di Stefano Piazzese
«Il tragico è la contraddizione sofferente»[1]. A partire da questo sguardo sulla vita, Kierkegaard elabora il proprio pensiero lungi dal modo sistematico (qui sta la distanza da Hegel), anzi, proprio il tragico è l’elemento che determina la problematicità di ogni sistema filosofico. Tragico è il luogo dove il toglimento di ciò che dona la morte conduce inevitabilmente a essa: questo motivo il filosofo lo prende dalla celebre spina nella carne (σκόλοψ τῇ σαρκί) di cui parla Paolo di Tarso (2Cor., 12, 7), e posta questa considerazione Szondi definisce la filosofia di Kierkegaard l’inizio religioso di un pensiero areligioso[2] (definizione assai distante dalla Stimmung kierkegaardiana se si pensa che il teologico da lui inteso non è una dimensione periferica, per così dire, della sua riflessione) al cui centro è posto il concetto di contraddizione (Modsigelse)che rimane sempre irrisolta se pensata solo in forza della realtà. Una via d’uscita da questa irrimediabilità è tuttavia possibile, ma essa risiede nel «“modo di vedere” dell’uomo, che ha così la possibilità di raggiungere la via d’uscita, almeno di superare la contraddizione in una prospettiva più elevata, alla quale la via d’uscita non interessa più»[3] – e dunque si tratterebbe di un ‘superamento’ fittizio. Il pensiero di Kierkegaard si caratterizza, sin dal suo inizio, come una profonda speleologia dell’umano fortemente animata dalla riflessione sul tragico, ‘luogo’ in cui la contraddizione rimane irrisolta e mai superata. Ecco l’elemento par excellence che segna ogni vicenda tragica, l’esistenza stessa dell’uomo tragico. Vicende nelle quali la disperazione non conosce una parola definitiva che possa placare l’irrimediabile della contraddizione. Ai fini della presente riflessione, verranno presi in considerazione alcuni passi tratti da tre opere del filosofo: Aut-Aut, Timore e tremore e Briciole di filosofia.
In Aut-aut il pensatore danese dedica ampio spazio al concetto di tragico, affermando che lo sviluppo storico di quest’ultimo è un evento che rimane entro i limiti del concetto stesso, dentro i confini storici delle sue evoluzioni nel susseguirsi incessante di epoche e di paradigmi culturali[4]. Anche se verrà preso in esame solamente quello che Kierkegaard dice sul tragico antico, è opportuno tenere presente che il tragico moderno ha in sé il riflesso della propria antica matrice. Ne consegue che esso è ‘visto’ sempre nella sua continuità con il tragico antico.
Kierkegaard risponde alla domanda sull’essenza del tragico e quando affronta il tema della colpa[5] che piomba sull’eroe tragico dice chiaramente in cosa consiste il nucleo di una tragedia: «Il tragico contiene una malinconia e un farmaco che in verità non si deve disprezzare; […] Per originale che possa essere ciascun individuo, egli è comunque figlio di Dio, del tempo, del suo popolo, della sua famiglia, dei suoi amici»[6]. Nell’approfondire teoreticamente i concetti del pensiero teologico-filosofico di cui ci occupiamo, non si può non considerare la matrice teologico-cristiana, la quale fa sì che parlare della tragedia e del tragico comporti la necessità di dare uno sguardo profondo al terreno teologico da cui il pensiero del filosofo prende le mosse.
