di Luca Dilillo
Erano lì. Su uno degli scaffali, in mezzo a libri più recenti. Quello è uno scaffale davanti al quale passo più di qualche volta al giorno. In verità ci passo davanti di continuo: si tratta quasi di una tappa obbligata e non per un motivo pratico specifico. Avviene, semplicemente. Ho ripreso in mano quel piccolo libretto rosso, un po’ rovinato dall’età, le pagine ingiallite dall’uso e dal tempo. La copertina coloratissima, quelle forme tonde e buffe. “Illustrazioni di Francesco Altan” c’è scritto sotto al titolo in blu. Allora non avevo la minima idea di chi fosse quel Francesco Altan e in realtà neanche mi interessava. Del resto, neanche oggi è così importante. Ma quelle immagini paffute, quei colori sgargianti: fa tutto parte della mia memoria più profonda. Ricordo questo libro praticamente da sempre: come accade per la nascita, non sono in grado di dire quando di preciso abbia iniziato a esistere nel mio mondo. Le riflessioni che seguono sorgono – per meglio dire, risorgono – dall’averlo ripreso in mano, quasi per caso, dopo non so quanto tempo. In attimi del genere viene in mente il funzionamento della Memoria: latente, addormentata ma viva, costantemente presente-assente, finché qualcosa non la risveglia. Uno stimolo improvviso di colpo la riporta alla coscienza immediata. Ed ecco che le Favole al Telefono di Gianni Rodari, uno dei libri della mia vita, richiamato dall’infanzia, trascina con sé ricordi meravigliosi ed emozioni dolcissime. Daccapo si apre un intero mondo, fatto di esperienze minute e delicate, semplici e tranquille. Un mondo che mi rasserena e mi intristisce, perché tanti di quei ricordi sono ormai dimenticati: sepolti nel buio, nella polvere, dentro anonimi scatoloni e in altri luoghi anche più lontani. Perduti per sempre. Ma come chiari passi sulla terra lasciano impronte, così eventi obliati e remoti lasciano tracce: un’emozione senza nome, un sentimento ineffabile tiene dietro alle cose scomparse. L’emozione è il profumo di ciò che si è dileguato. È quello che permane, quello che ritorna di volta in volta. Sono stati quegli affetti che non posso definire a partorire le parole che seguono. Sensazioni provate riprendendo in mano quel piccolo libretto rosso sgualcito dal tempo.
È possibile dire che le letture ci formano? Per quanto mi riguarda sì, è indiscutibile; io, perlomeno, ne sono profondamente convinto. Ma in senso letterale. Siamo composti della materia di quel che leggiamo, ed è vero anche il contrario: i libri che leggiamo sono formati di noi stessi. Un libro letto e vissuto è un frammento della nostra anima. La nostra personalità è fatta di libri ed essi sono impastati con il nostro spirito. Ciò avviene soprattutto durante l’infanzia, ma certamente non solo. Credo fermamente in questa strana teoria. Ho deciso di dare un nome solenne alla particolare e radicata affinità tra uomo e libro: l’ho chiamata natura biblica. Uomo, animal librarium, ζῷον βιβλικόν. Animale biblico. Allo stesso modo i libri sono fatti di noi, sono oggetti-uomini, enti umani. Come ogni processo tuttavia, anche questo non è spontaneo né naturale; vale lo stesso per la natura razionale che dovrebbe contraddistinguerci: essa non è innata, ma fatica ad affermarsi. Nel nostro caso, come l’uomo si faccia libro e il libro uomo, non saprei spiegarlo. L’unica cosa che so per certo è che ciò avviene, può avvenire. Con me è avvenuto e continua a farlo. È impalpabile eppure concreto come il più ostinato tra i fatti. Per esempio, nei libri che leggevo, nei quali mi sprofondavo nell’infanzia, si incarna tutto il mio essere-per-il-racconto. Amo raccontare e che mi si racconti. Racconto è per me il cuore di tutto. La Vita che viviamo, la Storia e le storie cui assistiamo e alle quali partecipiamo, sono tutte Racconto. Forse perché vi sono cresciuto dentro, essi, i racconti, sono cresciuti dentro di me. Sono nato con le Favole di Rodari, da sempre accompagnato dalla Fabula.
