Correzioni heideggeriane

Recensione a:

Eugenio Mazzarella

Correzioni heideggeriane

Neri Pozza, Vicenza 2023

Pagine 336

€16,00

di Enrico Palma

Questo libro di Eugenio Mazzarella, adoperando un tipo di esercizio filosofico-etimologico alla maniera heideggeriana, incarna esattamente l’essenza del titolo. Correzioni, ma non nel senso di correggere il tiro, le conclusioni, gli obiettivi di una filosofia che «è simile a una montagna, che ogni tanto degli umani cercano di scalare. Alcuni ben attrezzati arrivano alla cima, altri sono pieni di impegno ma non di strumenti e magari si fermano e tornano indietro, altri ancora pensano di aggredirla e finiscono con il precipitare. La montagna rimane lì, nell’aria e nella luce, dando respiro all’aria, riverberando luce»[1]. Il volume, che rispecchia l’itinerario di pensiero di uno dei maggiori interpreti heideggeriani, intesse un dialogo profondo con la scaturigine stessa di alcuni dei temi in assoluto più originari e urgenti del filosofo di Meßkirch. È l’autore stesso ad affermarlo, in un luogo ben preciso del testo che può servire da doppia premessa all’intero lavoro: «Voglia cioè essere un dialogo critico con ciò che consegna alla nostra riflessione, e quindi fondamentalmente un giudizio sulla tenuta speculativa delle sue domande, e delle risposte che a quelle stesse domande ha dato, posto che ancora ci intrighino. Un criterio che mi sembra tanto più necessario, quando la fascinazione, l’influenza di un pensiero rischia il binario morto di una scolastica senza respiro» (p. 206). Aggiungo allora, riprendendo l’etimologia a cui accennavo, che le riflessioni raccolte e organizzate in questo libro rappresentano un tentativo armonizzato di correzione nel senso sfasato del cum-regere, del con-reggere, del reggere insieme, laddove la domanda viene posta e sollecitata in un luogo specifico del domandabile circa l’essere, la tecnica, il nulla, il fondamento, la cura, e viene retta dal con del dialogo critico, di un’ermeneutica che non è scolastica ma viva interrogazione, tessuto organico e originale di pensiero, il reggersi appunto della speculazione sulle banderuole heideggeriane di senso che Mazzarella tiene issate.

Sono molte le sollecitazioni che provengono dalla lettura di questo volume: l’individuazione di temi centrali a cui si unisce, come detto, la rielaborazione teoretica, il rilancio filosofico del tutto fedele al dettato heideggeriano laddove il filosofo affermava che interpretare è sempre un andare oltre. Un oltre che si regge però nel luogo in cui la riflessione ha fondato un abisso e l’umano può abitarvi filosoficamente. Cercherò quindi di discutere alcuni di questi casi di co-reggenza in cui la filosofia heideggeriana, come ogni filosofia fondativa, in qualche misura metafisica nel senso del primum che regge il pensiero che da essa si dirama, consente un serio rilancio teoretico che illumini se stessa, l’origine, e dia soprattutto ancora da pensare, dove «è il cuore della sua forza» (p. 59).

Sin dalle analisi del paradigma storico-vitalistico diltheyano, Mazzarella ravvisa l’aspetto germinale almeno duplice del pensiero dello Heidegger impegnato a sviluppare il senso dell’essere überhaupt indagando l’essere di chi si pone la sua domanda, com’è noto la premessa generale con cui iniziano le speculazioni di Sein und Zeit: la storicità come modo d’essere del Dasein e l’assenza di fondazione, o altrimenti di fondamento, che diventerà nell’opera del ’27 caratteristica dell’essere-nel-mondo e dell’essere quel nullo fondamento di una nullità. A cui segue il crollo dell’oggettività storica come luogo disputabile della metafisica, che resisteva sin dai Greci, e l’irruzione dell’interiorità come bacino dell’accadere della verità, la novità dirompente del cristianesimo, e la negazione del mondo storico che si porta con sé in quanto scadimento dell’oggettività stessa in senso veritativo. È su questo retroterra, sull’essere fondato storicamente come spazio di apertura della possibilità del sé, che avverrebbe il cortocircuito metafisico di cui Heidegger si farà interprete finissimo in Sein und Zeit, quel problema della fondazione e del fondamento del mondo a partire dalla soggettività vissuta, che Mazzarella inquadra nei termini di un experimentum crucis, per così dire,a cui nondimeno una concezione cristiana dell’esistenza e dell’essere non può sottrarsi. «L’emergere del principio cristiano dell’interiorità come luogo della verità, come negazione della “verità” del “mondo”, della dipendenza dello spirito vivente da ogni datità naturale, per cui l’essere è il senso vissuto in cui solo si dà anche l’essere stabilizzato nella rappresentazione (l’idea) delle cose, l’emergere del principio della soggettività interna, per dirla con Hegel, se non trova una “fondazione” totalmente altra in un principio vivente transpsichico cui si affida in un vissuto di coscienza, non è altro che l’emergenza del nulla come immanente alla posizione dell’essere come senso, storicità, vita» (pp. 54-55).