La malinconia che il tragico ha in sé, nel modo della sua ineluttabilità, appartiene alla condizione umana: impossibile è sfuggire a ciò che nel suo manifestarsi come evento che scuote la vita dell’uomo è parimenti anche suo ristoro. Bisogna, a questo punto, fare un opportuno distinguo tra angoscia e sofferenza: la prima, fondamentale determinazione tragica, la si ritrova nella trattazione del filosofo in riferimento alla tragedia antica, ovvero all’Antigone di Sofocle – Antigone, a causa del segreto che custodisce sin da bambina, ha gettato la sua anima in braccio all’angoscia; la seconda è connessa al concetto di colpa e pertiene tanto al tragico antico quanto al tragico cristiano[7]. Risulta imprescindibile un accenno più articolato al concetto di angoscia in merito ai passi kierkegaardiani citati (idea che attraversa tutte le opere di Kierkegaard, e che richiederebbe una trattazione a parte per ognuna di esse; motivo per cui si farà riferimento, per adesso, solo all’opera Aut-Aut) – va ricordato, ancora una volta, che il filosofo e teologo sta tentando di formulare una definizione del tragico moderno a partire dal tragico antico (tragico e tragedia s’incontrano, dunque, in questo pensiero teologico-filosofico):
Infatti l’angoscia è una riflessione e per questo si distingue essenzialmente dalla sofferenza. L’angoscia è l’organo col quale il soggetto si appropria della sofferenza e se l’assimila. L’angoscia è la forza di movimento che fa breccia e insinua la pena nel cuore di qualcuno. Ma il movimento non è rapido come un dardo, è successivo; non esiste una volta per tutte ma è sempre in divenire. Come uno sguardo intensamente amoroso spasima per il suo oggetto, così l’angoscia guarda alla pena per desiderarla[8].
Secondo quanto appena letto, è possibile affermare che la dialettica del tragico è dialettica dell’esistenza in quanto l’angoscia, stando alla definizione di Kierkegaard, si caratterizza come una vera determinazione tragica corrispondente all’antico motto quem deus vult perdere, primum dementat (a quelli che vuole rovinare, Dio toglie prima la ragione). La tragicità dell’angoscia consiste nel fatto che essa contiene un momento ulteriore che la porta ad attaccarsi maggiormente all’oggetto per cui patisce, generando improvvisamente la pena perché lo ama e lo teme allo stesso tempo[9]. (Ecco il seme che germogliando si dirama teoreticamente in tutto il pensiero di Kierkegaard: il tragico è all’origine di ogni discorso che vuole cum-prehendere l’esistenza). L’angoscia ha quindi una funzione doppia: da una parte essa è il movimento che scopre, che procede per continui assaggi, e individua la pena girandole attorno; d’altra parte è improvvisa e genera tutta la pena in men che non si dica, così che quest’attimo subito si dissolve in una successione.
Ma il tragico lo si può cogliere in Kierkegaard solo a partire dal confronto che esso esige, reclama, con la fede cristiana come passione; proprio la passionalità della fides sancisce la differenza tra eroe tragico e cavaliere della fede. La figura presa in esame dal filosofo in Timore e tremore è quella di Abramo, dalla cui vicenda emerge il concetto di paradosso, elemento teoretico che, come evidenzia Salvatore Natoli, traccerebbe una linea di demarcazione netta tra spirito tragico e cultura cristiano-giudaica: se la contraddizione è il centro nevralgico della tragedia attica, il paradosso è l’elemento caratterizzante la fede cristiana. Va aggiunto che, come ha rilevato Simone Weil, il concetto di contraddizione è tuttavia presente anche nella narrazione biblica. (Anzi, alla luce di questa osservazione è possibile individuare una grande vicinanza tra la tragedia greca e il cristianesimo, che non è certo povero di spirito tragico. Non sarà che il cristianesimo avendo assorbito il bagaglio semantico della grecità, rielaborandolo e ri-creandolo sui generis, ha per conseguenza ‘preso’, in certa misura, anche lo spirito e il linguaggio della tragedia? Quale affinità tra l’ἡδυσμένος λόγος [Arist., Po., 6.3, 1449b], in tutta la potenza fondativa del suo universo concettuale, e la vicenda del λόγος-σάρξ [Vangelo di Giovanni] annunciato dal κήρυγμα e che la chiesa dei primi secoli ha pian piano elaborato teo-logicamente? La risposta che qui viene data alla prima domanda è affermativa; il secondo quesito comporta un impegno di ricerca per rispondere nel modo più esaustivo possibile anche alla prima domanda, obbiettivo che qui non è possibile perseguire).
