Alexander Von Humboldt: il viaggiatore moderno che incontrò i selvaggi

di Matteo Zonta

 

  1. Il canto degli uccelli

 

Alexander Von Humboldt ci presenta, dalle prime battute del testo Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent, una passione per la scoperta e per lo studio di territori a lui sconosciuti. Il testo, in ben trenta volumi, è il resoconto del suo viaggio nelle zone dell’America centrale e meridionale compiuto tra il 1799 e il 1804.

La possibilità di autofinanziarsi il viaggio, grazie all’eredità della defunta madre, gli ha fornito la massima libertà di ricerca e l’assenza di doveri istituzionali.

 

Fin dalla mia prima giovinezza, avevo provato l’ardente desiderio di viaggiare in regioni lontane e poco visitate dagli Europei. Tale desiderio caratterizza un periodo della nostra esistenza in cui la vita ci sembra un orizzonte senza confini, in cui nulla ci seduce di più che i grandi sconvolgimenti dell’anima e l’immagine dei pericoli fisici. Cresciuto in un Paese che non ha alcun rapporto diretto con le colonie delle due Indie, e vivendo poi in un’area montuosa lontana dalle coste, e nota per l’intenso sfruttamento minerario, sentii svilupparsi progressivamente in me una viva passione per il mare e per le lunghe navigazioni. Le cose che conosciamo soltanto attraverso i racconti dei viaggiatori hanno un fascino particolare: la nostra immaginazione si compiace di tutto ciò che è vago e indefinito; le gioie di cui ci vediamo privati ci sembrano preferibili a quelle che proviamo ogni giorno nel cerchio ristretto della vita stanziale.[1]

 

Questo passo fa comprendere quale potesse essere lo stato d’animo che aveva sempre avuto il nostro autore all’idea di compiere un così lungo viaggio e in un passo di poco successivo ci racconta le sue emozioni ora che il lungo viaggio sta per diventare realtà.

 

Il sentimento che si prova nell’intraprendere il primo viaggio di lunga durata è nondimeno accompagnato da un’emozione profonda, che non somiglia a nessuna di quelle che abbiamo provato nella nostra prima giovinezza. Separati dagli oggetti e dai nostri più cari effetti, entrando per così dire in una vita nuova, siamo costretti a ripiegarci su noi stessi, venendoci a trovare in un isolamento che non avevamo mai conosciuto[2].

 

Il viaggio è quindi un’esperienza totale che proprio per il suo portarci lontano nello spazio e fuori dalla nostra quotidianità, dalle nostre abitudini materiali e dalle reti di relazioni abituali genera spaesamento nel viaggiatore e lo porta a dover accettare questo terremoto che trasforma la consuetudine in evento e crea l’occasione per trasformare il viaggio in scoperta. Questo è uno degli aspetti più interessanti di Humboldt, ossia il suo continuo riflettere anche su se stesso, sulla figura del viaggiatore. L’insicurezza e lo spaesamento del viaggiatore riguardano anche la discrasia tra l’immagine che di un determinato territorio si era fatto e quello che effettivamente è. Il contrasto tra immaginazione e realtà fa parte del quotidiano del viaggiatore e accettare questo punto di partenza non può che giovare a una rigorosa descrizione della realtà. La natura, per prima, «si presenta con un volto inatteso»[3] e i resoconti di viaggiatori del passato sui quali ci si è formati non trovano corrispondenza nella realtà circostante.

