Il titolo come chiave ermeneutica: “La maestra e il diavolo” di Giuseppe Fava

di Giuseppe Davide Di Mauro

 

Che la pubblicazione di un libro non risponda soltanto a esigenze culturali ma anche a istanze legate alla sua commerciabilità è un’evidenza radicata nei secoli. Dai codici medievali riccamente miniati per soddisfare facoltosi committenti, fino a giungere ai classici ripubblicati oggi con traduzioni aggiornate e copertine accattivanti per attirare nuove generazioni di lettori, gli editori hanno trovato e continuano a sperimentare nuove soluzioni per favorire la vendibilità delle loro pubblicazioni. Specialmente nell’ultimo secolo, in un mercato editoriale regolato sempre più da logiche industriali, la conquista del lettore/consumatore è diventata una questione vitale per chi pubblica libri. Questo implica lo studio accurato di dettagli esteriori quali, ad esempio, la copertina, ma anche spesso l’ingerenza degli editori nella scelta di un elemento che, per il legame con l’opera, dovrebbe attenere strettamente agli autori: il titolo.

La storia dell’editoria italiana è ricca di esempi di titoli scelti o modificati a favor di pubblico, come è facile notare nel caso degli adattamenti di quelli stranieri. Un caso a parte è costituito dai libri intitolati come le loro trasposizioni cinematografiche per sfruttarne la spinta pubblicitaria.

È questo il caso occorso nel 1975 a Giuseppe Fava, il quale ha visto imporre al proprio romanzo in uscita per Bompiani (da lui intitolato La maestra e il diavolo) il titolo Gente di rispetto[1], lo stesso dell’adattamento filmico diretto da Luigi Zampa e uscito nelle sale pressoché in contemporanea con la pubblicazione del libro. Il film di Zampa è una produzione di un certo rilievo, a cura di Carlo Ponti, e vanta non solo un cast internazionale in cui spicca la presenza di James Mason e di Franco Nero, ma anche un’ottima colonna sonora di Ennio Morricone. L’editore cerca di capitalizzare al massimo la pubblicità offerta da una produzione del genere e non solo rinomina il romanzo come il film, ma lo pubblica con in copertina il fotogramma di uno dei picchi drammatici della pellicola, in cui la protagonista (interpretata da Jennifer O’Neill) è in ginocchio sotto una pioggia scrosciante. L’operazione commerciale dà i suoi frutti: il libro supera le settantamila copie vendute, piazzandosi nelle prime posizioni delle classifiche di vendita; risultato ragguardevole se si tiene conto che l’autore è al suo esordio romanzesco.

Nonostante il riscontro di vendite, Fava è contrariato dal cambio di titolo imposto al suo testo, come rivela lui stesso in un’intervista, rilasciata al ‘Corriere d’informazione’ in occasione della prima cinematografica, in cui dichiara: «“Gente di rispetto” […] non era il titolo del mio romanzo. Lo hanno voluto loro. Io avevo pensato a un altro: “La maestra e il diavolo”, sono convinto che rende meglio il senso del mio libro»[2]. Per comprendere come e in che misura il cambio del titolo abbia compromesso una corretta ermeneutica dell’opera, bisogna prima di tutto tornare indietro di qualche anno, alla seconda metà degli anni Sessanta.

 

  1. Alle origini del romanzo: la vergogna di Palma di Montechiaro

 

Nel 1966 Fava pubblica sul quotidiano ‘La Sicilia’ le inchieste relative a ventotto comuni siciliani visitati in compagnia del fotografo Mario Torrisi. L’anno successivo, esse vengono raccolte in un volume intitolato Processo alla Sicilia[3], opera che segna un vero e proprio spartiacque umano, professionale e artistico per l’autore di Palazzolo Acreide. Nel corso della realizzazione degli articoli, infatti, Fava entra in contatto diretto con le peggiori condizioni di miseria dell’Isola, ha l’occasione di toccare con mano gli effetti devastanti della cattiva gestione politico-amministrativa ed economica, delle disuguaglianze sociali, della scarsa istruzione e della diffidenza che sembra l’unico tratto davvero comune ai mille volti della Sicilia. È però specialmente il comune di Palma di Montechiaro, nell’agrigentino, quello che suscita in lui la più forte impressione. Essa si traduce in un articolo in cui evidente risulta la qualità della sua scrittura che, anche nel giornalismo, raramente risponde a una funzione soltanto referenziale, ma tende a tingersi di quelli che Nunzio Zago definisce «pigmenti letterari»[4].