Continua Kierkegaard:
L’uomo può rimanere un eroe tragico con le sue proprie forze, non un cavaliere della fede. Quando un uomo intraprende il cammino aspro in un certo senso dell’eroe tragico, allora molti possono consigliarlo. Colui che va per la via stretta della fede, nessuno lo può consigliare, nessuno riesce a capirlo. La fede è un prodigio, eppure nessun uomo ne è escluso: poiché ciò in cui ogni vita umana si unisce è la passione e la fede è una passione[10].
Anche a partire da questo passo si può constatare una vicinanza nella distanza, ovvero: è legittimo affermare che l’eroe tragico (va ricordato che viene adoperata questa definizione per rimanere entro i confini del discorso dell’autore di cui si parla, poiché si ritiene più opportuna quella di uomo tragico), nel dispiegarsi della sua drammatica vicenda, sia avulso da qualsivoglia forma di πάθος (stesso tema del verbo πάσχειν, soffrire)?[11] Se passione è anche patimento, di certo difficilmente si potrebbe rispondere ‘no’ al quesito appena posto, visto che il patire caratterizzante l’eroe tragico è punto nodale del dramma.
Kierkegaard afferma che «l’eroe tragico rinunzia a se stesso per esprimere il generale; il cavaliere della fede rinunzia al generale per diventare il Singolo»[12] (e qui ogni confine precedentemente ben definito inizia a essere labile. Ciò che per il filosofo determina l’eroe tragico è presente anche nella vicenda di Gesù che, stando a Weil, per alcuni aspetti è molto vicina a quella del Prometeo eschileo[13]). Nel caso di Agamennone, come leggiamo nell’Orestea di Eschilo, si verificano quei tratti costituenti la linea di demarcazione tra eroe tragico e cavaliere della fede: «l’eroe tragico compie il suo atto e trova riposo nel generale, il cavaliere della fede si mantiene continuamente in tensione. Agamennone rinuncia a Ifigenia e con questo ha trovato riposo nel generale, lotta ora per sacrificarla»[14]. La differenza tra eroe tragico e cavaliere della fede sta nel fatto che il dovere e il desiderio sono posti “l’uno di fronte all’altro” come elementi che caratterizzano e definiscono in modi diversi l’esserci delle due figure in questione. Difatti, in una nota a piè di pagina, Kierkegaard approfondisce tale differenza: «L’eroe tragico ha la certezza che l’obbligazione morale è totalmente presente in lui per il fatto ch’egli la trasforma in un desiderio. Così Agamennone può dire: la prova ch’io non vengo meno al mio dovere di padre è che questo mio dovere è il mio unico desiderio»[15].
L’eroe tragico è colui che «rinuncia al suo desiderio per compiere il suo dovere. Anche per l’eroe della fede il desiderio e il dovere sono identici, ma egli deve rinunciare a entrambi»[16]. Così la figura di Abramo e quella di Agamennone, le loro stesse vicende non possono che avere dinamiche ed esiti differenti; il primo «quando allora vuol rassegnarsi rinunciando al suo desiderio, non diventa più il cavaliere della fede: poiché il dovere assoluto esige precisamente ch’egli vi rinunci. L’eroe tragico ha raggiunto un’espressione più alta del dovere, ma non un dovere assoluto»[17], e forse la sua ὕβρις, come nel caso di Agamennone, consiste nell’aver aperto il dovere al desiderio (dinamica del doppio).