Quello scaffale da cui tutto è iniziato me ne ha fatto ricordare un altro, invisibile agli occhi ma forse ancor più presente nella mia vita: è il Ripiano dove riposano i Racconti. Uno strano luogo magico, che raccoglie in sé tutte quelle letture che hanno costruito la mia infanzia. Che hanno plasmato il bambino schivo, riservato, fantasioso e sempre con la testa per aria che sono ancora oggi. In quel Ripiano ci sono vecchi libri di varia provenienza, fiabe e favole, novelle e racconti: molti di questi, i più cari al mio cuore, venivano da anonime bancarelle di mercatini dell’usato. Ricordo ancora con sommo piacere quella spoglia edizione delle storie di Giufà, dalla copertina verde oliva, i racconti tradizionali siciliani, la leggenda di Colapesce… e poi c’era un libriccino apparentemente insignificante: conteneva la Favola del Castello senza Tempo di Gesualdo Bufalino. Questa la ricordo in modo speciale. I legami tra i libri sono strani: è strano quando da un libro visibile, stretto tra le mani, un filo dorato parte in direzione dell’Ignoto e della Memoria. Dalle pagine che contemplo, che tocco, che annuso, i miei sensi e le mie emozioni sono trasportati verso libri invisibili, ormai non più presenti, non più toccabili né odorabili. Le Favole che ho davanti mi conducono ad altri racconti. Tra questi spicca il Racconto di Bufalino: la sua unica fiaba, il suo unico testo esplicitamente per bambini – espressione che da amante di Tolkien mi permetto di considerare discutibile… Come per Altan, ai tempi ignoravo chi fosse Gesualdo Bufalino; mi importava solo della sua storia. Tanto per ricreare un po’ di quell’atmosfera, ricordo che prima di tutto mi colpì quella grossa falena giallo-bruna, col teschio sulla schiena: Acherontia atropos. Sfinge testa di morto. La passione per animali e insetti mi spinse a cercare informazioni. All’inizio credevo fosse solo un’invenzione fantasiosa, ma mi sbagliavo. Quella creatura della notte recava davvero un simbolo di morte su di sé: affascinante! La storia, per i miei gusti, partiva subito con il piede giusto. Scrivere è come scolpire e dipingere attraverso le parole: chi sa farlo bene riesce ad alludere, evocare, rendere visibili immagini di materia lontana a partire da spogli segni grafici. Quella parvenza così vivida e al contempo così sfumata, corpo massiccio e piumoso di lepidottero, lugubre indice di Morte lontana – perlomeno agli occhi dell’infanzia – ti metteva subito su una strada tanto pericolosa quanto promettente: non eri davanti a una comoda favoletta della buonanotte. Chi inizia sotto il segno del teschio, con un fantasma aleggiante in una selva oscura, lancia un chiaro messaggio al bambino che legge: “io ho grande considerazione di te: non penso che tu sia un poppante da imboccare e coccolare. Per questo motivo ti introduco al Tempo, alla Memoria e alla Morte”. Rileggendo la Favola adesso, mi accorgo di molti dei simboli e dei riferimenti nascosti sotto le apparenze di un testo breve e semplicissimo: fa parte della maestria del colto e barocco scrittore di Comiso, della sua letteratura densa e stratificata. Ma così come non è mia intenzione analizzare il racconto, non voglio nemmeno parlare di ciò che significa per me oggi. Mi interessa piuttosto parlare di ciò che ha significato per il bambino di ieri, privo di tanti strumenti di giudizio, ma ricco di altri doni. Fra tutti, l’intuito: quel sentire immediato che la crescita, ahimè, attutisce. Poi l’innocenza: quella stessa purezza che permette a Dino, il protagonista della storia, di liberare gli Immortali dalla loro prigione di pietra e di inerzia. L’essere terreno fertile, vergine, ricettacolo di potenzialità dirompenti. L’essere spazio vuoto disponibile ad accogliere, gravido solo di meraviglia. È vero: bambini ormai non lo siamo più e mai più torneremo ad esserlo. Ma se con materia e memoria riaccogliamo l’infanzia, se facciamo rivivere le emozioni e le atmosfere di un tempo, allora forse possiamo recuperare il contatto diretto con quei doni perduti. Io ho provato a farlo per il tramite di quelle parti di noi che sono i libri. I nostri libri. Perfino quelli che non possediamo più. Ho scoperto tante cose, tante ancora ho da scoprirne. Non voglio dirle tutte e nemmeno sarebbe possibile. Questa è solo una piccola parte di uno dei miei viaggi. Riguarda me, ma ritengo comunque di poterla condividere: in ciò che ho ritrovato credo ci sia dell’universale.