La vita, come la rivela l’esperienza cristiana, è posta nella divaricazione inconciliabile tra l’essere e il nulla, tra il fondamento e l’assenza di fondamento, tra la significazione del mondo e la sua vacuità. Eppure, se la vita cristiana e il porsi di Cristo come problema della ragione, prima ancora che come problema della fede, rivela l’esistenza come una nullità che non si assicura su nessun fondamento, se lo spaesamento è ciò che l’esserci scopre in seguito al distanziamento dal si e alla sordità alla voce della pubblicità media in favore di quell’altra voce che proviene dal silenzio del sé, può trovarsi comunque il fondamento che questo nulla lo regge, che trattiene l’esserci dal suo cadere continuo nell’abisso del suo stesso niente.

È a quest’altezza, benché in un inquadramento generale storico-politico, volto ad accertare le premesse di Heidegger dentro Heidegger delle sue fatidiche scelte degli anni Trenta, che Mazzarella dedica a nostro giudizio alcune delle analisi più lucide e interessanti relative a quello che potrebbe considerarsi il nucleo più originario di Sein und Zeit, dove la filosofia tocca il suo fondo, il luogo in cui anzi la filosofia stessa come vita saputasi autentica nel nulla del suo domandare raggiunge il suo principio, cioè i paragrafi sull’essere della chiamata e della colpa. Con una sintesi formidabile, Mazzarella fornisce un’eccellente centratura del cambio di passo, della svolta di Sein und Zeit: «Il fine della conoscenza è sapere che il possesso di sé come appropriazione originaria del più proprio sé Stesso – l’autenticità – è l’originaria mancanza di possesso del Sé riguardo al proprio fondamento, difettività fondamentale che è da assumere proprio per essere sé» (p. 61).

L’umano è quell’ente il cui essere consiste nel non avere un fondamento, che è-nel-mondo ma lo è nel modo dell’indeterminatezza, dello sfuggire a se stesso continuamente come intendimento di questa stessa nullità. Dal cuore dell’umano, dall’origine di tale nullità da cui sgorga la voce che richiama, del non avere un fondamento e di essere diretto verso la fine come annichilimento della sua forma, la morte, emerge l’essenza del non. Una consapevolezza che è nichilistica nel senso del sapere il nulla che è il sé come niente originario, ma che ha la sua possibilità di appropriazione nel riconoscere di non potersi reggere da solo, di non essere nomos di sé, di non essere in grado di sostenersi, di essere dunque una colpa costitutiva che necessita di una grazia. L’esser-manchevole da parte dell’esserci, il suo essere sempre difettivo come assenza di un fondamento che non può trovare in sé, «l’infondatezza cioè del suo autointendersi in totalità come coscienza, sapere-Sé, è l’originaria colpevolezza dell’Esserci: l’esser-colpevole cui è consegnato l’Esserci per il semplice fatto di esistere e di non poter che esistere in quanto difettivo. Stato di colpevolezza che riguarda l’essere dell’Esserci, il suo come è in quanto è, non può essere superato (“redento”) nella coscienza, ma solo registrato in essa, in modo inconsapevole (inautentico) o in modo consapevole (autentico)» (p. 62). La consapevolezza di tutto ciò è l’autenticità, il più fondo sapere a cui l’umano può tendere, e quindi in senso pieno la sua scelta più filosofica.