Il Singolo[18], nel suo de-cidersi[19], si trova di fronte alla possibilità[20] di essere eroe tragico o cavaliere della fede, e dunque l’appartenere a una categoria o all’altra dipende esclusivamente dalla volontà del Singolo, solo questo «può decidere se ora si trova realmente in uno scrupolo o se è il cavaliere della fede»[21]. È possibile constatare come in questo discorso venga meno ogni connessione concettuale con la dimensione della necessità, uno dei pilastri della tragedia antica presente, in particolar modo, nel tragico eschileo. La teoresi filosofico-teologica kierkegaardiana, affermando la centralità del Singolo, si concentra sul momento della scelta; la possibilità di scegliere, a sua volta genera angoscia, e quest’ultima è vertigine della libertà. Ma se il Singolo, come si è detto prima, nel suo de-cidersi esercita ipso facto una scelta, bisogna altresì constatare che il trovarsi nell’irrimediabilità del dover scegliere gli viene solo ed esclusivamente dal dominio di necessità – da un evento, cioè, che precede la scelta tra due o più possibilità – poiché egli, benché libero di scegliere, non è libero di non scegliere, ovvero non può scegliere di non trovarsi in quella determinata situazione che gli piomba addosso e per la quale deve decidersi: deve compiere una scelta giacché la libertà di scegliere è sempre preceduta dall’incombere di quella situazione per la quale egli è chiamato decidere. Nonostante ciò, l’intreccio di necessità e libertà, fondamento ancestrale della cultura greco-tragica, non è del tutto assente nelle opere del filosofo danese nel senso che, anche se non esposto in modo esplicito e chiaro, è comunque possibile rilevarne l’ombra. Prima della possibilità di scelta vi è un evento che precede e che fonda questa stessa possibilità; l’evento che precede e che fonda l’aut-aut rientra nel dominio di Ἀνάγκη ed è il suo stesso incombere. Se, per entrare nello specifico, si operasse la trasposizione di quanto appena detto alla vicenda biblica che troviamo in Timore e tremore, è possibile constatare che l’attimo prima in cui Dio parla ad Abramo si verifica il fatto stesso che Dio si fa presente (Ge., 22, 1: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”»), e in quelle parole, in quello stesso evento, si manifesta l’incombere, dal punto di vista dell’uomo s’intende, di necessità che non prevede mai una via di fuga dall’accadimento che si sta manifestando, a prescindere dai contenuti del discorso di Dio che la narrazione mostra nei versi successivi.
In Postilla conclusiva non scientifica il filosofo di Copenaghen afferma in relazione a due suoi scritti, La ripresa[22]e Stadi, che l’uomo di cui parla «è lo stesso uomo il quale con la sua intelligenza vede il comico, che soffre il tragico, e nell’unità di entrambi sceglie il tragico»[23]. Perché l’uomo sceglie il tragico? Una risposta possibile è la seguente: nonostante la consapevolezza della dimensione comica che riguarda la vita, al soppesare delle due, il Singolo che si trova in quella determinata situazione comprende che nel tragico vi è il timbro originale dell’esistere, e che nella scelta del tragico egli cor-risponde al dominio di necessita poiché sa che non potrebbe fare altrimenti: ogni altrimenti è un tentativo illusorio di sfuggire al decreto incontrovertibile di ciò che contro ogni volontà accade e che non può essere mutato, che non può mutare, che non può esser altro da ciò che è nel suo accadere: «saggio è colui che si inchina di fronte all’inevitabile» (Aesch., Pers., v. 936).
Anche Salvatore Natoli, per quanto concerne il nesso necessità-libertà nella tragedia, si sofferma sul confronto tra cultura greca e cristianesimo. In relazione a quanto detto sin qui, è opportuno tornare a Natoli perché la sua argomentazione sul tragico coglie il tratto del pensiero di Kierkegaard di cui parliamo. Dopo l’Orestea il filosofo analizza il Prometeo incatenato: l’aspetto interessante che Natoli pone in risalto riguarda il rapporto conflittuale tra Prometeo e Zeus che anima tutta la vicenda tragica[24], conflitto che mostra prepotentemente la prima contraddizione del dramma, in quanto Zeus nelle altre tragedie eschilee è sempre presentato come il saggio, la saggezza è un suo attributo, e solo in secondo luogo egli è buono e giusto.