Quell’esistenziale della mia vita che è l’essere-per-il-racconto mi ha rivelato la natura comune a tutte le storie che ho letto, ascoltato, visto e narrato io stesso. Ogni storia è prima di tutto, soprattutto, Racconto. Fabula. Fatti, eventi, avvenimenti, non importa se accaduti o meno: ma detti, comunicati, raccontati. Perfino nel caso-limite di una storia che consista in una sola immagine, senza movimento, senza alcuna progressione; perfino in questo caso condizione stessa della storia sarebbe la narrazione di quell’unica immagine: il suo racconto, la sua costruzione attraverso le parole. Lo svilupparsi coincide con l’esistenza. In principio era il Racconto. Senza di esso, nulla sarebbe. Potrà sembrare un’affermazione esagerata, ma di fatto, anche nel naturale scorrere del tempo e delle cose, senza memoria, voce, tramandamento, comunicazione, ricostruzione e registrazione, niente lascerebbe il suo segno sulla nostra realtà. Senza le operazioni del racconto, la trama del reale si sfilaccerebbe; non avrebbe consistenza, né connessioni, né significatività. Smetterebbe di essere trama, diventando flusso senza senso né scopo, dunque incomprensibile e inconcepibile. Il Racconto dà ordine alla nostra esistenza nel mondo: rende storia il caos. Tutto ciò è visibile in massimo grado proprio nell’arte narrativa, dove l’ordine non solo è trovato, ma inventato, creato e ricreato continuamente. Narrando diamo alla materia delle cose un nostro ordine, uno tra gli infiniti immaginabili: a nostra disposizione abbiamo possibilità illimitate; unica guida, la fantasia. Non uso questa parola a caso: se è vero che Fantasia non necessariamente è sinonimo di Finzione, a conti fatti, in qualche maniera vi rimanda. Rimanda al non-vero, a ciò che non esiste – o almeno, a ciò che non esisteva prima di essere immaginato… Con ciò non voglio dire che mi interessano solo i racconti di fantasia, ma che non ho interesse per la cosiddetta verità oggettiva. Proprio così: ritengo che quando si parla di Racconto, la questione della verità oggettiva non sia per nulla importante. E sono proprio i racconti di fantasia a farcene accorgere.