Senza mezzi termini, l’autore intitola l’inchiesta su Palma La vergogna, per le sconvolgenti condizioni in cui trova il paese: in una «landa che potrebbe dare stentatamente da vivere ad appena cinque o seimila persone, se ne addensano invece almeno ventimila»[5], non c’è rete fognaria, le strade sono solcate dalle acque nere delle abitazioni; su tutto stendono il loro dominio le mosche, i cani randagi e orde di bambini prevalentemente analfabeti, colpiti dal tasso di malattie infantili più alto d’Europa. La sensazione asfissiante di «spaventosa promiscuità»[6], sporcizia e miseria, da vero e proprio inferno sulla terra, viene resa da Fava con un’immagine che, come rileva Zago[7], sembra mutuata da Lesage: «Se dall’alto si potessero scoperchiare alcuni tetti, si vedrebbero gli esseri umani brulicare là dentro come vermi»[8].

Raccontando di Palma, Fava riporta la vicenda di una legge regionale speciale varata nel 1962 per cercare di risolvere la condizione insostenibile del paese e delle aree limitrofe attraverso lo stanziamento di undici miliardi di lire. Questa cifra, affidata a un comitato intercomunale composto dai sindaci e dagli assessori ai lavori pubblici di Palma e di Licata e da vari rappresentanti politici e sindacali locali, era rimasta di fatto inutilizzata a causa delle lotte tra le varie fazioni per posizionare i propri esponenti all’interno del comitato. La chiusa dell’articolo mostra la profonda amarezza del giornalista relativa a quanto riscontrato:

 

In attesa che il comitato decida di spendere quegli undici miliardi […], a Palma di Montechiaro ci sono cani che scavano, miliardi di mosche invulnerabili, liquame dovunque, bambini che vi giocano dentro con gli occhi bellissimi e lucenti. Dentro gli occhi hanno la febbre, l’innocenza e la morte![9]

 

Come già accennato, il trovarsi di fronte realtà tanto sconcertanti come quelle esemplificate da Palma di Montechiaro e il lavoro giornalistico compiuto per raccontarle segnano per l’autore un punto di svolta. Nel lavoro svolto da cronista e come artista prima di Processo alla Sicilia, Fava aveva mostrato un fortissimo interesse per la condizione umana, per la ricerca del senso dell’esistenza, per le cause individuali e sociali della sofferenza e della violenza: sono questi gli aspetti a caratterizzare la prima fase della sua attività. Il libro-inchiesta del 1967 sembra segnare il momento in cui Fava apre una nuova stagione, nella quale, pur mantenendo l’attenzione per i temi a lui cari, orienta i molteplici strumenti di cui dispone verso il disvelamento delle dinamiche sottostanti situazioni come quella di Palma e alla loro denuncia.

 

  1. Da Processo alla Sicilia a La maestra e il diavolo: la cronaca si fa letteratura

 

Sul fronte narrativo, il primo testo investito da questo nuovo corso è senza dubbio quello che Bompiani pubblicherà nel 1975 come Gente di rispetto. Lo strettissimo legame che apparenta l’opera di fiction a La vergogna risulta evidente. Una spia immediatamente individuabile di questo collegamento è rappresentata dal nome che Fava assegna al paese di sua invenzione in cui ambienta la vicenda romanzesca, ovvero Montenero Valdemone. Montenero potrebbe sembrare scelto in contrasto a Montechiaro del comune agrigentino, ma in realtà è come se Fava, da pittore qual era, volesse giocare con le tonalità cromatiche: se Montechiaro è la vergogna d’Europa, a Montenero non potranno che essere portate alle estreme conseguenze quelle dinamiche attive nel paese reale su cui è modellato. La filiazione diretta di Montenero Valdemone da Palma di Montechiaro appare lampante se si leggono in parallelo le descrizioni dei due paesi. In La vergogna, leggiamo infatti:

 

Le case sono basse, senza intonaco, sembrano tutte pericolanti per un terremoto che abbia fatto scivolare il paese di qualche metro verso valle e lasciato in bilico le case, l’una appoggiata all’altra. […]

Le cose che colpiscono anzitutto sono i cani, le mosche ed i bambini. […] In mezzo al vicolo o alla traversa c’è un fosso sul quale scorre il liquame, ed essi vi guazzano dentro. […]