Humboldt, appena giunto in America meridionale, fu subito colpito dagli uccelli del posto e l’autore si esprime così:

 

In quel luogo fummo per la prima volta colpiti da quei nidi a forma di bottiglia o di piccola tasca che si trovano sospesi ai rami degli alberi più bassi. Testimoniano dell’ammirevole industriosità degli icteridi, che mescolavano il loro canto ai rigidi rauchi dei pappagalli e delle are. Queste ultime, molto conosciute per la vivacità dei loro colori, volavano solo in coppia, mentre i pappagalli veri e propri si muovevano in gruppi di centinaia di esemplari. Bisogna aver vissuto sotto questi climi, soprattutto nelle calde valli delle Ande, per capire come tali uccelli riescano talora a coprire con la loro voce il sordo rumore dei torrenti che si precipitano di roccia in roccia.[4]

 

Questo passo relativo agli uccelli potrebbe sembrare apparentemente non rilevante ma in realtà assume un significato molto preciso se pensiamo a ciò che proprio sugli uccelli era stato detto per esempio da un Cristoforo Colombo e ripreso acriticamente da Cornelius De Paux, ossia che gli uccelli nel Nuovo Mondo non erano in grado di emettere suoni e di cantare[5]. Questo esempio di diatriba apparentemente futile sul canto degli uccelli ci dà degli spunti metodologi molto interessanti. Ci rendiamo conto di quanto l’esperienza del viaggio sia dal punto di vista epistemologico molto più importante rispetto alla speculazione a tavolino o all’immaginazione. Il viaggio di Humboldt assume nel corso di tutto il testo l’aspetto di una lotta contro i pregiudizi e la vittoria dell’osservazione e della misurazione contro la speculazione e la fantasia.

 

  1. Gli Indiani Chaymas

 

Il primo resoconto di Humboldt su una particolare tribù di nativi riguarda gli indiani Chaymas del villaggio di San Fernando dove era presente una missione[6]. Gli indiani Chaymas vivono in capanne e vi è una forte uniformità edilizia oltre che un ambiente tranquillo e con abitanti taciturni.  Le famiglie del villaggio coltivano tutte un territorio comune posto fuori dalla zona abitata. Questo territorio comune non era gestito e organizzato dagli indiani ma dal missionario. Vicino alla chiesa e alla casa del missionario si trova una residenza atta ad ospitare i viaggiatori. Così è descritto il missionario di San Fernando:

 

Il missionario di San Fernando era un cappuccino aragonese, molto avanti negli anni, ma ancor pieno di vigore e di vivacità. La sua pronunciatissima pinguedine, il suo carattere allegro, il suo interesse per le battaglie e per gli assedi, erano poco in sintonia con le idee di malinconica reverie e vita contemplativa che sui missionari vengono coltivate nei Paesi del Nord. Benché molto occupato con una mucca che doveva essere macellata l’indomani, il vecchio religioso ci ricevette cordialmente; ci permise di appendere le nostre amache in corridoio della sua residenza. Seduto a far nulla per gran parte del giorno, su una grande poltrona in legno rosso, si lamentava amaramente di quella che definiva la pigrizia dei nostri compatrioti. Ci pose mille domande sul vero scopo del nostro viaggio, che gli sembrava pericoloso e, quanto meno, inutile.[7]

 

La descrizione dell’organizzazione politica del villaggio che ci fornisce Humboldt va contro i pregiudizi che volevano gli indiani d’America come esseri incapaci di darsi un governo e quindi abbandonati a una totale anarchia. Sia nei testi di chi li voleva denigrare a tutti i costi sia nei testi di un Rousseau, la vita dei selvaggi era ritenuta incompatibile con qualsiasi tipo di organizzazione politica.

 

Il governo di queste comunità indiane è d’altra parte molto complicato; esse hanno il loro governatore, i loro alguazil maggiori e i loro comandanti militari, tutti indigeni dalla pelle rossa. La compagnia degli arcieri ha i suoi stendardi, e si esercita con l’arco e le frecce tirando su bersagli; è la guardia nazionale del paese.[8]

 

La complessità del loro governo si aggiunge alla lista di informazioni raccolte sul posto volte a rimettere in discussione le credenze degli europei.