Nella riflessione che Mazzarella dispone nel seguito di queste pagine, tale sapere, l’intollerabile del niente riguardo all’esistenza come riconoscimento di una nullità infondata, possiamo dire si condensi nel concetto di persona. La persona che salva e che ha due volti: quello di Cristo, la fede nel quale rinsalda sollevando l’esserci dal suo nulla e dando il fondamento che può giungere solo dall’esterno, e quello dell’Altro. Sul primo aspetto: «In questo ascolto (fides ex auditu) si realizza precisamente la nuova cercata fondazione della soggettività che si è autoriflessa, autoriferentesi: la giustificazione per fede. Per l’uomo interiore esser-giustificato, avvertirsi come tale, equivale all’esser-fondato nell’intuizione dell’evidenza. L’“opera” della fede è di fondamento saldo a ogni altra “opera” della vita, quella che ne regge in ultima istanza l’esposta fatticità, la “sicurezza” del cristiano”» (p. 67). Secondo quest’ottica, la fede è l’udito fondamento che prorompe dal sapersi tale nullità di fondamento, la sicurezza che accorre nella coscienza e che assicura alla vita. L’opera della fede, ricordando un titolo luziano, che sorregge nell’opera del mondo. La fede è ciò che ripara il non, che guarisce la mancanza che l’esistenza è nel suo essere, che rimedia alla sua colpa come difettività originaria. L’uomo è «scisso tra atto ed essere, tra il suo atto e il suo essere, l’uomo come esserci finito è questa scissione da reggersi come tale. La passione con cui confrontarsi, la croce da reggere è solo questa, e già gli basta; non essendoci per altro – razionalmente – nessuna esaltazione da aspettare in questa croce del finito. Insomma l’uomo è un esserci di finitudine rimesso a sé stesso» (p. 134). Da cui deriva lo scegliere la scelta della finitudine, che per Mazzarella si realizza in Dio: «Dio, il Dio personale, non è una deduzione dalla nostra finitudine, ma è una scelta della nostra finitudine» (p. 135).

E tuttavia l’assicurarsi su un fondamento è anche riconoscere la grazia nell’Altro, nella cura che è l’avere a che fare con il mondo ma che è un incontro-con, che è anzi un con nel senso del Mit-sein, in cui l’Altro si presenta nell’orizzonte esistenziale non come una lotta, un nemico, una minaccia, ancorché spesso lo sia, bensì come persona che lenisce la mancanza, che dona il fondamento. È in questo frangente che inserirei allora uno dei concetti più fortunati e penetranti della riflessione mazzarelliana, quel senso comunionale della cura con cui lo spaesamento e la caduta, espressioni del nulla che l’umano è, possono trovare non una soluzione ma una saputa possibilità di attardamento, altrimenti di attenuazione e dilazione del non. «Noi non veniamo da soli. Ma sempre “insieme”, in una previetà comunionale, che è il modo “proprio”, “autentico”, in cui la vita umana, e la mia vita, è sempre posta in sé stessa, nella sua verità come originarietà del suo fenomeno; del modo in cui nel mondo (del significato) appare – per quanto parvente (e disparente) sia e possa essere sul piano ontico. Ed è solo in questa sua natura comunionale che l’Esserci tiene il campo, e può tenere il campo, del suo accadimento ontico, il puro fatto della vita come gli è data nel suo sapere di sé e del lato che si tiene “aperto” nel suo esserci per il tempo debito, che gli è dato e di cui è in debito» (p. 193).

In questo senso, e attesi i temi che si è fin qui provato a discutere, se Heidegger aveva posto come summum del pensiero la riflessione sulla domanda leibniziana perché c’è l’essere e non il nulla?, il Denkweg mazzarelliano con Heidegger direi allora che aiuta a pensare con la profondità necessaria, che può dare solo la filosofia, l’essere nonostante il nulla.  


[1] A.G. Biuso, Heidegger e il complicato abisso dei «Quaderni neri», in «il manifesto», 8 novembre 2018, p. 11.

Lascia un commento