Narrativa della maternità. Una riflessione a partire da “Aracoeli”

di Sarah Dierna

 

Nella grande letteratura le madri hanno occupato sempre un posto importante, decisivo, a tratti ingombrante nella vita dei figli. Come gli dèi di Pavese anch’esse sono «il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa»[1]. Sono il luogo inteso come spazio fisico condiviso e battezzato dalla loro presenza in virtù della quale soltanto un ambiente diventa più familiare e sicuro; sono la solitudine come inevitabile ferita che l’affrancarsi, in quanto passaggio fondamentale del diventare adulti, comporta; sono infine il tempo che passa e che si mostra nella pelle man mano sempre più stropicciata del loro viso e nell’andamento sempre più precario, instabile e di nuovo ‘bambino’ dei loro passi. La madre rappresenta il sacro in cui risiede l’altrove perduto e mai più raggiungibile. Il legame che va reciso e poi ristabilito. È l’unità che si spezza e non più riparabile, che rimane impressa soltanto nella memoria della carne e che nel vissuto invece si tenta in tutti i modi di ritrovare. Soprattutto la madre «ancorché sia una presenza come non mai fondativa per ogni umano, è la prima figura di salvezza smentita […], il desiderio frustrato e inconcludente che mostra gli irrevocabili segni della caduta»[2].

Facendo riferimento a un’opera monumentale della letteratura francese ed europea di tutti i tempi, la Recherche di Proust, Enrico Palma interpreta «il mancato bacio della mamma [come] la prima, sofferta e forse mai riparata ferita che mostra in maniera inequivocabile che una salvezza totale non potrà mai venire dall’essere che amiamo, se non per rapidi e fuggevoli istanti per i quali la nostra intelligenza dovrebbe invece premunirsi dal rivestirli con l’involucro del desiderio di cui è costituita l’essenza di ogni illusione»[3].

Aracoeli è per Manuelito esattamente questo ritratto di donna mediante il quale il mondo gli si mostra riscattato dai suoi errori ma attraverso cui ne scorge pure il dolore, la bruttezza e il buio. Con questo romanzo Elsa Morante ha consegnato al lettore una storia inquieta che è triste proprio per l’amore totale da cui scaturisce, amore che diventa a sua volta il luogo, la solitudine e il tempo che passa.  Una storia che permette di cogliere la figura insuperabile che una madre sempre e in tutti i casi rappresenta nella vita di un figlio, sia quando è presente, sia quando è assente.

 

La descrizione di Aracoeli Munoz Munoz, di origine andalusa ma trasferitasi a Roma, a Totetaco prima e nei Quartieri Alti poi, giunge al lettore filtrata sempre e soltanto dal figlio Manuel/Manuelito, che la donna ha avuto con Eugenio Ottone Amedeo – noto come il Comandante – che a quel tempo prestava servizio per il re Vittorio Emanuele. Il padre è il personaggio più silenzioso e anche per Manuel è una figura del tutto marginale, a tratti persino scomoda nella vita di un figlio che vive sempre al fianco della madre, vive sempre per la madre. Della presenza del padre il bambino si accorge soltanto da ragazzo, quando Aracoeli è ormai assente ed egli rivede l’unico genitore rimastogli dopo lungo tempo, lo ritrova consumato da un amore perduto per sempre e lo riconosce forse per la prima volta simile a lui. In quell’istante Manuel si rende conto di amare il padre e non per qualche motivo particolare, semplicemente perché quello è il suo papà e condivide con lui i sentimenti di un amore grande e dunque di un grande dolore.

Fin quando Aracoeli è in vita per Manuel il mondo non esiste. È Aracoeli il mondo, la casa, il genitore, la promessa del futuro, l’amore corrisposto. Il suo grembo è lo spazio di un cosmo protetto, in cui la scintilla riposa sul lobo che illumina il buio come accade alla figlia Carina nei nove mesi che precedono la nascita. In questo anfratto ristretto di spazio e di tempo che precede una vita autonoma e separata il mondo è un bagno caldo e indolore nel quale Manuel vive protetto e al sicuro dai torbidi della vita che niente concede di buono alle sue creature. In questo modo prosegue poi anche la fanciullezza ai Quartieri alti.

Accanto alla mamma gli occhi sono miopi e del reale hanno una percezione assai diversa, assai meno rigida e meno tagliente di come invece esso è e accade per delle entità consapevoli e adulte. Così come dentro il grembo il feto avverte le sonorità del mondo dimidiate e lontane, gli urti leggeri, nello stesso bagno d’affetto esperisce la vita e gli eventi il piccolo Manuel.

