dolore, si proietta sempre in avanti e non rinuncia a vivere. Le τυϕλὰς ἐλπίδας fanno calare sui mortali l’oscuramento che consiste nell’inconoscibilità del futuro, una sorta di quotidiana distorsione dello sguardo teoretico dallo statuto ontologico che li vede destinati alla morte. In questo modo, attraverso il numero, le τέχναι e il λόγος essi arrivano a edificare, progettare e vivere la propria esistenza costantemente chiamati a scegliere; la scelta si sviluppa e prende forma sotto il dominio di Ἀνάγκη; una scelta libera che allo stesso tempo necessita: «così i mortali avviano una poiesis prefigurante, in quanto obliano felicemente il loro stato e agiscono come se non fossero mortali»[32]. Io si trova in una posizione più vantaggiosa rispetto al Titano: essendo una mortale è sempre posta dinnanzi al limite delle proprie sofferenze, ovvero la morte. Prometeo, al contrario, è αθάνατος, pertanto immortali saranno anche le sue sofferenze, il suo dolore non conoscerà mai fine – secondo quanto egli stesso afferma. Le cieche speranze si rivelano un dono fondamentale per l’esistenza, un presupposto esistenziale senza il quale la vita umana non potrebbe avere lo slancio progettuale che la caratterizza, ma allo stesso tempo anche un pericolo: una tremenda catastrofe incombe sull’uomo una volta dissolto l’orizzonte del morire.

LaΠοίησις prefigurante preannuncia il principio eschileo del πάθει μάθος[33] che ha la sua più eloquente formulazione nell’Inno a Zeus dell’Agamennone. Per il mortale – in questo caso Io – «è meglio ignorare che sapere»[34], affermazione che non è un invito all’ignoranza, ma la consapevolezza fondamentale che guida il discorso tragico in Eschilo: la conoscenza sorge necessariamente attraverso l’esperienza del dolore. «Saggio è colui che si inchina di fronte all’inevitabile»[35], ma Prometeo non si piega a Zeus: la sua è una ingiusta punizione – Ἔκδικα πάσκω[36].

Giunti qui non si può non pervenire alla domanda di Max Pohlenz: «il dio che, quanto meno, aveva punito così atrocemente il benefattore disinteressato dell’umanità, poteva essere il sostegno della giustizia, al quale gli uomini dovevano rivolgersi in preghiera come ad un padre benevolo?»[37]. Il filologo sostiene che anche noi soffriamo con Prometeo, il dio che per la sua filantropia viene incatenato, e in questa partecipazione – συμπάθεια – ci ribelliamo a Zeus, divinità suprema che ha stabilito per il Titano una pena così crudele. Efesto declama che Prometeo ha tributato τιμή oltre misura agli uomini. Termine che indica l’onore che pertiene alla dimensione statale e quindi politica. Posto che la vittoria di Zeus sulle divinità originarie sancisce anche una delimitazione dell’onore tributato ai singoli dèi, l’azione di Prometeo ha provocato, per conseguenza, una frattura dell’ordine costituito: l’intervento di Zeus risulta necessario. Il poeta eleusino e filosofo conduce lo spettatore alla comprensione che la durezza della punizione è una necessità scaturita dalla precarietà politica della situazione, della frattura manifestatasi. E anche qui Pohlenz pone una domanda euristica che rafforza quanto è stato detto precedentemente sulla dimensione politica del tragico, e in particolare del tragico eschileo: «ma non ci rendiamo colpevoli contro la poesia, avvalendoci qui, per capirla, di concetti e di idee politico-giuridici?»[38]. A tale quesito si è data già risposta.

Seguendo sempre la dinamica del doppio tracciata nella preziosa analisi hegeliana del tragico, bisogna considerare due prospettive, due punti di vista, due ragioni parimenti valide, due colpe. Prometeo e Zeus: il primo, nel suo agire filantropico, commette anche l’infrazione dell’ordine costituito; il secondo, nel tentativo di far fronte a tale infrazione, agisce per il suo dovere o guidato da orgoglio? Il dovere di ristabilire l’ordine può essere la parola definitiva restauratrice del conflitto? Può tale dovere assurgere a motivazione superna che punisce la decisione del Titano di agire in conformità a un’altra ‘legge’ che non sia quella di Zeus? Se la risposta è ‘sì’ bisogna allora indagare il sentiero tortuoso di quest’altra legge posta a fondamento dell’azione di Prometeo. Il Titano non agisce solo perché guidato dall’amore verso i mortali; ecco perché