 

  1. I mangiatori di terra Otomachi

 

Gli Otomachi vivono in un piccolo villaggio chiamato Uruana, sulle sponde del fiume Orinoco. Humboldt riferisce in alcune pagine nel corso del suo testo ciò che ha appreso dopo una giornata passata nel villaggio degli Otomachi. La caratteristica che subito balza all’occhio del viaggiatore è il loro essere mangiatori di terra. La pratica di mangiare la terra è da loro svolta quotidianamente per placare la fame. Humboldt si preoccupa subito di distinguere tra mangiare e nutrirsi in quanto gli Otomachi mangiano la terra per placare la fame ma non ricevono dalla terra alcun tipo di sostanze nutritive necessarie alla loro sopravvivenza e non si può dunque parlare della terra come di un alimento.

Pur avendo un solo giorno a disposizione, Humboldt è interessato ad approfondire le pratiche quotidiane degli Otomachi relativamente alle modalità in cui viene mangiata la terra, usanza talmente stravagante agli occhi di un europeo da spingere il viaggiatore verso quella sensazione di spaesamento che può generare virtuosamente una sana curiosità. Secondo Humboldt anche altri popoli della zona dell’Orinoco mangiano la terra ma l’autore vuole limitarsi a «riferire quanto abbiamo visto con i nostri occhi, o saputo dalla viva voce del missionario che una sfortunata fatalità ha condannato a vivere per dodici anni in mezzo alla selvaggia e turbolenta tribù degli Otomachi»[9] dimostrando ancora una volta di non volere andare oltre alle informazioni raccolte in prima persona. Gli Otomachi sono un popolo di cacciatori e raccoglitori, contrariamente ai precitati Indiani Chaymas che erano agricoltori. Vengono descritti come forti fisicamente, scontrosi e vendicativi. La loro principale risorsa alimentare sono i pesci pescati nell’Orinoco quando l’acqua è bassa a sufficienza da poterli infilzare direttamente dall’alto camminando nell’acqua. La situazione diventa drammatica in quei periodi di piena del fiume nei quali diventa impossibile procurarsi il pesce. In questi periodi della durata di due o tre mesi gli Otomachi iniziano a mangiare la terra. Della terra ne vengono fatte delle polpette ammucchiate nelle capanne come scorta alimentare. La terra è un’argilla morbidissima grigio-giallastra che viene leggermente bruciata sul fuoco.

 

Abbiamo esaminato noi stessi, sull’Orinoco e, dopo il nostro ritorno a Parigi, le palle di terra che avevamo riportato, senza rilevarvi traccia di mescolanza con sostanza organica veruna, né oleosa, né farinosa. Il selvaggio considera commestibile tutto ciò che placa la fame: così, quando si domanda a un Otomaco di cosa si nutra, nei due mesi in cui il livello del fiume è più alto, mostra le sue polpette di terra argillosa. È questo che egli definisce il suo cibo principale, poiché, in questo periodo, solo raramente riesce a procurarsi una lucertola, una radice di felce, un pesce morto che galleggia sulla superficie dell’acqua.[10]

 

Humboldt è fortemente sorpreso dal fatto che il consumo di terra non si limiti ai periodi di piena del fiume ma che, in quantità seppur minore, viene consumata dagli Otomachi assieme ad altri alimenti tutti i giorni dell’anno e l’aspetto che colpisce ancor di più l’osservatore è la mancanza di effetti collaterali di questa pratica per la salute dell’organismo laddove invece presso altri popoli il consumo di terra porta a morte e deperimento. Gli Otomachi prevengono eventuali ostruzioni gastriche tramite l’utilizzo di olio o di grasso di coccodrillo. Il clima torrido e la conseguenza sudorazione e traspirazione che causa nell’uomo parrebbero favorire la salute dello stomaco. Humboldt inizia poi una serie di comparazioni con altri popoli della zona torrida che si cibano della terra, dai Giavanesi che se ne nutrono dopo averla stesa su una lastra di latta agli abitanti della Nuova Caledonia che «quando vogliono placare la fame in tempo di carestia, mangiano grossi pezzi di una pietra ollare e friabile»[11]. Vengono citati anche gli abitanti di Popayan, nel Perù, dove si consuma la calce ridotta in polvere finissima, sempre per placare l’appetito.

