Caso, fortuna e determinismo in “Non è un paese per vecchi”

di Enrico Palma

No Country for Old Men è un romanzo dentro il romanzo, o per meglio dire più romanzi inseriti in una cornice più ampia, l’insieme di riflessioni, reminiscenze e amare constatazioni compiute in prima persona da parte di uno dei protagonisti, lo sceriffo Ed Tom Bell, il vecchio della storia al quale gli eventi in cui precipita come gli altri personaggi del racconto finiscono per far comprendere la sua definitiva inadeguatezza ai tempi nuovi, a cosa il mondo è diventato rispetto agli anni della sua giovinezza, ai demoni del passato e della storia che ha dovuto covare lungamente dentro di sé.

Dal mio punto di vista, benché lo sceriffo rappresenti certamente una sorta di funzione meta-narrante all’interno della vicenda, la figura che tiene tutte le altre insieme anche se inerme dinanzi a eventi incontrollabili e più grandi di lui nonostante il suo acume, e a scapito della scarsità di risolutezza sicuramente dettata dall’età avanzata, tale cornice può essere messa da canto per concentrarsi in quella che potrebbe definirsi come la vera e propria mechané della narrazione. Una macchina, e l’autore la costruisce e la rappresenta con la massima precisione, implacabilmente deterministica.

Il romanzo è infatti la filosofia di Spinoza messa in scena tra le lande desolate e le città polverose del Texas degli anni Ottanta del secolo scorso. Ed è deterministica e spinoziana per una serie di ragioni, la prima delle quali è la fortuna, un motivo che ricorre continuamente all’interno del libro. Una fortuna non come caso, accidentalità o frutto di mera coincidenza, bensì come convergenza di forze cieche e imperscrutabili di fronte alle quali l’individuo non può fare altro che accodarsi e adoperare ogni accorgimento per restare in vita. Un insieme di tensioni che sfociano nel sangue, sparatorie, capovolgimenti di fronte, assassinii brutali e feroci, e alla fine nella morte, più o meno esplicita, di tutti i contendenti.

È per caso che Moss si imbatte nella trattativa di droga finita in sparatoria e nella cartella con i soldi, l’addensante della trama; è per caso che ritornando in quel luogo per prestare soccorso all’unico sopravvissuto viene intercettato e inseguito dai trafficanti; è per caso che Chigurh, il folle mercenario al soldo della fortuna, entra nel gioco. E via di seguito per tutta la storia.

Moss, guardando la cartella, si interroga appunto sul destino di quell’evento: «Venti per dodici. Il conto lo sapeva fare bene anche a mente. Due milioni e quattro. Tutti biglietti usati. Restò seduto a guardarli. Devi prenderla seriamente questa faccenda. Non puoi trattarla come un colpo di fortuna»[1] (p. 20. Il corsivo è mio). Ma nel prendere sul serio questa faccenda deve fare in modo di non morire: «Erano lì dove li aveva lasciati, acquattati sulle gomme fatti a brandelli dai colpi. Si avvicinò stringendo in mano la .45 armata. Silenzio di tomba. Forse era per via della luna. La sua stessa ombra gli sembrava una compagnia eccessiva. Una gran brutta sensazione, aggirarsi da quelle parti. Un intruso. In mezzo ai morti. Adesso non perdere la testa, disse. Non sei uno di loro. Non ancora» (p. 23). Ripensa ancora alla fortuna quando scopre che in una mazzetta di banconote era stato scavato uno spazio in cui era stata inserita una ricetrasmittente che lo rendeva rintracciabile e vulnerabile ai suoi inseguitori. «Piegò le banconote da cento sfuse e se le mise in tasca, poi risistemò il resto dei soldi nella cartella, poggiò la cartella sulla poltrona e rimase lì a guardarla. Pensò a un sacco di cose ma quella che gli rimase più impressa era che a un certo punto avrebbe dovuto smetterla di affidarsi alla fortuna» (p. 87. Il corsivo è mio). In questo contesto, evitare di ricorrere alla fortuna da parte di Moss potrebbe voler dire la necessità di predisporre le cose con maggiore calcolo, essere più accorto e meno approssimativo nella scelta delle sue mosse.