Aracoeli, come qualsiasi madre, rappresenta quindi il porto sicuro rispetto al magma dell’esistenza. Tale fu per Giovanni Drogo la sua di mamma quando rientrava a casa tardi la sera senza certezza alcuna nel domani ma con la sicurezza che a casa ci fosse qualcuno ad attenderlo sveglio e pronto ad assicurarsi del suono dei suoi passi prima di cedere al silenzio della notte. La partenza di Drogo per la Fortezza Bastiani è preceduta da un gesto davvero commovente nella sua semplicità. Il giovane ufficiale percorre il viale di casa sapendo di lasciare nella sua stanza «rinserrato nel buio, il piccolo mondo della sua fanciullezza». Un mondo che «la madre [avrebbe] conservato così affinché lui tornando ci si ritrovasse ancora, perché lui potesse là dentro rimanere ragazzo, anche dopo la lunga assenza; oh, certo lei si illudeva di poter conservare intatta una felicità per sempre scomparsa, di trattenere la fuga del tempo, che riaprendo le porte e le finestre al ritorno del figlio le cose sarebbero tornate come prima»[4]. Questo è vero per la madre che vorrebbe custodire per sempre piccolo il suo bambino come unica impresa faticosa fieramente riuscita e in sé bastevole ad appagarla da qualsiasi sforzo, ma è vero soprattutto per il tenente Drogo che in quella stanza serba l’età gaia della vita, nella quale ‘mamma’ è il nome che ha invocato più spesso, il suo intervento la soluzione a qualsiasi problema; la fiducia che dinnanzi all’indifferenza del mondo esiste qualcuno che fa caso al rumore dei passi e ne attende il ritorno. Fuori dalle mura domestiche la vita diventa più difficile e il mondo un posto meno confortevole.

Morante riesce a esprimere bene questa distanza. Quando infatti il piccolo Manuel indossa per la prima volta le lenti da vista per correggere la sua miopia la realtà finora sfocata si mostra per come veramente è, un’esperienza infelice; la necropoli della propria età felice laddove «vivere significa [fare] l’esperienza della separazione»[5]. La sua preoccupazione maggiore è di apparire brutto agli occhi della madre perché Manuel non vuole perdere il calore, l’affetto e le braccia che sempre lo accolgono. Manuel non vuole perdere l’unica parte di mondo dalla quale si sente amato, accompagnato e sostenuto da sempre, che sia tra le braccia o sotto la stretta sicura delle sue mani con l’ausilio delle quali ha mosso i primi passi in casa e fuori casa; è la persona a cui si fa appello a causa dell’ostilità del mondo, quella alla quale si chiede rimedio, aiuto, sostegno per una vita che molto spesso è poco gentile; l’anello della catena tra il nulla e l’essere, tra la quiete e la tempesta.

Crescere significa anche imparare a non ricorrere più al tribunale materno del mondo e riconoscere piuttosto nella figura della madre non il riparo (la salvezza di cui parla Palma alla quale prima ho accennato) ma prima di tutto l’inizio della ferita esistenziale che sempre sanguinerà se non si accetta che la sutùra non può venire dalla fonte che l’ha provocata. Mi viene in mente un altro grande romanzo della letteratura italiana del Novecento in cui il materno è questo legame irrisolto e quindi doloroso che alla fine è la stessa madre a sciogliere quando concede al figlio di partire. Mi riferisco naturalmente a La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda.

Nel romanzo la partenza di Gonzalo Pirobutirro si può leggere come l’affrancarsi dall’ombra del materno ma io credo sia stata in verità la madre a lasciare la presa sul figlio la cui partenza diventa l’inizio di una vita che accade oltre quel muretto così facilmente scavalcabile che pure lo manteneva confinato all’interno del focolare domestico. Alla morte della madre Gadda aggiunge una parola soltanto ma colma di significato: «Abbandono»[6]. Il libro non si chiude infatti con la morte della madre ma con l’incedere della luce dalle finestre che segna l’alba di un nuovo giorno; l’alba di un nuovo inizio; l’alba di una nuova vita.

Se anche per Drogo la partenza è questa difficile operazione di scissione, in Morante la partenza di Manuelito alla volta di El Amendral ha una direzione diversa e del tutto opposta rispetto a quella intrapresa da Gonzalo. Laddove lo scopo di Gonzalo è consistito infatti nell’ accrescere la distanza rispetto al luogo materno, lo scopo di Manuele è invece di diminuire, meglio, di annullare qualsiasi distanza dalla sua mamma. A porre una simile distanza dal figlio in fondo è stata la stessa Aracoeli. Che tale comportamento sia stato volontario, premeditato o causale, il progressivo e all’inizio immotivato allontanamento di quest’ultima da Manuele determina infatti in modo significativo la vita del figlio che fino a quel momento aveva camminato tenendo la mano della sua mamma. Egli assiste alla malattia della mamma e vede il corpo che era stato la sua casa e gli era stato negato concedersi apertamente e senza tregua agli altri. Dopo la scomparsa della madre prima e la sua morte poi, Manuele si trasferisce in Piemonte dai nonni non troppo avvezzi però ai modi e ai costumi del nipote. La lontananza da casa segna già il primo strappo dai luoghi intimi nei quali era stato ‘nino’, amato, coccolato, desiderato e mai abbandonato. La perdita di Aracoeli rappresenta per Manuel la fine di un mondo e l’approdo verso una terra che non mantiene più nessuna promessa e nella quale non sembra concessa più nessuna alba ma arriva direttamente l’ora ultima del mezzogiorno: «Una sorta di mezzogiorno accecante, o di mezzanotte cieca, dove non c’è più nessuno, e nemmeno io» (p. 8).