 

Zeus ha il diritto formale, e anzi il dovere, di punire l’infrazione dell’ordine da lui costituito. Ma anche Prometeo ha agito secondo un suo diritto interiore, poiché con la sua infrazione voleva il bene e lo ha operato, Non verrà dunque davvero il tempo in cui entrambi si comprenderanno e riconcilieranno? Per il momento però vi è soltanto l’ira del nuovo signore contro il ribelle e del condannato contro il suo potente giudice. […] Tutta l’umanità, mare e terra, perfino l’Ade, prende parte al suo dolore. Il conflitto commuove tutto il mondo[39].

 

Una sofferenza «ben oltre i confini di Dike»[40], così dice il verso che suggella la tragedia rafforzando un motivo che attraversa tutto il dramma prometeico, ovvero quello della giustizia in relazione alla punizione che Zeus infligge al Titano. Vero è che, come ricorda Pohlenz, dobbiamo pensare al Prometeo incatenato considerando anche le altre due parti della trilogia andate perdute, e in particolare i pochi frammenti del Prometeo liberato[41] (Προμηθεὺς Λυόμενος), ma rimendo e abitando ciò che a noi è pervenuto si rimane raminghi presso i sentieri del dolore che oltrepassa i confini della giustizia, permane il conflitto tra Zeus e Prometeo dovuto alla violazione dell’ordine costituito, a una doppia ingiustizia.

Se la vita è un dramma ermeneutico, bisogna ricordare che fu proprio Prometeo a permettere la nascita della dimensione simbolica, essenziale per la vita umana. Interpretare vuol dire cogliere la dimensione simbolica dell’esistenza e contribuire a crearla, a ri-crearla nel tumultuoso e incessante dispiegarsi dei sistemi – convenzioni – che l’uomo ha edificato per estrinsecare la propria natura. E anche per quanto concerne la dimensione simbolica, rimane l’ordine la cifra essenziale del discorso. Le convenzioni alle quali si fa riferimento altro non sono che il modo umano di far fronte al caos, anche quando è proprio questo a farsi strada attraverso le stesse: quale λόγος tenterà di parlarne senza allo stesso tempo esperirlo? Questo tentativo comporta la possibilità di un naufragio nella sterminata piana della memoria dove Homo sapiens esperisce tutto il dramma ermeneutico che nasce dal complesso fardello di interpretare quell’enorme bagaglio di simboli e numeri che ha ereditato dalla storia. Degno di nota è quanto afferma Kott a riguardo:

 

Prometeo inventa dunque il segno simbolico, o in altri termini distingue il significante dal significato. Il sistema numerico e l’alfabeto simbolico sono mneme hapanton, memoria di tutte le cose, che permette di ripetere il mondo e di metterlo intellettualmente in ordine. Il discorso di Prometeo sulle origini della civiltà appare sorprendentemente simile al Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1776), pubblicato ventidue secoli dopo e definito da Lévi-Strauss “indubbiamente il primo trattato antropologico della letteratura francese”. Per Rousseau come per Eschilo, il passaggio da natura a cultura, dallo stato animale a quello umano, è la nascita dell’intelletto. Lo stato della società è “lo stato del raziocinio”[42].

 

Certo è che la chiusa del brano citato appare molto problematica, in quanto attribuire a Eschilo la scissione di matrice rousseauiana tra natura e cultura è una forzatura interpretativa molto coraggiosa. Ma rimane comunque ben fondata l’osservazione finale. Con Prometeo ha inizio l’esercizio del raziocinio non inteso in senso meramente tecnico, e cioè inerente solo all’espletazione delle varie τέκναι in tutte le loro forme e manifestazioni, altresì in senso drammatico-ermeneutico.

La vita umana, oltre a creare ed elaborare convenzioni necessarie al proprio mantenimento e sviluppo, vive in perenne tensione interpretativa tali convenzioni al punto tale che praticare una tecnica non è mai per l’uomo mero meccanicismo ripetitivo, ma un problema interpretativo poiché il fare reca con sé quel perturbante carico di problemi le cui domande s’impongono come necessarie, e all’incombere delle quali il pensante non può volgere altrove il proprio sguardo speculativo.