Nel Prometeo, invece, Zeus manca di saggezza al punto tale da mettere in crisi la stabilità della propria signoria: dall’emergente dissidio solo la conciliazione con Prometeo può salvarlo. Dunque, chi è Prometeo? La risposta di Natoli è la seguente: il Titano e Zeus sono la stessa cosa. Precisamente, Prometeo è la saggezza di Zeus, i due sono un solo e medesimo dio[25]. Da qui ha inizio un serrato confronto con l’altra radice dell’Occidente, il cristianesimo, dacché la prospettiva appena enucleata ha una diretta correlazione di elementi narrativi con la vicenda di Gesù che leggiamo nei Vangeli. Il Cristo è definito da Paolo di Tarso (1Cor., 1, 24) “sapienza di Dio” (θεοῦ σοφίαν) – anche per questa ragione Simone Weil parla di intuizioni precristiane nella grecità. E nell’apparente contrasto tra il Cristo e il Padre viene letto l’apparente scontro tra Prometeo e Zeus[26].
Va detto che, nel riflettere sul rapporto tra la tragedia attica e il cristianesimo, bisogna tener presenti tanto le analogie tanto quanto le significative differenze. Natoli, difatti, individua la distanza accanto a molte affinità. La distanza per eccellenza consiste nella differenza tra contraddizione, concetto che inerisce alla tragedia, e paradosso, concetto che appartiene alla fede cristiana. Nel paradosso «l’uomo si trova sempre in mezzo a un dilemma, a una via chiusa, a un’aporia da cui deve uscire attraverso la dinamica della decisione»[27]; per paradosso s’intende «quella situazione in cui l’uomo si trova “all’angolo”: esso è chiuso, non c’è più una via d’uscita, e allora c’è un ribaltamento non prodotto da lui»[28]. Il paradosso, nella sua accezione cristiana, è «impossibilia Dei: ciò che per l’uomo non è possibile, è possibile a Dio. La pietra rigettata è diventata la pietra angolare»[29]. Questo vuol dire che il centro della situazione non è più antropocentrico, e ciò è impensabile per i Greci; per essi nel cuore della vicenda è sempre posto l’uomo nel proprio rapporto con gli altri, con gli dèi, con la πόλις, e loro attenzione teoretica è rivolta costantemente alle conseguenze dell’agire umano, mai all’impossibilità che invoca l’intervento di un Dio onnipotente. Dunque, se da un lato è possibile affermare che «la tragedia è interna alla fede, perché è un problema di tensione fra due realtà: vedere che Dio mi salva e che solo Dio può salvarmi e che deve per forza salvarmi per essere Dio, e nello stesso tempo fare l’esperienza che in realtà non mi salva affatto»[30] (in questi termini è articolato il cosiddetto cristianesimo tragico), bisogna altresì considerare che la salvezza radicale che la fede cristiana attende dal Cristo, nei termini di un mondo senza la morte e senza il dolore, risulta una prospettiva totalmente estranea alla sensibilità culturale ed esistenziale dei Greci. Nella grecità la speranza è sempre «una manifestazione intensa della voglia di vivere»[31], mai rivolta all’Altro che salva. L’elemento che caratterizza lo stare dell’uomo greco (posta la problematicità di questa espressione, così come Vernant ha evidenziato[32]) è la fedeltà alla terra, «un sì alla vita e l’incontro con gli altri come elemento fondamentale di sostegno e di rinascita»[33].
Kierkegaard, più di ogni altro pensatore, ha dedicato molte delle sue pagine all’analisi del concetto di paradosso sostenendo, in Briciole filosofiche, che esso «è la passione del pensiero, e i pensatori privi del paradosso sono come amanti senza passione: mediocri compagni di gioco»[34]. Tale passione del pensiero è ciò che la tragedia condivide con la filosofia poiché il λόγος della filosofia può accogliere il paradosso: in primo luogo, il paradosso dell’autocoscienza, ovvero il paradosso che un ente tra gli enti, qual è Homo sapiens, pone la domanda sulla propria esistenza, sul proprio dove, sul proprio principio e sulla propria fine.
