di Enrico Carmelo Tomasello
L’arte è più importante della vita […]
Perché essa, l’arte, contiene una cosa incontenibile. Lo scatto in avanti
P. Sorrentino
Definire la moda è un’impresa velleitaria, persino illogica se chi tenta di comprenderne il significato non appartiene a questo mondo ricco di contraddizioni indecifrabili e volti assenti. Eppure la proposta che offro a chi vorrà frequentare queste pagine non pretende di aggiungere una nuova visione sul tema ma ha il carattere della domanda condivisa. L’andare tipico della meditazione che pone sotto una luce nuova le apparenze illusorie di uno scenario costantemente sotto i riflettori, a cui non si concede possibilità di replica. Continuando ad interrogare i corpi irrigiditi dei manichini che abitano le vetrine dei negozi in centro o i volti dei modelli e delle modelle durante le sfilate, potremmo trovare una risposta al perché la moda si manifesti sempre come fenomeno irraggiungibile, diafano ed illusorio.
Come l’arte, la moda risponde allo stesso profondo desiderio, ovvero quello di superarsi, superare continuamente se stessa. Sino ad abbandonare anche ciò che la caratterizza nel profondo, come il senso del bello ed un messaggio da veicolare. La moda si manifesta come esaltazione dei corpi. Scintilla nella pupilla di chi resta immobile di fronte alle sfilate in passerella, immobilità nel dinamismo dei tessuti, illusione dolce e dolorosa per chi crede ancora nella durata senza limiti e nella possibilità che qualcosa sfugga all’inevitabile declino di ogni cosa. La moda accoglie chiunque le resti fedele ma ama chi la stravolge senza tregua, a volte con movimenti lenti altre con spostamenti rapidi, istantanei. La moda rende obsoleto ciò che non è più di moda, per questo non tollera la ripetizione. La moda è poetica, dunque creatrice. La moda è vanità di tutte le vanità perché perfettamente inutile ma necessaria allo stesso tempo. La moda è sacra ed ha i suoi seguaci, per questo si rende riconoscibile nell’epifania del bello. La moda infine non ha luogo, né forma o limiti di ogni sorta. È sufficiente a se stessa come ciò che non serve a nulla, dunque non è serva di nessuno. Di conseguenza non può che essere uno dei tanti travestimenti, un modo diverso di dire: libertà.
1. Per una dialettica del vestire i corpi
Un fenomeno sociologico ed antropologico (relativamente recente) come la moda è stato e continua ad essere oggetto di studio da parte di studiosi ai quali la moda suggerisce indicazioni sui desideri dell’essere umano. Le ricerche di mercato e gli aspetti legati alle motivazioni che spingono il consumatore ad acquistare un capo o un accessorio rappresentano l’aspetto meramente quantitativo della dimensione decisionale che determina l’acquisto. Ciò che non restituisce il fashion marketing è il peso specifico dell’elemento umano. Indagare le ragioni ed i perché siamo mossi dall’attrazione feticista verso un indumento, come sia possibile che l’indossare un capo possa influenzare il nostro umore e perché tutto ciò abbia un’importante ricaduta sociale sono tra le ragioni che hanno stimolato la mia curiosità e mi hanno spinto a tentare di abbozzare una risposta. Circa cento anni fa, il sociologo G. Simmel individuò nell’imitazione e nella differenziazione le due spinte fondamentali che guidano la nostra mente nell’intricato sentiero che conduce alla formazione della nostra personalità. Considerare quest’ultima in relazione alle diverse fasi della vita di una persona è fondamentale per non cadere in classificazioni troppo rigide e vincolanti. È utile invece cogliere il legame dicotomico che riposa in queste due forze. Poiché: «Nell’imitare non solo trasferiamo da noi a gli altri l’esigenza di energia produttiva, ma anche la responsabilità dell’azione compiuta. […] L’impulso a imitare, come principio, caratterizza un grado di sviluppo nel quale è vivo il desiderio di un’attività personale finalizzata, ma non c’è capacità di conquistare dei contenuti individuali per quest’attività o di ricavarli da essa»[1].
Il desiderio che invita all’imitazione è quello di chi vuole appropriarsi di qualcosa che rivede nell’altro ma non è capace di crearlo a partire da zero o dalle sue intuizioni basilari. Accoglie inevitabilmente questa spinta all’imitazione chi (nella fase dell’individualizzazione) vuole costruire un’immagine del proprio Io. Spesso tentando di delimitarne i contorni per far emergere il suo profilo, costituito da ogni singola scelta. «Nondimeno (la moda) appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi»[2].