La sporcizia ed il fetore sono immobili, si stratificano lentamente.[10]

 

In Gente di rispetto, invece, il quartiere Fiumara, il più povero di Montenero, viene descritto in questo modo:

 

Il declivio della collina diventava un costone di terra grigia sul quale le case si ammucchiavano come crescenze. Erano tutte piccole, a un solo piano, del colore giallastro del fango, i tetti grigi, e si addossavano le une alle altre come se un terremoto le avesse fatte sprofondare a metà nella creta. Non c’erano strade, selciati, scale, marciapiedi fra le case, ma solo degli spazi vuoti che la pioggia aveva scavato al centro come budelli in mezzo ai quali stagnava un’orribile melma. C’era un fetore triste e totale nel quale si mischiavano tutti i sentori di quei rigagnoli […]. Pullulava di esseri umani, donne e bambini, dovunque si volgesse lo sguardo.

[…] in mezzo a loro un numero inverosimile di cani polverosi e grigi che scappavano, fiutavano, stavano immobili sulle spazzature. Su tutto questo nugoli di mosche […].[11]

 

Bisogna però guardare alla trama del romanzo e ai suoi personaggi per comprendere in che modo Fava ha rielaborato il proprio lavoro giornalistico e che senso ha voluto attribuire a questa sua trasposizione.

Il romanzo racconta di una maestra elementare catanese, Elena Vizzini, che viene comandata a Montenero Valdemone, un piccolo paese in provincia di Palermo. Appena giunta qui, riceve pubblicamente le volgari profferte di un uomo del posto, il quale viene ritrovato morto, la mattina successiva, al centro della piazza della cattedrale, seduto su una sedia e con un fiore tra le labbra. A seguito di questo fatto, la giovane maestra assume una sinistra aura di potere che si fa più forte man mano che attorno a lei avvengono altri fatti di violenza. Ella, che nel frattempo ha potuto constatare le condizioni di estrema miseria in cui vive gran parte dei suoi alunni, cerca di utilizzare il proprio ascendente per compiere una piccola rivoluzione in paese, lasciandosi coinvolgere dai notabili nel sollecitare una legge speciale che conceda al comune i fondi per risanare le aree più disagiate. Quando la legge viene in effetti approvata, Elena scopre che essa andrà a vantaggio della speculazione edilizia e non avrà ricadute positive per i più bisognosi; si rende così conto di essere stata solo un ingranaggio in una macchinazione ben più grande di lei, di cui non conosce con certezza nemmeno gli artefici. Vittima di un ennesimo episodio di violenza, si trova a dover scegliere se andare via per sempre da Montenero o se restare e portare avanti la lotta in cui, suo malgrado, si è trovata coinvolta.

Già da questa breve sinossi si possono notare gli elementi che rimandano all’inchiesta su Palma di Montechiaro: l’estrema indigenza di una parte considerevole della popolazione e, soprattutto, la vicenda della legge speciale che, seppur in modi diversi tra fiction e realtà, risulta in entrambi i casi inutile a risolvere i problemi dei più svantaggiati. L’operazione che Fava compie nel romanzo, dunque, è quella di prendere dalla cronaca una storia di sconcertante ignavia e incapacità politica e di calarla all’interno di una vicenda movimentata da elementi di detection, quasi pulp. Nel farlo, però, si mostra solo opportunisticamente interessato a tali elementi, mettendo di fatto al centro della storia una maestra, animata da un forte spirito etico e civile, investita del compito di lottare contro una situazione che non comprende pienamente, ma di cui riconosce l’ingiustizia. È innegabile, però, che la violenza esibita, la diffusa omertà, la corruzione politica e morale e la macchinazione speculatoria raccontate nel romanzo sono tutti elementi che, specialmente a un lettore che si trovi in mano un libro intitolato Gente di rispetto, non possono che far pensare a un thriller di mafia. La trasposizione cinematografica, da questo punto di vista, soddisfa tale aspettativa, fornendo allo spettatore le risposte alle domande sollevate nello svolgersi dell’intreccio. Il romanzo, al contrario, la disattende. Anche quando tutto sembra far convergere la trama verso una determinata soluzione, l’autore spariglia le carte, rimettendo tutto in discussione e lasciando aperto il classico interrogativo da giallo, who done it?. Questo perché il romanzo che ha in mente non vuole essere un thriller, ne sfrutta soltanto le meccaniche per poter, a un livello più profondo di narrazione, raccontare altro.