Attraverso il percorso teologico e filosofico di Kierkegaard, del quale sono stati mostrati anche i confini, si è arrivati alla conclusione che la dimensione tragica del pensiero in questione è determinata anche dal confronto tra eroe tragico e cavaliere della fede. Seguendo il filosofo danese, le motivazioni che possono confermare questa prospettiva sono diverse e sono state esplorate facendo riferimento alle opere prese in considerazione. L’impossibilità del risolvimento della tensione tragica (contraddizione) che anima l’esistenza, il paradosso in cui quest’ultima si trova costantemente immersa, la κρίσις generata dal paradosso e generante, a sua volta, la possibilità di scegliere – alla cui base vi è sempre necessità che precede ogni possibilità -, l’angoscia che emerge dalla possibilità di scelta da cui sorge l’accadimento del domandare e del rispondere, la passione del pensiero che lega indissolubilmente tragedia e filosofia sono tutti aspetti che fanno del pensiero kierkegaardiano un arduo tentativo di esplorare la vita a partire dal tragico che per il filosofo è la stessa dialettica dell’esistenza.
[1] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia» (Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift til de philosophiske Smuler, 1846), in «Le grandi opere filosofiche e teologiche», trad. di C. Fabro, Bompiani, Milano 2013, p. 1477. Le opere di Kierkegaard saranno citate da qui, pertanto, da ora in avanti, nelle note si riporterà solo il titolo dell’opera seguito da numero di pagina.
[2] P. Szondi, Saggio sul tragico (Versuch uber das Tragische, tratto da Schriften I. Theorie des modernen Dramas, 1978), trad. di G. Garelli, Aesthetica, Milano 2019, p. 48.
[3] Ibidem.
[4] S. Kierkegaard, Aut-Aut (Enten-Eller, 1843), cit., p. 151.
[5] In relazione al legame che intercorre tra il concetto di colpa tragica e quello di peccato originale in Kierkegaard cfr. ivi, p. 167: «Infatti la colpa tragica è più della colpa soggettiva, essa è colpa originale; ma la nozione di colpa originale, come quella di peccato originale, è una definizione sostanziale e questo elemento sostanziale rende recisamente la sofferenza più profonda».
[6] Ivi, p. 159.
[7] Cfr. ivi, p. 169.
[8] Ivi, pp. 173-175.
[9] Cfr. ivi, p. 175.
[10] S. Kierkegaard, Timore e tremore (Frygt og Bæven, 1843), cit., p. 273.
[11] Cfr. S. Natoli, Libertà e destino nella tragedia greca, a cura di G. Caramore, Morcelliana, Brescia 2002, p. 133. Qui il filosofo, prendendo le mosse dalle parole di Sergio Quinzio sulla dimensione tragica del cristianesimo, pone la seguente domanda (il corsivo è di Natoli): «“La tragedia è interna alla fede, perché è un problema di tensione fra due realtà: vedere che Dio mi salva e che solo Dio può salvarmi e che deve per forza salvarmi per essere Dio, e nello stesso tempo fare esperienza che in realtà non mi salva affatto”. Proprio in questa tensione vi è la tragicità del cristianesimo. Ora, come possiamo porci di fronte a queste due facce: il cristianesimo tragico e il cristianesimo non tragico?».
[12] S. Kierkegaard, Timore e tremore, cit., p. 285.
[13] Cfr. a tal riguardo S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane (La source grecque, 1953), trad. di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Borma, Roma 1999, pp. 194-199: «Prometeo è la saggezza di Zeus. […] Si deve pensare che Zeus e Prometeo sono un solo e medesimo Dio; e si deve interpretare la frase “Zeus ha posto come legge suprema: attraverso la sofferenza la conoscenza” in relazione al supplizio di Prometeo. […] L’idea di una situazione in cui Dio sarebbe separato dalla sua saggezza è stranissima. Ma essa appare anche, sebbene meno sottolineata, nella storia del Cristo. Il Cristo accusa suo Padre di averlo abbandonato, e san Paolo dice che il Cristo è divenuto maledizione davanti a Dio, al nostro posto. Nel supremo momento della Passione, c’è un istante ove appare qualcosa che agli occhi degli uomini somiglia a una separazione, a una opposizione fra Padre e Figlio. Certo non è che un’apparenza. Ma nella tragedia di Eschilo alcune parole sono sparse qua e là – e che senza dubbio avrebbero assai maggior significato per noi se conoscessimo il Prometeo liberato – rivelano che l’ostilità tra Prometeo e Zeus è soltanto apparente».
