Aspettando Godot. O del nichilismo

di Enrico Carmelo Tomasello

 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
       questa morte che ci accompagna
       dal mattino alla sera, insonne,
       sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
       saranno una vana parola,
       un grido taciuto, un silenzio.
       Così li vedi ogni mattina
       quando su te sola ti pieghi
     nello specchio. O cara speranza,
       quel giorno sapremo anche noi
       che sei la vita e sei il nulla.

Pavese

Dal 5 al 10 marzo 2024 al Piccolo di Milano è andato in scena, per la regia di Theodoros Terzopoulos, Aspettando Godot di Samuel Beckett. All’interno di un teatro che ha registrato il sold-out per quasi ogni spettacolo di questa stagione teatrale, sono stati i protagonisti del dramma beckettiano più celebre, discusso e sfuggente a suscitare l’interesse ed il desiderio di comprensione della platea. Se è vero che il teatro è immortale, allora tutti noi lo riscopriamo ogni volta che sentiamo l’urgenza di esprimerci in pubblico, comprendendone appieno il senso. Qualcuno potrebbe considerarlo obsoleto o inutile ma quando si fa quell’esperienza, il finale è preannunciato, ciascuno se ne innamora. Nel nostro caso il teatro diviene: introspezione esistenziale, smarrimento, humour tragicomico, riflessione autentica sul senso o sul non senso delle cose. Questo ci suggerisce l’opera aporetica di Beckett, ovvero: quale postura assumere di fronte agli avvenimenti della vita. Escludendo alcune scelte scenografiche che intervengono e modificano le rigide direttive del drammaturgo irlandese, (come l’idea di sostituire al centro della scena il salice piangente con un bonsai) il regista greco è rimasto fedele a gran parte delle indicazioni del testo originale. Così abbiamo avuto la possibilità di assistere ad un vero spettacolo, quello dell’essere umano che indossando una maschera si mette a nudo. Attraverso la cornice del palcoscenico si dipana il significato ultimo del suo dramma, che è tragedia e commedia allo stesso tempo. Dunque ancora un po’ d’attesa. Gli ultimi arrivati prendono posto, la regia invita gli spettatori a silenziare i telefoni, le maschere si assicurano che tutte le porte siano chiuse, si spengono le luci, s’illuminano le insegne delle uscite di sicurezza, si apre il sipario e si vedono gli attori.

  1. Il teatro dell’assurdo

 

«Niente da fare!»[1], con questa esclamazione prende avvio l’opera più rappresentativa del teatro dell’assurdo. Probabilmente in questa battuta è già anticipata la conclusione dell’intera vicenda (divisa in due atti) che vede come protagonisti due uomini, Vladimiro ed Estragone, sospesi nell’enigmatica attesa di Godot. La trama è davvero semplice ma essenziale per cogliere le implicazioni teoretiche che emergono con ironica drammaticità dal dialogo delle parti. Come ha riassunto magistralmente il critico Carlo Fruttero, i fatti sono questi:

«Due mendicanti, Vladimiro ed Estragone, aspettano in aperta campagna un certo Godot, dal quale sperano ottenere una vaga sistemazione. I due, non solo non hanno mai visto Godot, ma non sono sicuri né del luogo né del giorno dell’appuntamento. Dopo una lunga attesa arriva Pozzo, un ricco castellano che porta al guinzaglio il suo servitore Lucky. Pozzo si intrattiene per qualche tempo coi due mendicanti e riparte. L’attesa continua fino all’arrivo di un ragazzo con un messaggio di Godot: Godot non verrà più stasera, ma certamente domani. Vladimiro ed Estragone ricominciano ad aspettare. Il secondo atto è quasi identico al primo: l’attesa, l’arrivo di Pozzo e Lucky, l’uno cieco e l’altro stremato, il messaggio del ragazzo: Godot non verrà più stasera ma certamente domani. Il sipario cala su Vladimiro ed Estragone che, immobili, attendono ancora.»[2]

Da questa sintesi non emerge ancora il portato di emozioni, incomprensione e straniamento che suscita lo spettacolo. Ed anche se raccogliessimo tutte le impressioni che il pubblico riceve dall’incontro con l’opera queste apparirebbero ancora insufficienti e le mie brevi ed inesperte considerazioni, sarebbero semplicemente il risultato di un tentativo d’interpretazione del testo e della sua rappresentazione teatrale. Dunque preferisco rivolgermi alle parole recitate dagli attori, che sono le uniche custodi della prospettiva che si nasconde in esse.