Così conclude Humboldt la vicenda dei mangiatori di terra:

 

Quando si riflette su tutti questi fatti, si deve concludere che questo appetito sregolato per le terre argillose, magnesiache e calcaree, è molto comune presso i popoli della zona torrida; che non è sempre causa di malattie; e che alcune tribù mangiano terra per golosità, mentre altre (gli Otomachi in America e gli abitanti della Nuova Caledonia nel Mare del Sud) la mangiano per bisogno, per placare la fame. Un gran numero di fenomeni fisiologici ci dimostra come la fame possa momentaneamente cessare, senza tuttavia che le sostanze sottoposte all’azione degli organi della digestione siano, a voler parlare propriamente, nutritive[12].

 

Il motivo per cui gli Otomachi riescono a non patire questo tipo di alimentazione è ricondotto da Humboldt all’abitudine prolungata di generazione in generazione. Col passare delle generazioni i corpi si sarebbero adattati sempre meglio a questo tipo di alimentazione. L’aspetto più interessante di questo approfondimento che Humboldt ci ha fornito sulle usanze alimentari geofaghe degli Otomachi è il modo in cui il tutto è stato trattato e descritto. Desta già molto interesse il non aver subito etichettato una simile usanza come bestiale e non degna di essere studiata ma anzi l’averne ricercato le cause materiali. Humboldt non si limita alla mera descrizione del fatto ma si domanda costantemente quali siano le cause che lo rendono possibile, come venga vissuto dagli individui e quale sia la risposta che forniscono i corpi a questo regime alimentare. Ci troviamo di fronte a una descrizione che mentre descrive una pratica cerca anche di comprenderla e di inserirla nelle vite e nei corpi degli individui. Potremmo chiederci a che vantaggio affrontare uno studio di questo tipo ma è proprio il superamento di questa domanda in favore della ricerca come puro gusto di ampliare i propri riferimenti e le proprie visioni del mondo che permette ad Alexander Von Humboldt di non porre limiti al suo lavoro e provare ad andare oltre la convinzione per cui si crede che “le scienze siano degne di occupare la mente soltanto quando offrono alla società qualche vantaggio materiale”[13].

 

  1. I valorosi guerrieri Caribe

 

L’ultimo popolo ampiamente descritto da Humboldt è quello dei Caribe, disseminati in molti villaggi. I Caribe studiati da Humboldt sono un popolo un tempo nomade «recentemente radicatosi in una terra e differente da tutti gli altri Indiani per forza fisica e intellettiva»[14]. La descrizione seguente dei Caribe ci ricorda il quadro su di loro già presente in Rousseau nel Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes in cui venivano esaltate le loro abilità fisiche:

 

Non ho mai visto altrove una razza di uomini più slanciati (da cinque piedi e sei pollici a cinque piedi e dieci pollici) e di statura più colossale. Gli uomini, e ciò è assai comune in America, sono più coperti delle donne. Queste indossano soltanto il guajuco, o perizomas, in forma di strisciolina; gli uomini avvolgono la parte bassa del corpo, fino alle anche, con un panno di tela blu scuro, quasi nero[15].

 

I Caribe differiscono quindi da tutti gli altri popoli indiani per il loro aspetto slanciato e anche per la fisionomia del loro volto che secondo Humboldt è più simile a quella degli europei che a quella dei popoli asiatici per via del naso meno largo e degli zigomi meno sporgenti. I Caribe sono così diffusi e citati per via dell’importanza che hanno avuto nel dominare e influenzare popoli vicini al punto che la loro lingua è parlata anche da individui non di origini Caribe. Von Humboldt è convinto che il viaggiatore che ha pretesa di parlare di un popolo non possa tralasciare il peso politico di questo popolo, l’influenza che esso esercita sui popoli vicini e le migrazioni che lo hanno caratterizzato nella sua storia. Secondo Humboldt, ai tempi della scoperta dell’America da parte degli europei, i Caribe occupavano una zona molto più ampia rispetto a quella che occupano nel momento in cui egli li visita in quanto gli europei hanno sterminato tutti coloro che vivevano sulle Antille e sulle coste del Darien. Nonostante queste atrocità, il numero di Caribe in vita secondo il testo di Humboldt è di quarantamila individui divisi tra gli Llanos di Piritu e le rive del Caroni e del Cujuni.