[14] S. Kierkegaard, Timore e tremore, cit., p. 289.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Nel pensiero di Kierkegaard la soggettività è intesa come Singolo così come è spiegata da G. Reale nella sua introduzione all’edizione Bompiani delle Opere del filosofo: «Per lui [Kierkegaard] il “Soggetto” deve essere, sì il centro della filosofia, ma in senso opposto a quello della metafisica idealista. Il Soggetto non è quello creato dall’astrazione concettuale, bensì quello reale dell’esperienza esistenziale, ossia è la persona individuale, il “Singolo”. Kierkegaard scrive: “… per farla finita con la falsa soggettività, si deve andare a fondo sino al “Singolo” – davanti a Dio”. E soggiunge: “è verissimo che la Soggettività isolata, come l’intende il tempo, è anche il male; […] Essa deve essere salvata con la soggettività, cioè con Dio, che è la Soggettività che costringe infinitamente” (Diario, n. 2775 ed. Fabro). Dunque, il “Soggetto” di cui parla Kierkegaard è l’individuo reale, appunto il “singolo”, che vale più della “specie e del genere a cui appartiene”» (G. Reale, in S. Kierkegaard, Le grandi opere filosofiche e teologiche, cit., p. 12).
[19] Dal latino decīdĕre, prefisso de e il verbo caedĕre, tagliare. Dunque, letteralmente decidere significa tagliare, tagliar via, dare un taglio, definire.
[20] Sul concetto di possibilità in Kierkegaard cfr. M. Vozza, Orizzonti del possibile, Moretti&Vitali, Bergamo 2017, pp. 37-44.
[21] S. Kierkegaard, Timore e tremore, cit., p. 291.
[22] Sull’approfondimento di quest’opera cfr. S. Piazzese, Kierkegaard: resilienza nell’ermeneutica del ricordo, in «Siculorum Gymnasium», Anno LXXIV, VII (2021), pp. 55-74.
[23] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», cit., p. 1149.
[24] Su questo tema, e più in generale su alcune considerazioni riguardanti la tragedia greca, mi permetto di segnalare al lettore la mia recente intervista a Salvatore Natoli in occasione della messa in scena del Prometeo incatenato al Teatro Greco di Siracusa durante la stagione INDA 2023, per la regia di Leo Muscato: S. Piazzese, Da Prometeo all’antropocene. Intervista a Salvatore Natoli, in «Engramma», n. 205, settembre 2023: https://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=5244
[25] S. Natoli, Libertà e destino nella tragedia greca, cit., p. 124.
[26] A tal proposito Natoli afferma che il contrasto tra Zeus e Prometeo è apparente. Secondo la sua prospettiva ciò emerge non solo da quanto è stato detto sin qui – i due sono la medesima divinità -, altresì perché ipotizza che la tragedia perduta Prometeo liberato avrebbe portato a compimento la conciliazione apparente tra i due che sono uno.
[27] S. Natoli, Libertà e destino nella tragedia greca, cit., p. 127.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ivi, p. 133.
[31] Ivi, p. 140.
[32] J.- P. Vernant, L’uomo greco, trad. di F. Cataldi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 3: «Cosa si intende esattamente quando ci si riferisce all’uomo greco, e in che senso possiamo ritenerci autorizzati a tracciarne il ritratto? […] il personaggio che si delinea al termine della ricerca presenta, più che un’immagine univoca, una figura scomposta in una molteplicità di sfaccettature».
[33] S. Natoli, Libertà e destino nella tragedia greca, cit., p. 140.
[34] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia (Philosophiske Smuler eller En Smule Philosophi, 1844), cit., p. 639.