Prima di ciò restano imprescindibili due premesse che appaiono evidenti sin dal primo incontro con l’opera di Beckett. In prima battuta, la distanza incolmabile che l’autore mantiene con il lettore e con lo spettatore (a cui non si concede possibilità d’accesso al significato ultimo dell’opera) tanto da renderlo sospettoso di una possibile presa in giro; in secondo luogo è altrettanto chiaro come nonostante si vedano in scena cinque personaggi coinvolti nella drammatizzazione, avremo sempre la sensazione di ascoltare una sola voce sotto nomi diversi, a cui fa da sfondo la silenziosa ed eterna assenza di Godot. Questo perché il tempo sembra essersi congelato ed in questa immobilità si svolge la vicenda. Del resto: «Non c’è da meravigliarsi che, uscendo dal teatro, la gente si chieda cosa diavolo abbia visto. In casi come questo si finisce sempre per attribuire all’autore un preciso disegno simbolico, e si rigira il testo pezzo per pezzo, battuta per battuta, cercando di ricostruire il puzzle. Si ha l’impressione che Beckett, a casa sua, stia ridendo malignamente alle nostre spalle»[3].

Dato che il suo obiettivo è proprio l’oggettivazione dell’assurdo, il maestro irlandese sfrutta lo humour concedendogli molto spazio. Il risultato è un impatto comico irriverente, che ricorda a tratti la comicità di C. Chaplin e le dinamiche basilari della clowneria; ma a differenza di queste ultime, nelle quali la comicità è la protagonista indiscussa, in Aspettando Godot l’ironia è sempre velata dal malinconico, da uno sfondo di morte che emerge costantemente nei silenzi che abitano tra una battuta e l’altra. Il suo teatro è metafisico. Ed è estremamente difficile, «stabilire se Godot è Dio, la Felicità, o altro»[4], come non conta ed «ha poca importanza; vedere in Vladimiro ed Estragone la piccola borghesia che se ne lava le mani, mentre Pozzo, il capitalista, sfrutta bestialmente Lucky, il proletariato, è perfettamente legittimo, ma altrettanto legittima è la “chiave” cristiana, per cui tutto, dall’albero che si trova sulla scena, e che dovrebbe rappresentare la Croce, alla barba bianca di Godot, si può spiegare Vangelo alla mano»[5]. Probabilmente l’enigmatico nome di Godot deriva dall’inglese, da go don’t quindi letteralmente nessun andare. Poiché il suo è un non arrivare, sino a dubitare della sua stessa esistenza. Il suo nome può significare o indicare molte cose. Essendo semanticamente camaleontico è un contenitore di pluralità. Tuttavia resta inesauribile il suo potenziale di significati, quindi tenteremo invano ogni possibile traduzione, consapevoli che il suo significato riposa nel senso dell’attesa e non in lui. Parafrasando le parole del regista, potremmo dire che Godot è l’intraducibile, l’inafferrabile, il trascendente, che non trova mai compimento. Godot è l’immagine di qualcuno che dialoga con se stesso ma di fronte ad uno specchio rotto.