 

 

 

  1. Oltre la superficie del testo

 

Di cosa Fava volesse trattare lo dice lui stesso, nella già citata intervista a Palumbo: «Una maestra coraggiosa […] che prende coscienza della vita e della società e che si batte contro il diavolo (bada, il diavolo non la mafia) e cioè l’ignoranza, la cupidigia, la speculazione, l’egoismo e via degenerando»[12]. Queste parole sono inequivocabili nell’escludere che il romanzo parli di mafia e in effetti Fava non utilizza mai nel testo né questo termine né alcuno dei suoi derivati. Lo scopo di questa voluta omissione è quello di evitare che il lettore possa applicare i propri schemi preconcetti al libro e di guidarlo alla comprensione di significati più profondi.

Nella presa di coscienza della maestra e nella sua conseguente lotta contro il ‘diavolo’ è immediato cogliere il parallelismo con quanto maturato da Fava attraverso le inchieste di Processo alla Sicilia e con la battaglia da lui ingaggiata con i mezzi del giornalismo e dell’arte contro i legami perversi tra politica e criminalità. Con il personaggio di Elena Vizzini e la sua stessa attività, Fava sembra voler sfatare quell’apparente destino ineluttabile espresso con amara rassegnazione nelle battute conclusive de La vergogna: «Forse il limite più tragico della condizione umana nel Sud è questo: la sua incapacità a salvarsi»[13]. La volontà di opporsi a tale fato sembra motivare anche la contrarietà manifestata da Fava a Palumbo riguardo il cambio di nome e di origini della protagonista del film: «Nel libro si chiama Elena Vizzini ed è siciliana. Qui nel film ne hanno fatto una del Nord [Elena Bardi, n.d.r.]. Non ne sono contento. È una stoccata antisiciliana: come se nessuno di noi sia in grado di ribellarsi dal di dentro al male che c’è in Sicilia»[14].

Interessante è notare come Fava carichi di un ruolo tanto importante una maestra elementare. La scelta non è affatto casuale ed è dettata dall’importanza cruciale che il palazzolese attribuiva all’istruzione e alla conoscenza in senso più ampio. Per comprendere pienamente ciò, si rivela utile un appunto manoscritto e conservato tra il materiale preparatorio del romanzo[15], in cui Fava scrive che le dinamiche mafiose possono nascere ovunque ci siano disuguaglianze sociali e che non è possibile superare queste ultime se non si vince l’ignoranza. Ne consegue che, se eliminare l’ignoranza è il requisito per cambiare in meglio la società e rimuovere alla radice le cause che generano aberrazioni di cui la mafia è una delle possibili manifestazioni, quella della maestra è una figura dalla dirompente carica rivoluzionaria.

Sciolto il significato simbolico celato dietro il termine ‘maestra’, risulta importante capire pienamente contro cosa ella si batta, cos’è il ‘diavolo’ che compare nel titolo. Le parole già citate in cui Fava allude a ignoranza, cupidigia, speculazione, egoismo e altro ancora come costituenti del diavolo risultano preziosissime per evitare di cadere nel tranello teso dallo stesso Fava e identificare l’Avversario con uno dei personaggi del libro. L’autore, infatti, al primo livello di lettura gioca con il lettore e lo induce abilmente a individuare come possibile antagonista della vicenda l’avvocato Bellocampo, l’uomo più ricco e influente di Montenero Valdemone. La sua è una figura mefistofelica che sembra aver cura della protagonista e al tempo stesso manovrarla per i suoi scopi. Fava costruisce la sua aura diabolica già a cominciare dalle dicerie sul suo conto riferite a Elena dai colleghi e ancor di più dalla sequenza, quasi da romanzo gotico, della prima visita della maestra al suo palazzo. La stessa descrizione dell’avvocato rimarca il suo essere fuori dall’ordinario. Lo scrittore non perde poi occasione per alludere all’onniscienza dell’avvocato e addirittura in più occasioni mostra come gli altri personaggi sembrino essere mossi come burattini dalla sua volontà. L’apice della sua costruzione diabolica è probabilmente però costituito dal brano in cui egli mostra alla protagonista il proprio eden privato e sacrilego, un appezzamento di terreno recintato che custodisce la carcassa di un bombardiere degli Alleati con i cadaveri dell’equipaggio ancora all’interno, una sorta di altare eretto alla memoria del figlio ucciso in guerra. Bellocampo assomma in sé le caratteristiche che servono per essere individuato dal lettore come l’artefice della macchinazione che coinvolge la protagonista, ma, come detto, l’epilogo mette in discussione questa soluzione e in effetti la stessa Elena non giunge mai a un faccia a faccia chiarificatore con il suo ambiguo protettore.

