Guerra

Recensione a:

Louis-Ferdinand Céline

Guerra

(Guerre, Gallimard 2022)

A cura di Pascal Fouché

Con una Premessa di François Gibault

Traduzione di Ottavio Fatica

Adelphi, Milano 2023

Pagine 156

€18,00

di Sarah Dierna

Con Céline è così. Nei suoi romanzi ci si trova già in medias res, gli eventi sono narrati mentre accadono e i personaggi invocati senza nessuna presentazione come se si desse il caso che li conoscessimo già. Se questo è vero per il disincantato Bardamu del Voyage o il grande e piccolo Ferdinand di Mort à crédit – che presenta i sintomi del malessere che affliggerà il protagonista di Guerra –, ciò è ancora più vero per l’ultimo manoscritto dell’autore che era stato rubato nel 1944.

Conosciamo già il suo protagonista, Ferdinand appunto, appena ventenne. In lui rivediamo il Bardamu disilluso dall’amore e completamente sfiduciato dal genere umano e il piccolo Ferdinand del Passage a cui il padre intimava la guerra e che alla fine decide di parteciparvi. Proprio perché Céline aveva stabilito – come si legge in una lettera del 1934 – che questo romanzo sarebbe uscito dopo il Voyage e Mort à Crédit, sapeva già che non sarebbero state necessarie presentazioni o convenevoli.

Nel romanzo d’esordio Bardamu era rimasto ferito a un braccio ma non in modo grave, «non una ferita che poteva bastare, una scorticatura. Bisognava ricominciare»[1]. In Guerra la ferita riportata è la stessa ma si presenta assai più grave e a questa si aggiunge quella riportata alla testa, la stessa con cui si aprirà poi il romanzo del 1936.

Soprattutto mentre nel Voyage il dottore Destouches si avvia alla stagione autunnale nell’incertezza del domani e soggiorna, sì, ma per poco in un ospedale da campo in compagnia dell’inquieta ma ottimista Lola per poi partire per il Congo, nel manoscritto del 1934il protagonista ferito viene curato a Peurdu-sur-la-Lys, in Belgio, e parte poi per l’Inghilterra.

Rispetto ai due precedenti, questo romanzo è assai più statico. La vicenda si svolge quasi interamente all’interno dell’ospedale dove Ferdinand viene portato dopo essere stato soccorso da un soldato inglese. Qui incontra l’ambigua infermiera L’Espinasse, l’amico Bébert rimasto ferito al piede e sua moglie Angèle. Con loro traiamo conferma di come l’amore fosse davvero quell’infinito abbassato a livello dei barboncini, vale a dire svuotato di tutta la carica affettiva e ridotto a un atto qualsiasi, svolto per denaro o per distrazione, mai per un sentimento.

Céline mostra davvero tutto il disgusto per l’esistenza di cui «la guerra e la malattia» sono i «due infiniti dell’incubo», dove tutta la fatica sta nel «gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant’anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi»[2].

Guerra e malattia che invece rendono Ferdinand incapace di «perdere del tutto conoscenza, cioè insomma nell’orrore» (p. 25). A causa dei rumori interni alla testa e dei cannoni in trincea, per lui è diventata dura addormentarsi perché per farlo «ci vuole gioia, rilassatezza, abbandono»: «Una pretesa che non avevo più […] rinchiuso per sempre nella mia testa» (p. 82). Gli eventi sono vissuti e narrati dall’interno, nell’alternarsi di lucidità e delirio e non è possibile distinguere dove finisce l’una e inizia l’altro.

Al capezzale di Ferdinand ritorna la claudicante e piangente Clémence che, insieme al marito, si reca in ospedale per trovare il figlio. Sono personaggi assai infimi nella vita di Céline: sempre guidati dai debiti e dai sacrifici del Passage in ogni loro gesto, che nascondono però sotto la finta parvenza dell’affetto materno e paterno. Anche in questa occasione i due non fanno che rammemorare al figlio gli sforzi e i sacrifici compiuti per lui: «per una vita tutta in perdita ti abbiamo assicurato un’esistenza a costo di quali rinunce», «tu lo sai meglio di chiunque!» (p. 51).

Certo che lo sa bene Ferdinand, che infatti non è stato mai vezzeggiato o trattato come un ‘cocchino’ «nella [su]a cazzo di vita» (p. 47); che l’affetto l’ha dovuto elemosinare come la madre la vendita dei suoi centrini porta a porta mentre lo aveva ricevuto soltanto dalla nonna, Caroline, dallo zio Eduard e da Courtial.