I Caribe di fronte ai quali si trova Humboldt non sono che dei sopravvissuti rispetto al loro periodo d’oro, non ben storicamente collocabile, in cui sappiamo che dominavano gran parte del continente americano, complici sia le lotte tra popoli americani che le atrocità commesse dagli europei. Questo sentimento di antica grandezza rimane in un’espressione da loro spesso usata e che ci riporta Humboldt ossia “noi soli siamo un popolo”[16]. Nella ricostruzione di Von Humboldt l’idea di superiorità da parte di un popolo e la conflittualità fra popoli sembrano essere cifre comuni di tutta l’umanità. Questa constatazione permette a Von Humboldt di far comprendere che i popoli selvaggi possono essere guerrieri e violenti esattamente quanto lo sono gli europei lanciando uno dei suoi messaggi polemici contro coloro che parlavano di età dell’oro priva di conflitti in riferimento alla vita dei nativi americani, rigorosamente senza averli mai incontrati.

 

Ovunque, sia presso le tribù semiselvagge, sia nelle zone più civilizzate d’Europa, riscontriamo questi odi inveterati, questo nomi di popoli nemici che l’uso delle diverse lingue ha trasformato nei più feroci fra gli insulti.[17]

 

Humboldt inizia poi a parlare delle pratiche con cui i Caribe modificano i loro corpi:

 

Vedemmo con gran pena i tormenti ai quali le madri caribe sottopongono i bambini, fin dalla più tenera età, per far loro ingrossare non soltanto i polpacci, bensì, alternativamente, la carne delle gambe, della caviglia fino all’alto delle cosce. Delle bende di cuoio o di tessuti di cotone sono collocati a mo’ di stretti lacci a due o tre pollici di distanza; stringendoli progressivamente, si fanno gonfiare i muscoli nell’intervallo fra le bende. I nostri bimbi in fasce soffrono molto meno dei bambini dei popoli caribe, cioè presso una popolazione che si dice esser più vicina allo stato di natura […] l’uomo dei boschi, che noi crediamo di costumi tanto semplici, non è così docile quando si tratta della sua toeletta e delle idee che si è formato sulla bellezza e sulla buona creanza.[18]

         

Questo passo, riferito alla loro pratica svolta per rendere i bambini più veloci e abili nella corsa, mostra un forte intervento umano sulla natura e una modificazione volontaria del corpo al fine di raggiungere un determinato modello. Siamo molto distanti da descrizioni che vorrebbero i Caribe vicini allo stato di natura, dal momento che l’autore ci riporta moltissime tradizioni e pratiche sociali.

Il tono di Humboldt è sempre caratterizzato da una profonda e sincera umiltà. Crede fermamente che ci vorrebbe molto più tempo e occorrerebbe visitare molti più luoghi per poter parlare seriamente dei loro usi e costumi. Secondo Humboldt conoscere i Caribe vuol dire veder «sparire i pregiudizi che sono sorti contro di loro in Europa, dove li si considera i più selvaggi»[19].

 

  1. Un vecchio pappagallo

 

Nel riportare questi incontri, l’atteggiamento di Von Humboldt è caratterizzato dal superamento di stereotipi e di descrizioni caricaturali dei nativi americani. L’autore rifiuta il vecchio dibattito sul buono o cattivo selvaggio, in virtù di una corretta comprensione dell’altro a partire da una buona etnografia.  Lo stile di Humboldt è quello dello studioso e in quanto tale è dispiaciuto di non poter più incontrare e studiare determinate popolazioni, come mostra l’episodio fortemente significativo degli Atures.