A ben vedere, delle caratteristiche diaboliche nominate da Fava, all’avvocato è possibile attribuire senza dubbio cupidigia, speculazione, egoismo, ma certamente non l’ignoranza, che è invece appannaggio di buona parte degli abitanti di Montenero. Quest’ultima considerazione e lo stesso nome del paese, in particolare il termine Valdemone, spingono a pensare che l’intera cittadina sia ‘diabolica’, che si possa rintracciare la presenza del diavolo in ognuno dei personaggi. E di fatto, se si amplia il catalogo dei mali del Sud proposto da Fava e si prendono in considerazione caratteristiche quali l’omertà, l’ignavia e la passività, l’opportunismo, la diffidenza, non è difficile rintracciare nel romanzo dei caratteri che li incarnino. Il più significativo è senza dubbio il maestro Michele Belcore, collega di Elena con il quale la donna intreccia una passionale storia d’amore. Egli, infatti, rappresenta l’indifferenza e il disincanto accidioso di chi crede che nulla possa cambiare e che, pertanto, non serva a nulla lottare contro le ingiustizie. La sua visione pessimista e rassegnata è talmente radicata da spingerlo a scoraggiare i tentativi rivoluzionari di Elena. La sua azione a favore del mantenimento dello status quo lo rende, dopo Bellocampo, il personaggio più ‘diabolico’ del romanzo, tanto che la stessa protagonista si trova ad associare tra loro i due uomini o il maestro esplicitamente al diavolo.

Anche gli altri personaggi che ruotano intorno a Elena rappresentano a vario titolo e in diverso grado delle componenti ‘diaboliche’, come ad esempio il sindaco Liolà e l’onorevole Cataudella che incarnano l’opportunismo politico, oppure il vecchio professore Spadafora, che con i suoi propositi dinamitardi simboleggia la cieca violenza che può scaturire dal desiderio frustrato di migliorare la società. Fava trova anche il modo, attraverso il personaggio del cronista Agostino Profumo, di criticare il giornalismo morboso e voyeuristico che, al contrario di quello etico in cui crede l’autore, ha come suo unico obiettivo la realizzazione dello scoop. È importante sottolineare che, nonostante tutti i personaggi principali incarnino qualcosa, essi non sono delle maschere vuote, ma caratteri umanissimi e verosimili, assolutamente credibili nel loro agire. Fava è infatti molto abile nel caratterizzarli, nel creare figure tridimensionali in pochi tratti.

La verosimiglianza dei personaggi, il vasto catalogo umano che costituiscono e il fatto che ognuno possieda qualche caratteristica ‘diabolica’ mostra come l’autore voglia suggerire che tali tratti possano appartenere a chiunque. In questo modo, anche il lettore viene spinto a riflettere su di sé. Non solo. Associare in potenza questi connotati all’umanità intera sradica le cause che possono condurre al manifestarsi di fenomeni come quello mafioso dal contesto siciliano, rendendole universali.

Fava si riferisce a questo contesto perché è la realtà che conosce, ma è ben consapevole, come dimostra l’appunto manoscritto succitato, che le dinamiche da lui collocate a Montenero non sono appannaggio esclusivo del Sud, ma possono manifestarsi ovunque vi siano disuguaglianze sociali e che quindi sono anch’esse universali. Lo stesso intento di astrazione a un livello non solo locale lo si trova già nella stesura, a fine anni Cinquanta, del suo primo romanzo, Prima che vi uccidano (pubblicato da Bompiani nel 1976), che è sì ambientato in Sicilia, ma in cui è evidente il desiderio dello scrittore di creare una vicenda dal sapore biblico e, appunto, universale[16]. In modo ancora più eloquente, lo si ritrova nell’ultimo romanzo pubblicato, Passione di Michele (Cappelli, 1980), nel quale la trama, legata sempre alle disuguaglianze, è ambientata in Germania, dove emigra il giovane protagonista, non a caso proveniente da Palma di Montechiaro.