L’altro elemento che condiziona il processo di formazione individuale è relativo all’esigenza di differenziarsi. Dato che l’omologazione totale non permetterebbe di riconoscersi tra gli altri, nutriamo il bisogno innato di proseguire verso una direzione personale pur conservando le indicazioni del gruppo. Spesso questo avviene con gradualità ed in maniera propedeutica. Abbracciando il nuovo, abbandoniamo atteggiamenti retrivi e sospettosi ma contemporaneamente ne siamo attratti ed incuriositi perché da quest’incontro si delineerà una nuova immagine di noi, una versione aggiornata di ciò che siamo o possiamo essere.
Il tratto grafico che possiamo immaginare, assomiglia ad un movimento sinusoidale che ripropone le due spinte in una sequenza infinita e ricorsiva in cui il rapporto tra l’ampiezza ed il periodo è costituito dall’io e l’altro. L’individuo occupa continuamente uno spazio ad una distanza direttamente proporzionale ai due estremi, dunque sempre in equilibrio tra le due forze. Delle volte più vicino alla propria personalità ed altre più vicino al sentire comune, ma sempre in rapporto proporzionale con queste. Un movimento che si ripercuote nei cicli della moda, come nelle acrobazie dei tuffatori olimpionici si ripetono torsioni ed evoluzioni sino all’impatto con l’acqua. Non importa quanto duri nel tempo un ciclo, ciò che è realmente importante è conservare il fascino di questa contraddizione implicita. Infatti il fascino della moda consiste: «sia nella possibilità di essere sorretti da una cerchia sociale, che impone ai suoi membri una reciproca imitazione […], sia nella possibilità […] di crearsi una sfumatura personale con l’intensificazione o con il rifiuto della moda»[3].
È sempre una questione di sfumature, di luce e di colori che rivestono un significato nuovo in relazione all’intensità luminosa che ci permette di percepirli in un modo o nell’altro. Persino il giovane Leopardi interrogandosi sul tema, ci suggerisce una caratteristica evidente che possiede la moda. Scrivendo nelle sue Operette morali ci ricorda che la moda corre, è che non trova mai tregua, poiché figlia della caducità come la morte[4]. In altri termini, il fascino mortale della moda consiste nel suo apparire simile ad un confine, al fatto che sia contemporaneamente l’inizio e la fine, la partenza e l’arrivo. È intrinseco nel suo essere, poiché la moda produce il nuovo ma nella novità riposa il germe dell’oblio. Tutto ciò che inizia contrae un debito con la fine, eppure nella moda si fa eccezione. Ciò che nasce c’è sempre stato, prende semplicemente una nuova forma e per questo sembra destinato all’immortalità. I Paesi meno sviluppati conoscono bene ciò di cui scrivo. Tonnellate di vestiti, accessori, scarpe e molto altro rientrano in questi luoghi per restarci. Infinite distese di capi d’abbigliamento usati, non venduti, difettosi o semplicemente fuori moda riempiono i camion e le discariche di nazioni come: Bangladesh, India, Pakistan, Cina, Thailandia, ecc. Questo è il volto oscuro della moda che diviene fast fashion. Una moda veloce che produce rifiuti e scarti come pochi altri settori al mondo. Certo, nell’ultimo ventennio la sensibilità relativa alla sostenibilità sta occupando una posizione centrale nei criteri di scelta dei consumatori ed in quelli di produzione di molte aziende del settore moda, ma non è detto che sia sufficiente.
Bisogna ritornare alle parole del sociologo tedesco per non lasciarsi corrompere dalla frenesia del consumismo a cui siamo sottoposti. «[…] per riassumere tutto il discorso, il vero fascino […] della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità, nel diritto all’infedeltà nei suoi confronti»[5].
Resta dunque ad ognuno di noi decidere se essere fedeli o infedeli alla moda, purché si tenga a mente che il suo fare progettuale è un gesto di creazione poetica, come il tentativo di dare nuovo senso e significato ai corpi che modifica anche l’ambiente circostante. L’atto del vestire e dell’indossare degli abiti può essere considerato antropologia perché descrive una prerogativa del genere umano. Quella della scelta. La decisione su cosa indossare non è una prassi banale o semplice vanità. Il come vogliamo apparire a noi stessi o agli altri ed il perché riponiamo parecchia importanza a questo momento, ci conduce ad esaminare la moda da una prospettiva stereotipata verso una visione molto più profonda di ciò che appare di fronte a noi.