Qualche tempo fa, tra le mie contorte letture, mi è capitato di imbattermi in un interessante saggio di Maurizio Bettini che introduceva una raccolta di miti romani[1]. Il suo punto di partenza era questa domanda: i Romani hanno avuto miti propri, dello stesso tipo di quelli dei Greci? Bettini però spostava subito il focus, immergendosi in questioni di maggior profondità, e si chiedeva cosa di preciso dovesse intendersi per ‘mito’ e come gli stessi Romani definissero i loro racconti di carattere ‘mitologico’. Il saggio mi aveva intrigato non solo perché riportava il discorso sul significato originario di parole ormai da lungo tempo mutate e stravolte, ma anche per un motivo che tocca da vicino queste riflessioni: Bettini si soffermava a lungo sul termine fabula – che sta all’origine dei nostri fiaba e favola – che per i Romani aveva un valore molto simile al μύθος greco: quello, assai generico, di racconto, discorso. Non però discorso necessariamente vero, soprattutto se diamo a questo aggettivo il valore di ‘oggettivamente verificabile’. Anzi, per i Latini – ci dice Bettini – la fabula era più spesso un racconto inattendibile, privo di riscontri, ben diverso dalla narratio, il cui portatore è gnarus, ossia competente e affidabile. Quasi sempre la fabula rimanda a eventi lontani nel tempo e nello spazio, o comunque senza prove né testimoni: può essere opera teatrale, racconto tramandato oralmente, racconto mitologico in senso moderno, favola esopica, chiacchiera, voce, aneddoto, pettegolezzo. Fabula è insomma ciò che viene raccontato, indipendentemente dal suo valore di verità. Discorso inattendibile dunque? Sì, in un certo senso. Ma in un altro senso le cose potrebbero cambiare. Alla base della fabula c’è il fari: verbo che esprime un dire autorevole, significativo, addirittura performativo. Un dire che fa, crea, prescrive, preannuncia, determina. Al di là del carattere specifico del racconto tradizionale, garantito da antichità, sacralità e significatività, a noi interessa la misura in cui l’essenza del Racconto, slacciandosi dal valore della verità oggettiva, si connette a un altro tipo di valore, di differente qualità: più intenso e più profondo, se vogliamo. Di fatto, quando ascoltiamo o narriamo una storia non ci importa per nulla se questa sia vera, se racconti eventi realmente accaduti. Può anche darsi che sia così, ma non è l’importante, né ciò che cerchiamo. Noi cerchiamo al massimo quella significatività che apparteneva all’origine arcaica del verbo fari: Parola sacra, che vale, abissalmente. Forse la nostra considerazione per la fabula in quanto racconto che può non essere vero è scesa in basso, fino alla negatività e al dispregio, proprio perché la nostra visione del mondo si radica in un atteggiamento orientato fin dall’inizio a prediligere l’oggettività: se ciò che conta sopra tutto sono i fatti e la loro attendibilità – logica, storica, scientifica o giornalistica che sia – allora è chiaro che il racconto inventato perde di valore. Ma quante altre cose vanno perdute in questo modo! Ci basta cambiare prospettiva, ed ecco sorgere pianto e meraviglia: il nostro mondo personale, il bellissimo sentire, la vibrante ricchezza umana, l’esperienza dell’esistere… Ecco che tutto si trasforma. Quello che ci interessa allora è il puro raccontare. Ciò che significa per noi, per la nostra vita. L’estetica con cui ci appaga. Il piacere per cui ci dà i brividi. Le emozioni di cui ci impregna occhi, corpo e mente, facendoci infuriare, gioire, commuovere. Questo conta più di tutto, di questo ci occupiamo: di un racconto vero ma in senso più alto, vero in quanto vivo. Vivo di una vita del raccontare che è salvifica, riparatrice e liberatrice. Proprio come nella grande raccolta delle Mille e una notte, che ne è l’esempio perfetto; esattamente come avviene per la principessa Shahrazād e il sovrano Shahryar, il Racconto salva dalla morte, risana l’esistenza, libera dal male, apre all’amore.