 

  1. Riscoprire La maestra e il diavolo e Giuseppe Fava

 

Quanto detto fin qui è più che sufficiente a mostrare inequivocabilmente come l’imposizione del titolo Gente di rispetto – associato a una copertina che rimanda al film e a una quarta di copertina in cui apertamente ci si chiede «Chi sono gli assassini?» – abbia compromesso la corretta interpretazione di un’opera che ambiva ad essere ben altro che un semplice thriller di mafia. Altrettanto lampante risulta la perfetta coerenza di senso tra essa e il titolo scelto dall’autore, La maestra e il diavolo. Per rendere finalmente giustizia al testo e alla volontà del suo scrittore, nel 2024 il romanzo è stato ripubblicato con il titolo originale dall’editore Navarra, su iniziativa della Fondazione Giuseppe Fava. Il volume presenta una prefazione di Giuseppe M. Andreozzi, genero di Fava e responsabile dell’Archivio della Fondazione, e alcuni documenti relativi al romanzo (fra i quali l’intervista qui più volte citata) che contribuiscono a una più profonda comprensione del suo significato e della sua rilevanza.

A oltre mezzo secolo dalla sua stesura, La maestra e il diavolo risulta un testo di grande attualità per il ruolo centralissimo che attribuisce alla donna nella società (marcando in questo la distanza dalla più blasonata letteratura siciliana coeva), per l’importanza che riconosce al mestiere di insegnante e, più in generale, alla conoscenza e per le riflessioni sempre valide sull’impatto umano e sociale delle disuguaglianze. Non da meno, permette di riscoprire un autore spesso ricordato ingiustamente solo come giornalista ucciso dalla mafia. Il testo aiuta infatti a comprendere in che modo Fava, ingegno ben più che doppio, intrecciasse il suo lavoro di cronista alla sua poliedrica produzione artistica, come riuscisse attraverso di essa a trarre delle verità dalla realtà e come queste verità diventassero le linee guida da seguire nella sua attività successiva. Il coraggio e la determinazione della maestra Elena Vizzini ricalcano e spiegano quelli dell’autore che l’ha creata. Nella sua ostinazione a non voler accettare passivamente i mali della società trovano senso le parole pronunciate da un altro personaggio di Fava, Venero Alicata del dramma La violenza, significativamente riprese nell’epigrafe funeraria dell’autore: «Ma se non si è disposti a lottare, a che serve essere vivi?»[17].

 

 

Ringrazio sentitamente la Fondazione Giuseppe Fava e in particolare Giuseppe Maria Andreozzi per avermi concesso la consultazione del materiale originale dell’autore e per essere insostituibile riferimento per la mia ricerca.

[1] G. Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano 1975.

[2] M. Palumbo, Una maestra contro i padrini, in «Il Corriere di Informazione», 27 ottobre 1975.

[3] G. Fava, Processo alla Sicilia, ITES, Catania 1967.

[4] N. Zago, Sui romanzi di Giuseppe Fava, in M. Finocchiaro (a cura di), La maestra e il diavolo. Atti della giornata di studi dedicata a Giuseppe Fava, Agorà Edizioni, La Spezia 2002, p. 35. 

[5] G. Fava, La vergogna, in Id., Processo alla Sicilia, cit., p. 133.

[6] Ivi, p. 131.

[7] Cfr. N. Zago, Sui romanzi di Giuseppe Fava, cit., pp. 35-36.

[8]Ibidem.

[9] Ivi, p. 138.

[10] G. Fava, La vergogna, cit., pp. 131-132. 

[11] Id., Gente di rispetto, cit., p. 76.

[12] M. Palumbo, Una maestra contro i padrini, cit.

[13] G. Fava, La vergogna, cit., p. 138.

[14] M. Palumbo, Una maestra contro i padrini, cit.

[15] Significativamente all’interno di una cartellina nominata con il termine tabù del romanzo, Mafia. La carta contenente l’appunto è conservata nel documento d’archivio segnato RNS 23.

[16] Non a caso, il primo titolo scelto da Fava per il romanzo era Il principio del mondo.

[17] G. Fava, Monologo di Venero Alicata, in M. Scuriatti (a cura di), A che serve essere vivi. Tutto il teatro vol. 1, Bietti, Milano 2014, p. 629. 

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