Torniamo alla domanda posta all’inizio della presente riflessione valutando anche i pochi frammenti pervenutici del Prometeo liberato[43]. Il Titano è colui che dice all’umano il dolore, la grandezza e la dismisura insieme. Il paradigma prometeico e il suo esito tragico non sono ascrivibili alla sola vicenda narrata dalla tragedia: essi si estendono ai titanismi contemporanei che vogliono e pretendono di eliminare l’orizzonte della morte, che fallacemente sfidano Ἀνάγκη, l’inevitabile che ineluttabilmente accade nella vita degli uomini. E di fronte a questi deliri attuali come il transumanesimo[44], che si pone come obbiettivo principale il raggiungimento dell’immortalità, il superamento della morte, nel volgersi alla tragedia eschilea in questione la riflessione di Umberto Curi propone un itinerario interpretativo molto fecondo secondo cui

 

il compimento della dolorosa ma fertile esperienza della quale è protagonista Prometeo, esprime quale sia, dopo di lui e a seguito del suo sacrificio, lo statuto dell’umano. L’essere costantemente in bilico fra miseria e grandezza, fra prosperità e affanni, fra gioie e dolori, fra salute e malattia, Più ancora, l’essere sempre e comunque esposti insieme all’una e all’altra cosa – il non poter mai essere soltanto uno. Nessuna compiuta salvezza è concessa. Ma solo quell’incerta, sospesa, ambivalente condizione nella quale a salvezza si accompagna indissolubilmente alla caduta[45].

 

Già nel Prometeo incatenato il Titano, dialogando con Io, perviene a una comprensione profonda della propria situazione – «meglio morire una volta per tutte, che patire giorno per giorno così tanto dolore!»[46]-, e nei pochi frammenti del Liberato questa prospettiva risulta ancora più radicale. L’afflato tragico prende nuova forma poiché anche Prometeo ha imparato dalla sua punizione: una luce è sorta dalle tenebre del dolore. L’Amor mortis[47] – «così sto, impotente, ad accogliere il tormento di questa mia peste, / e cercando una fine di questo male, io la morte bramo»[48] – apre lo spazio all’equilibrio che ripristina il sacrilegio commesso; si tratta di un atteggiamento che adesso conduce Prometeo ad «amare il potere di Zeus»[49] in quanto nessun presunto ordine, riscatto, speranza e illusoria promessa di libertà potrà mai ergersi contro i limiti della condizione umana e vincerli. Ecco il grande dono di Prometeo all’umanità: non solo il fuoco da cui le τέκναι, non solo le cieche speranze. Di più: «la possibilità di riconoscere la morte come quel limite, in ogni caso invalicabile, senza il quale la vita stessa perderebbe il suo peculiare significato»[50]. Il fine ultimo della tensione che anima la trilogia eschilea, che non si conclude con il Prometeo incatenato, va ribadito, è la conciliazione: solo allora Prometeo sarà liberato; solo allora Zeus sarà il dio giusto.

Potrà mai la vita umana liberarsi dal limite, dalla finitudine, dalla morte? Porre la stessa domanda non vuole essere un atto di ὕβρις, ma un affermare euristicamente e ironicamente il fallimento di ogni impresa tecnica, scientifica, umanistica, trans-umanistica e post-umanistica che dell’umano vuole cancellarne il tratto costitutivo. Per quanto concerne gli umani, l’esito di ogni titanismo non può che condurre, ad ogni modo, alla profonda consapevolezza che passa dal dolore; ogni tentativo di prevaricazione del limite, nel suo essere volto inevitabilmente al fallimento, rafforza questa prospettiva autenticante lo stare umano. Amare il potere di Zeus vuol dire esperire la sentenza delfica dello γνῶθι σεαυτόν, così come Oceano annuncia al Titano incatenato (γίγνωσκε σαυτὸν): «Devi sempre sapere chi sei e adattarti alle regole nuove: perché nuovo è questo tiranno che domina tra gli dèi»[51]. La conoscenza del limite permette all’uomo di esperire una pienezza cairologica di vita (dramma ermeneutico) che non potrà mai essere indebolita e logorata da false promesse di libertà, di progresso, di emancipazione dal dolore, dalla sofferenza e dalla morte che impoveriscono la vita stessa. Saldo rimane il fondamento del dramma: tutto ciò che è caratterizzato da ingiustizia e dismisura non è destinato a durare. Presto arriva il tramonto.