2. Ovunque è moda
L’altro protagonista del rapporto instaurato tra noi e l’ambiente che ci circonda è il design. Questa capacità di saper leggere e modificare il linguaggio delle cose trova declinazioni nella quotidianità. Dagli oggetti che accompagnano le nostre giornate lavorative fino agli utensili di cui ci serviamo per cucinare, dall’architettura che modifica le infrastrutture fino agli studi sull’ergonomia che migliorano la produzione ed il nostro benessere psicofisico. Ogni prototipo ideato e realizzato dal designer si svincola dalla sua fissità funzionale, e così assume un significato ulteriore rispetto al suo uso “normale”. Il design è il risultato di questa visione complessa del mondo, ed il designer ne rappresenta la mente creatrice.
Parafrasando le parole di Ugo La Pietra, potremmo dire che il design è un sistema di comunicazione della società e della politica, la cui speranza consiste nel credere che gli esseri umani possano abitare il mondo nel modo più poetico. Seguendo la traiettoria delle linee immaginarie di questo ragionamento vedremo proiettata la nostra sagoma allo specchio ed il riflesso di ciò che siamo disposti ad essere o che vorremmo poter essere. Esistono infatti migliaia di modi di stare al mondo. Il design semplicemente ci suggerisce quelli più sostenibili, in collegamento col nostro modo di emozionarci e con la possibilità di ottenere il meglio da ciò che abbiamo a disposizione. Il risultato è che il design inteso come punto di vista sul mondo, proietta la moda in ogni luogo e tempo. Appartiene ad ogni civiltà, dagli egizi alla contemporaneità, abbracciando epoche e luoghi diversi e distanti tra di loro. Tuttavia la macchina produttrice del settore moda è spesso ricorsiva, poiché «la Moda ricrea un nuovo modo di pensare, che si configura come ancor più dogmatico di quel che vorrebbe dare a vedere. Ogni maison, ogni stilista, ogni creatore veicola valori e senso del mondo – insomma una sorta di Weltanschauung – che finiscono per costituirsi come nuovi dogmi»[6].
Dunque nel rapporto tra queste visioni del mondo e la reazione della collettività, l’individuo crea nuovi orizzonti di senso. Ed è in questo atto creativo che si conserva il legame tra la moda ed il design. Nonostante ciò continueremo a domandarci da dove derivino le sensazioni che il fenomeno moda produce in noi? O da cosa sia mosso il nostro desiderio nei confronti di un oggetto? Queste ed altre domande rischiano di non trovare una risposta e forse non l’avranno mai. Tuttavia nei dipinti di uno dei grandi pittori del novecento esistono delle analogie con la questione proposta.
Una celebre opera del maestro Giorgio De Chirico credo sia esplicativa su ciò che la moda ci trasmette ed il modo in cui subiamo il suo potere. Ne Le muse inquietanti (1917)l’artistaaccosta elementi geometrici e figure diverse tra di loro. Queste figure ricordano a grandi linee dei manichini, con tendenze antropomorfe e con qualche riferimento allo stile dorico. Il significato ultimo riposto nel quadro, che rientra nella pittura metafisica, ovvero in ciò che sta oltre la sensazione visibile, consiste nell’indagine introspettiva che genera l’elemento esterno su di noi. Il mondo della metafisica a cui si riferisce De Chirico si ricollega al tema del sogno ed al fatto che quest’ultimi vengono organizzati dalla nostra mente in modo illogico. Le muse inquietanti turbano chi le osserva attentamente così come provocano un senso di estraneazione gli occhi vitrei dei manichini in posa o gli sguardi assenti di chi sfila in passerella. Il ruolo ed il significato dei manichini dechirichiani è concettuale ma fisica è la loro presenza-assenza. La moda dunque è anche metafisica nella misura in cui genera turbamento. Sensazione universale ed onnicomprensiva a cui nessuno sfugge dopo averne fatto esperienza, come chi di fronte ad uno specchio tentasse di sottrarsi alla riproduzione dell’identico semplicemente rompendolo o provando a cogliere impreparato il suo riflesso.
[1] G. Simmel, La moda, Mimesis, Milano 2015, p. 18.
[2] Ivi, p. 15.
[3] Ivi, p. 64.
[4] Cfr. G. Leopardi, Operette morali, Bur-Rizzoli, Milano 2021.
[5] G. Simmel, La moda, cit., p. 65.
[6] A.F. Ambrosio, Il vangelo delle vanità. Moda e spirito, Politi Seganfreddo Edizioni, Milano 2023, p. 14.