Ma per quanto grande sarà il suo impegno, le forze cieche e terribili in azione non mancheranno di raggiungerlo. L’ironia della fortuna giunge al suo culmine quasi al termine del libro, e della vita di Moss, nell’ultima conversazione che leggiamo tra lui e la ragazzina autostoppista che porta con sé: «Chissà dove sarei in questo momento se stamattina non ti avessi incontrato. Non lo so. Sono sempre stata fortunata. Nelle cose di questo genere. Nell’incontrare le persone giuste. Ah sì? Be’, se fossi in te non parlerei tanto presto. Perché? Hai intenzione di seppellirmi in mezzo al deserto? No. Ma di sfortuna ce n’è tanta, al mondo. Se non te ne vai prima del tempo, di sicuro ti becchi la tua parte. Mi sa che la mia parte l’ho già avuta. Sono convinta che mi aspetta un cambiamento. Anzi, si è fatto aspettare fin troppo. Ah sì? Be’, secondo me non è vero. Perché dici così? Lui la guardò. Voglio dirti una cosa, sorellina. Se c’è una cosa a questo mondo a cui non assomigli proprio, è una montagna di fortuna ambulante» (p. 189. Il corsivo è mio). Dico ironia perché di lì a poco arriveranno i giustizieri che faranno fuori sia Moss che la ragazzina. Quello con Moss è stato allora l’incontro decisivo poiché le è costato la vita, il cambiamento da lei auspicato ma dall’esserci alla morte, forse nell’ambito di questo romanzo la fortuna più auspicabile.

Questa potentissima dinamica deterministica è però rappresentata e allo stesso tempo messa in crisi e contestata dall’interno dal personaggio in assoluto più interessante del romanzo, il già citato Anton Chigurh, definito l’«invincibile signor Chigurh» (p. 114), un killer psicopatico che come una scheggia impazzita va al di là di ogni schema, piano, disegno prestabilito. Chigurh ha tutto l’aspetto di un agente del caso, della fortuna, con un formidabile e allo stesso tempo inquietante senso dell’equilibrio e della giustizia, un demone insensibile e amorale, oltre l’etica comune ma con una ferrea morale personale che lo pone su un piano inconfrontabile con quello del resto dell’umanità. In realtà, come le temibili forze che inseguono Moss e che a un certo punto si condensano nel killer, Chigurh è una figura da mitologia greca, una spaventosa Erinni dallo sguardo glaciale e profondissimo, che non arresta la sua azione fin quando tutti i pezzi non sono ritornati alla loro giusta composizione.

Chigurh è un dispositivo di disvelamento. La sua brutalità intimorisce e terrorizza, disponendo di una legge personale follemente eccentrica che lo colloca al di là del bene e del male. E nonostante ciò, riesce a esercitare una vaga forma di benemerenza dando la possibilità ai suoi condannati di scegliere, facendo raccogliere la loro esistenza in un unico e forse ultimo istante di accumulazione di verità e di conoscenza, intimando di optare per la testa o per la croce di una moneta lanciata e con cui si può vincere e perdere tutto. Chigurh grazia alcune delle sue vittime nell’attimo della massima decisione, permettendo di uscire dalla macchina deterministica che è l’essere per compiere da sé, almeno una volta durante la loro esistenza, una scelta di cui ne vale del loro stesso essere, la loro vita.

È lo stesso Chigurh che spiega questo concetto al proprietario della stazione di rifornimento in cui fa sosta, colpevole di aver posto alcune domande di troppo e di averlo indispettito. Il caso, se è veramente tale, dà ragione alla scelta del negoziante, al quale Chigurh fa dono della monetina, lo strumento della sua salvezza: «Qualunque cosa può essere uno strumento, disse Chigurh. Cose piccole. Cose che non noteresti neppure. Passano di mano in mano. La gente non ci fa caso. E poi un giorno si fanno i conti. E dopo niente è più come prima. Be’, uno dice. È solo una monetina. Per esempio. Non ha niente di speciale. Di cosa potrebbe essere uno strumento? Vedi qual è il problema. Che si separa l’atto dalla cosa. Come se le parti di un certo momento della storia fossero intercambiabili con quelle di un altro momento. Sì. È vero. Siamo sicuri?» (p. 47. Il corsivo è mio).