La popolazione Atures, secondo il racconto fatto dagli Indiani Guahibes, si sarebbe dovuta rifugiare fra delle rocce per fuggire dagli attacchi dei Caribe.

 

È là che questa popolazione, un tempo tanto numerosa, si estinse a poco a poco, insieme alla sua lingua. Ancora nel 1767, al tempo del missionario Gilij, era testimoniata l’esistenza delle ultime famiglie degli Atures; all’epoca del nostro viaggio, a Maypures – ed è circostanza assai rimarchevole – veniva esibito un vecchio pappagallo «che dice cose incomprensibili, poiché parla la lingua degli Atures».[20]     

 

Anche Alexander Von Humboldt, un po’ come gli Atures, è stato in gran parte dimenticato. Secondo Andrea Wulf, l’autore è oggi quasi completamento sconosciuto nei paesi di lingua inglese. A favorire ciò fu anche il diffondersi di un sentimento antitedesco nel periodo della Prima guerra mondiale. Nel 1917 a Cleveland, città in cui il centenario della nascita di Humboldt era stato addirittura festeggiato, vennero bruciati i libri di lingua tedesca. A Cincinnati la biblioteca pubblica venne privata dei libri di autori tedeschi e “Humboldt Street” fu ribattezzata in altro modo[21]. Il passo dall’avere una via dedicata in suo nome all’oblio era stato brevissimo. Oggi Alexander Von Humboldt potrebbe sembrare un nome di secondaria importanza ma mentre era in vita e nei decenni immediatamente successivi non fu certo così. Per citare due esempi, entrambi di autori di lingua inglese, possiamo ricordare che Charles Darwin aveva con sé il volume della Personal Narrative[22] quando si mise in viaggio col suo Beagle allo scopo di circumnavigare il globo e che nel libro di viaggio Beyond the Mexique Bay del 1934, il celebre Aldous Huxley si rifaceva al Political Essay on the Kingdom of New Spain di Humboldt. Possiamo quindi comprendere perché il re di Prussia Federico Guglielmo IV definì Alexander Von Humboldt «Il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio Universale»[23].

[1] A. Von Humboldt, Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, Quodlibet, Macerata 2014, p. 32.

[2] Ivi, p. 47.

[3] Ivi, p. 93.

[4] Ivi, p. 94.

[5] Cfr. A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, Adelphi, Milano-Udine 2000. Secondo Cornelius De Paux il continente americano era inferiore in tutto e per tutto rispetto al Vecchio Mondo e l’incapacità di cantare degli uccelli veniva utilizzata all’interno di una serie di descrizioni negative del continente americano tra le quali, per esempio, il fatto che gli animali fossero mediamente più piccoli di quelli europei.

[6] Nelle colonie spagnole per missione si intende un insieme di abitanti raccolti attorno a una chiesa e in cui è sempre presente un monaco missionario. Questo aspetto ci fa rendere conto di quanto la figura del missionario fosse diventata centrale nella vita degli indiani di quei territori.

[7] A. Von Humboldt, Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, cit., pp. 96-97.

[8] Ivi, p. 98.

[9] Ivi, p. 174.

[10] Ivi, p. 175.

[11] Ivi, p. 178.

[12] Ivi, p. 179.

[13] Ivi, p. 233.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 243.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 244.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 164.

[21] Cfr. Andrea Wulf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, Luiss University Press, Roma 2017.

[22] Personal Narrative è il titolo che venne dato alla traduzione inglese di Helen Maria Williams del Voyage aux régions équinoxiales du nouveau continent. Helen Maria Williams era amica e collaboratrice di Humboldt e fu vicina a lui negli anni in cui egli risiedette a Parigi.

[23] A. Wulf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, cit., p. 328.

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