[1] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie, traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, Mondadori, Milano 2013, vv. 511-514, p. 333.

[2] Cfr. Aa. V.v., Prometeo. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia 2022.

[3] Un esempio d’interpretazione recente della figura di Prometeo, in questo caso molto problematica dal punto di vista della tragedia, è presente, con esiti non molto chiari a chi scrive, in B.-C. Han, La società della stanchezza (Müdigkeitsgesellschaft, 2010), trad. di F. Buongiorno, Nottetempo, Milano 2020. L’autore parla di un Prometeo stanco: un’ermeneutica secondo cui il Titano sarebbe una rappresentazione dell’apparato psichico dell’odierno soggetto di prestazione, il quale fa violenza a se stesso. L’aquila che divora il fegato di Prometeo sarebbe il suo stesso alter ego.

[4] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie, cit., vv. 111-113, p. 113.

[5] Ivi, v. 100, ibidem.

[6] Ivi, vv. 104-105, ibidem.

[7] V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Einaudi, Torino 1978, p. IX.

[8] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie, cit., vv. 236-240, p. 315.

[9] Ivi, vv. 413-414, p. 327.

[10] Ivi, vv. 436-506, pp. 329-333.

[11] Ivi, vv. 83-84, p. 305.

[12] Ivi, vv. 265-267, p. 317.

[13] Ivi, v. 82, p. 305.

[14] Ivi, v. 405, pp. 326-327.

[15] Ivi, vv. 307-315, 320, 328-329, p. 321.

[16] Ivi, v. 180, p. 311.

[17] Cfr. V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, cit., pp. VIII-IX.

[18] Ivi, p. VIII.

[19] Ivi, p. 61.

[20] M. Centanni in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 933.

[21] G.W.F. Hegel, Lezioni di Estetica. Parte terza. Il sistema delle singole arti. Sezione terza, cap. III, in Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1972, p. 1357.

[22] Eraclito, in H. Diels, W. Kranz, I Presocratici, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, DK 22 B. 119, p. 369.

[23] Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, trad. di R. Radice, Bompinai, Milano 2009, Libro X, [617e], p. 1065.

[24] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie, cit., vv. 511-514, p. 333.

[25] Ivi, vv. 517-518, p 335.

[26] M. Centanni, in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 932.

[27] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., v. 519, p.335.

[28] Nella tragedia Zeus è τύραννος e non βασιλεύς (v 10). Il termine adoperato dal poeta sta a indicare che il potere del dio non è un potere ereditato, bensì un potere conquistato con la forza.

[29] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., vv. 515- 518, p. 335.

[30] Ivi, vv. 248-251, pp. 315, 317.

[31] M. Centanni in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 920.

[32] Ivi, p. 931.

[33] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., vv. 553-555, p. 337.

[34] Ivi, v. 624, p. 343.

[35] Ivi, v. 936, p.365.

[36] Ivi, v. 1093, p. 375.

[37] M. Pohlenz, La tragedia greca (Die Griechische Tragödie, 1954), trad. di M. Bellincioni, Paideia, Brescia 1961, vol. I, p. 80.

[38] Ivi, p. 82.

[39] Ivi, p. 86

[40] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., v. 1093, p. 375.

[41] Cfr. M. Valgimigli, Eschilo: la trilogia di Prometeo (Pr. Pyrphoros, Pr. Desmotes, Pr. Lyomenos). Saggio di una esposizione critica del mito e di una ricostruzione scientifica della trilogia, Bologna 1904.

[42] J. Kott, Divorare gli dèi. Un’interpretazione della tragedia greca (The Eating of Gods), trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 2005, p. 28.

[43] Cfr. Eschilo, Frammenti, IV. Dalla tetralogia del Prometeo in Le tragedie cit., pp. 692-701.

[44] Cfr. A. Tonelli, Nel nome di Sophía: un manifesto contro il Transumanesimo, Agorà & Co., Lugano 2022.

[45] U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 144.

[46] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., v. 754, p. 351.

[47] Eschilo, Frammenti, IV. Dalla tetralogia del Prometeo in Eschilo. Le tragedie cit., pp. 693-701.

[48] Ivi, p, 695.

[49] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., v. 10, p. 299.

[50] U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, cit., p. 144.

[51] Eschilo, Prometeo incatenato in Le tragedie cit., v. 307, pp. 320-321.