La visita dei genitori diventa quasi fastidiosa per Céline. Questo attrito lo riconduce a motivi diversi e non tutti chiari. Un motivo antico e forse originario che adesso fa affondare i suoi sentimenti nell’odio, nell’istinto di alzare loro le mani come aveva già tentato una volta di fare da piccolo. Un rancore profondo che Céline in realtà ha ben presente:

Più di quello che mi è toccato patire mi è rimasto in testa che ormai non ero responsabile di niente come un fesso, manco della mia ciccia. Era peggio che abominevole, era una vergogna. Era tutta la persona che ti affibbiano e che uno poi ha difeso, il passato incerto, atroce, già tutto irrigidito, che era ridicola in quei momenti, sul punto di scassarsi e correre appresso ai suoi stessi pezzi. Io la guardavo la vita, lì pronta a torturarmi. (p. 33)

Tale persona affibbiatagli senza chiedere il permesso non è che l’esistenza stessa in cui Ferdinand si trova gettato; un’esistenza della quale non è responsabile perché non l’ha mai desiderata; un’esistenza che non si rivela affatto un dono. E tuttavia poco importa, i genitori pretendono che il figlio mostri loro la dovuta riconoscenza, la gratitudine che meritano.

Anche per questo i due attribuiscono tanta più importanza alla «Croce di Guerra» – vinta da Ferdinand per il coraggio mostrato in trincea – rispetto a quella che il ragazzo è in grado di sentire. Nelle parole della madre sembra contare davvero poco che il prezzo di una tale medaglia sia una guerra perenne ma nella testa del figlio; durante tutto il tempo della visita la donna si mostra infatti disgustata, assai più che dispiaciuta, dai malesseri del ragazzo; in lei come nel marito manca la tenerezza e le preoccupazioni necessarie verso le sofferenze del proprio ‘bambino’. Il culmine della loro ipocrisia si vede nel ripetuto abbassare la testa alle parole del prete che con il suo appello al «ricorso supremo» li illudeva e li consolava che «bastava fare quaggiù il proprio dovere presso qualcuno come mio padre aveva sempre fatto nella vita»: «Non concepivano quel mondo di atrocità, una tortura senza fine. E quindi lo negavano. Anche solo ipotizzarlo come un fatto possibile gli faceva più orrore di tutto» (pp. 91-92).

Per festeggiare il merito riconosciuto a Ferdinand il signor Harnache organizza un pranzo, presso la sua villa, alla quale prenderanno parte anche l’infermiera e Bébert. Si tratta di una tra le pagine più significative del libro, quella in cui si riconosce la penna di Céline, il suo umorismo e la sua amarezza, il modo geniale di raccontare un mondo perduto che non ha il coraggio di assistere alla propria distruzione e per questo la traveste di gloria:

Del mio orecchio non si parlava mai, era come l’atrocità tedesca, cose inaccettabili, irrisolvibili, equivoche, indecenti insomma, che mettevano in dubbio l’idea stessa che a tutto c’è rimedio a questo mondo. stavo troppo male, soprattutto all’epoca non ero abbastanza istruito per individuare, sopra la mia testa immersa nel ronzio, l’ignominia nel comportamento dei miei vecchi e di tutte le speranze, ma me la sentivo addosso a ogni gesto, ogni volta che sto male, come una piovra bella viscida e pesante come la merda, la loro enorme stronzaggine ottimista, insulsa, marcia, che rabberciavano a dispetto di tutte le dimostrazioni in mezzo alle vergogne e agli strazi acuti, estremi, sanguinanti che urlavano proprio sotto le finestre della stanza dove noi ci abbuffavamo, nel mio dramma personale di cui loro non accettavano neanche tutti i cedimenti giacché riconoscerli significava disperare un po’ del mondo e della vita e loro nonostante tutto non volevano disperare di niente, nemmeno della guerra che sfilava sotto le finestre del signor Harnache a battaglioni compatti e che sentivamo rombare ancora a colpi di granata con tanto di echi su tutti i vetri della casa (p. 94).

Intorno al tavolo c’è davvero tutta l’essenza marcia dell’umanità. Un’essenza che a Céline ha fatto perdere il sonno ma che in compenso lo ha portato a fare davvero la «bella letteratura» (p. 27); letteratura che ancora oggi rende i suoi lettori profondamente grati a questo pensatore visionario, lucido, spassionato e capace di restituire un resoconto veritiero del mondo con la musica del romanzo.


[1] L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, (Voyage au but de la nuit, Gallimard, Paris 1952), trad. di E. Ferrero, Corbaccio, Milano 2022, p. 506.

[2] Ivi, p. 446.

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