L’apice della filosofia di Chigurh si ottiene comunque in quello che può essere senz’altro il punto più denso del romanzo, il colloquio tra Carla Jean, la moglie di Moss, e Chigurh stesso. Chigurh aveva offerto a Moss la possibilità di salvare la moglie se gli avesse dato i soldi della cartella. Ma, come lui stesso le dice: «Tuo marito, mi dispiace dirtelo, ha avuto la possibilità di impedire che ti fosse fatto del male ma l’ha rifiutata. Gli è stata data la scelta e ha risposto di no. Altrimenti adesso non sarei qui» (pp. 206-207). Chigurh è perfino dispiaciuto della fine che farà Carla Jean, ma nonostante le sue implorazioni il destino che si è venuto a creare su di lei non muterà. A meno della grazia che Chigurh le concede del lancio della monetina, tuttavia a lei sfavorevole. Gli uomini credono di essere padroni di quel che fanno durante la loro vita, come Moss che non poteva credere che quello che gli era capitato fosse soltanto un colpo di fortuna, bensì un’occasione che dopo essere stata colta (e naturalmente poteva anche non esserlo) doveva sfidare e dominare, uscirne vincitore. Afferma allora la giovane donna: «Non so cosa ho fatto per meritarmelo, disse. Non so proprio. Chigurh annuì. Probabilmente lo sai, disse. C’è una ragione per tutto» (p. 207). Parole dette a una persona, Carla Jean, assai devota e religiosa ma che nel momento in cui la sua fede doveva sostenerla invece la smarrisce, e si piega al gioco di Chigurh della monetina. Obbedisce anche lei al caso. Le brevi, secche ma definitive battute che si scambiano i due sono il suggello di questo assoluto determinismo: «Tu non hai colpa di niente. Lei scosse la testa, singhiozzando. Non hai fatto niente. È stata solo sfortuna» (p. 208. Il corsivo è mio).

Viene alla mente uno dei brani più famosi del Principe, in cui Machiavelli concettualizza, ancorché in poche righe, il ruolo enorme che la fortuna gioca nell’esistenza mondana degli umani, se vogliamo anche cosa è tale esistenza da un punto di vista metafisico: «Non mi è incognito, come molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo siano in modo governate dalla fortuna, e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno; e per questo potrebbono giudicare che non fusse da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione delle cose grandi che si sono viste, e veggonsi ogni dì fuori di ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, sono in qualche parte inchinato nella opinione loro. Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi» (Principe, XXV). È veramente curioso che Machiavelli ripartisca in modo così netto l’influenza della fortuna nella metà delle azioni, lasciando spazio, almeno apparentemente, al libero arbitrio. Ma assecondando la natura rerum di Chigurh, ciò non deve affatto sorprendere, essendo la fortuna degli umani perfettamente ripartita in due metà: le due facce della monetina, del caso, che essendo arrivati entrambi allo stesso punto agisce risparmiando la vita o prendendola con sé.

Come detto all’inizio, i protagonisti del romanzo muoiono tutti: Moss, Wells, il suo mandante, molti messicani, Carla Jean. Solo di Chigurh, in modo sorprendente, non si sa bene che fine faccia. Dopo aver ucciso Carla Jean, viene colpito da una macchina in corsa alla guida della quale c’erano dei giovani perditempo drogati che non si erano fermati al semaforo dell’incrocio, da cui, giustappunto, stava transitando Chigurh. Molte ossa rotte, ferite alla testa, contusioni, lui che si allontana a piedi dal luogo dell’incidente con una camicia comprata a un ragazzo che passava di lì, annodata intorno al braccio e al collo. Quest’ultima scena può essere intesa in modo variabile: dall’ironia del caso che si vendica anche del suo stesso agente, uno sciocco incidente d’auto che lo mette fuori gioco, al caso che interviene per ristabilire l’equilibrio sull’intera vicenda, in cui tutti avevano finito per perdere qualcosa, tranne, almeno fino a quel momento, proprio Chigurh.

A prescindere dalla plurivocità di questo episodio, ha forse ragione lo sceriffo a interrogarsi in maniera così serrata sulla sua esistenza e in generale sulle sorti del mondo, lui, un vecchio tra i sopravvissuti come l’abbeveratoio con cui si conclude il romanzo, che alla fine realizza concretamente di aver visto e vissuto in poche settimane tutto l’intollerabile della vita.


[1] L’edizione utilizzata è C. McCarthy, Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2005), trad. di M. Testa, Einaudi, Torino 2006. I numeri di pagina sono indicati tra parentesi tonde nel corpo del testo.

Lascia un commento