 

Diventare grandi è anche questa esperienza dolorosa ma necessaria. Il bambino non riesce però a sopportare una simile rottura e a ricucire quindi l’estremo separato dall’altro con il resto del mondo cosicché la recisione con la madre rimane una ferita sempre aperta nella sua esperienza con se stesso e con gli altri il cui peso non riesce proprio a sopportare.

Da qui il senso del viaggio di Manuel. L’Andalusia è il tempo perduto. È il ritorno a Itaca e la vita è questo viaggio difficile, impervio, interrotto. Ma Itaca non è solo la terra di origine della madre. Essa è anche il luogo dell’origine. Tornarci significa per Manuele superare la frattura e ricondurre così quel grumo di «carne viva, vulnerabile e mortale» (p. 120) al ventre che lo ha generato. Il figlio rivolge parole struggenti alla madre: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro gatti nati male, tu rimangiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (p. 127).

Nell’infanzia di Manuel, Aracoeli diventa l’attesa cercata, la presenza perduta solo per il piacere di essere ritrovata; la promessa del futuro al quale adesso egli non crede più. Mentre infatti le assenze provvisorie della madre rappresentavano per il bambino solo l’anelito al suo ritorno, la scomparsa definitiva di Aracoeli – che Manuel aveva comunque già perduto prima del suo ritorno a Roma dalla casa dei nonni per dirle effettivamente addio – è la chiusura rispetto a qualsiasi possibilità; la sfiducia definitiva nel domani; l’inefficacia di quegli «unguenti e rimedi fantastici [che] tu sei capace d’inventare, per medicare le piaghe del male ulceroso che tu stesso hai, coi tuoi aghi, inoculato in sangue» (p. 205).

Laddove Manuel interrompe la narrazione sulla madre la tenerezza e l’amore che investono l’incontro con questo bambino diventano sentimenti patetici e miseri; il pianto, che non ha mai una sola ‘causa scatenante’ poiché la singola esperienza segna soltanto il punto di rottura della diga costruita per arginare i canali della vita, diventa un lamento sordo, un grido che non è più capace di smemorarsi come reciterebbe un verso della poesia di Ungaretti. Il pianto ripete e rinnova dunque il vagito iniziale ed esprime un «lutto disperato» (p. 20); la perdita del grembo; la perdita del bacio della buonanotte che «è il tramite ontologico con cui attingere alla presenza reale delle cose, alla loro essenza che si rivela e soprattutto alla possibilità di addormentarsi, poter prendere sonno»[7] e senza il quale il suono dolce che le labbra emettono premute sulla guancia si trasforma nel suono singhiozzante delle lacrime, senza il quale è difficile addormentarsi e magari sognare.

Nel suo andirivieni tra esperienze oniriche e ricordi rimodulati dalla memoria, tra passato e presente il romanzo alla fine consuma la sua trama e ciò che rimane è un rapporto ferito e totale con il materno. Manuel non piange per la morte della madre e nemmeno per quella del padre. Manuel piange soltanto per amore. Nella «Necropoli di certe mie esperienze infantili» (p. 193) bisogna dunque seppellire la madre per riavvicinarsi a lei, da adulti, nella propria autonomia e libertà. Bisogna sapere rinunciare al bacio della buonanotte per riuscire a dormire veramente tranquilli. 

[1] C. Pavese, La vigna in Id., Dialoghi con Leucò, a cura di A. Sichera e A. Di Silvestro, Mondadori, Milano 2021, p. 145.

[2] E. Palma, De scriptura. Dolore e salvezza in Proust, Mimesis, Milano-Udine 2024, p. 23.

[3] Ibidem.

[4] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 2021, p. 5.

[5] E. Morante, Aracoeli, Einaudi, Torino 2015, p. 20. Il numero di pagina delle citazioni successive tratte dallo stesso libro sarà indicato nel testo.

[6] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Adelphi, Milano 2019, p. 217.

[7] E. Palma, De scriptura, cit., p. 23.

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