Su questo versante mi ritrovo in perfetta sintonia con l’esperienza di un grande amante di Fiaba e Racconto come Italo Calvino, che proprio nell’introduzione al suo Fiabe italiane, immenso lavoro di selezione, raccolta e trascrizione in lingua italiana dei racconti del folklore nostrano, descrive la profonda trasformazione del suo animo dopo due anni di immersione nel mondo della Fabula: «riuscirò a rimettere i piedi per terra?»[2] si chiede Calvino. L’intero mondo circostante mutava, si adeguava a quel clima fantastico e potente: «Ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […] Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica del mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra»[3]. E tutto ciò non aveva fatto che confermare la sua antica convinzione, vale a dire che le fiabe sono vere. Esse sono «una spiegazione generale della vita, […] il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi di un destino; […] e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste»[4]. Calvino parla specificamente delle fiabe, piene di magia e avventura; ma ritengo che non ci sia descrizione migliore di questa per arrivare al cuore di ogni Racconto. L’esperienza del grande scrittore italiano è perfettamente collocabile nel seno segreto del puro raccontare, laddove ci si rivela un nuovo e superiore tipo di verità: la verità del destino, dell’esistenza, del vivere e del morire, della Memoria, dell’Emozione, della Fantasia, del Simbolo e, perché no?, del Paese delle Fate. Quello a cui Tolkien dedicava parole bellissime in un saggio sulla sua meravigliosa – e ultima – fairy-story, Smith of Wootton Major: «Faery rappresenta la via d’uscita (almeno mentale) dall’anello di ferro della consuetudine […] Ancora meglio, rappresenta l’amore: vale a dire, amore e rispetto per tutte le cose, “inanimate” e “animate”, un amore senza possessività per tutto in quanto “altro”»[5]. Amore totalmente disinteressato, libero da ogni funzionalismo e pragmatismo vantaggiosi ma limitanti e, in definitiva, inumani. Se dobbiamo conoscere la verità oggettiva unicamente in quanto pratica, utile o necessaria, il Racconto ci insegna a liberarci perfino da questo tipo inquinato della ricerca del vero, per discendere in quei luoghi profondi dove davvero sentiamo e viviamo l’esperienza indescrivibile del Più Importante.
Io, nato sotto il segno delle Favole e della Favola, ho deciso così di rendere omaggio a una delle esperienze più meravigliose della mia vita, dall’infanzia fino a oggi. Al Racconto devo moltissimo e spero che questo debito si protragga ancora a lungo, magari all’infinito. Il titolo di queste riflessioni si riferisce a un libro di Gilbert K. Chesterton, L’uomo eterno. È un libro apologetico, che parla di Cristo e del Cristianesimo, nella maniera paradossale e anticonvenzionale così tipica dello scrittore inglese. L’uomo eterno è Gesù Cristo, il Dio che si è incarnato e che eternamente si incarna nella storia, ma è anche l’essere umano che ha ricevuto nuova linfa vitale dall’evento della Resurrezione, rinascendo all’eternità. In modo simile, il racconto eterno è l’archetipo che eternamente si incarna nelle nostre vite, ma è anche l’essere umano che riceve vera vita – la vita del raccontare – dall’evento del Racconto. È Libro ed è Uomo: l’Eterno che diventiamo raccontando.
Uno dei miei sogni proibiti è sempre stato quello di creare un circolo di narratori: un club di racconta-storie. Un luogo di oralità, nel quale novellare, a viva voce, magari intorno a un fuoco, assediati dall’oscurità. Uno spazio della Fabula, aperto solo ad essa e solo per essa. Chissà, forse un giorno… Per il momento continuo a tenermi in ascolto, da sempre e per sempre avvinto, nelle profondità
[1] Si tratta, per chi fosse interessato, di Miti Romani: il racconto, a cura di Licia Ferro e Maria Monteleone, Einaudi, Torino 2014. Il saggio introduttivo di Bettini si intitola Racconti romani che sono lili’u.
[2] I. Calvino, Fiabe Italiane, Mondadori, Milano 2023 (Introduzione all’edizione del 1956, p. XIII).
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. XIV.
[5] J.R.R. Tolkien, Il fabbro di Wootton Major (Smith of Wootton Major, 2005), trad. di Isabella Murro, Bompiani, Milano 2013, p. 107.