  1. Il sorriso arcaico

L’interrogativo che fa da sfondo all’intera opera è rivolto ad intercettare quali siano le condizioni minime affinché la vita valga la pena di essere vissuta. Quello di Beckett è un dono. Poiché l’autore ci offre un suggerimento su come affrontare gli avvenimenti della vita. Ciò che fanno i due protagonisti del dramma non è semplicemente attendere. Loro si esercitano alla sopravvivenza. I dialoghi sono spesso sterili, privi di qualsiasi significato, proprio perché non sono finalizzati a qualcosa. La loro attesa è protesa a qualcuno che dia un senso, un ordine, una rivelazione alle loro vite. E cosa se non la consapevolezza della fine può permetterci di vivere autenticamente il momento presente e dargli un senso? Anticipare la fine non significa dunque andarci incontro o semplicemente attendere con la consapevolezza che arriverà. Quello che sappiamo dell’esistenza è che la nostra vita ha una scadenza. Questo è evidente a tutti. Ma cosa accade quando la distanza si accorcia improvvisamente? Quando abbiamo la lucida consapevolezza che la fine non si farà attendere ancora per molto? Quando restiamo immobili di fronte ai terribili occhi di Medusa che non smette di esercitare il suo potere su di noi? Incredulità, stupore, percezione alterata della realtà che si trasforma e si sospende, queste sono solo alcune delle emozioni che proviamo quando apprendiamo la notizia di una possibile condanna a morte e di fatto potenzialmente irrisolvibile. Come quando il sogno folle di una cellula di diventare immortale, rischia di compromettere la sopravvivenza di un intero organismo. Siamo sempre gettati da qualche parte, poiché difficilmente restiamo lì dove siamo. Sono momenti, quelli in cui si profila il rischio di morire, in cui ciascuno di noi viene fuori, nei suoi lati alla fine più autentici, veri, trasparenti. Perché le difese crollano ed emerge la fragilità, oppure la forza d’animo o entrambe contemporaneamente.

Allora ci si rivolge a qualcuno o a qualcosa di altro da noi: che sia un’entità superiore o la totalità dei nostri principi morali; l’altro in cui potersi rifugiare diventa irrimediabilmente distante, quasi impossibile da raggiungere. Allora si cerca con tutte le forze di strappare ancora del tempo alla vita. Da quel momento tutto il tempo che verrà diviene καιρός, si fa tempo della grazia, si fa miracolo cosciente. Si ha lucida consapevolezza di un concetto che la scienza, in particolar modo la fisica, ci aveva spiegato con largo anticipo, ovvero quello dell’irreversibilità. Perché è l’unica cosa che sappiamo con certezza della morte, cioè che è un fenomeno irreversibile. Comprendiamo come ogni attimo non abbia copie o doppioni con cui confrontarsi. Ed è lo stesso tempo in cui nascono le domande ed i quesiti che accompagnano la vicenda di Aspettando Godot. Interrogativi apparentemente inutili ma pregni di significato proprio perché ci inducono a riflettere sull’insensatezza del vuoto e del nulla che sostiene la nostra condizione.

Un nichilismo ineliminabile, così vero da inghiottire l’esistenza a cui apparteniamo. Eppure se lo spettatore è ancora capace di generare domande e risposte a partire dal paesaggio inquieto messo in scena, vorrà dire che il teatro ha svolto la sua funzione catartica. Spingendo lo spettatore dallo stato passivo dell’attesa (o quello in cui si smette di attendere) sino alla dimensione della ricerca. Poiché l’attesa è sorella della ricerca quando diviene attiva, quando si trasforma in desiderio. Dunque saremo pronti ad anticipare la fine, trasformando l’attesa illogica del nulla in ricerca di senso o nel creare senso in un presente che ci appartiene ed a cui non possiamo non appartenere. Riproponendo il quesito nietzschiano: Questa era la vita? Non ci faremo trovare impreparati e potremo finalmente rispondere: Bene, che venga un’altra volta. Noi saremo lì ad attenderla. L’aspetteremo come fanno Vladimiro ed Estragone, con ironica brutalità. Attenderemo Godot non come un mezzo ma come il fine stesso del nostro esserci al mondo. Questa volta però saremo noi a guardare Medusa negli occhi ed incrociando il suo sguardo non avremo paura di esserne pietrificati, sarà lei a non reggere il confronto, perché avrà terrore della curva che si formerà sulle nostre labbra. La stessa espressione sempre presente sul volto delle divinità arcaiche nelle rappresentazioni scultoree dell’arte greca. Attenderemo Godot, alla maniera degli dei, sorridendo.

[1] S. Beckett, Aspettando Godot (En attendant Godot), trad. di C. Fruttero, Einaudi, Torino 1956, p. 19.

[2] Ivi., pp. 10-11.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

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