Pensieri notturni

di Luca Dilillo

 

Nun weiß ich, wenn der letzte Morgen seyn wird –

wenn das Licht nicht mehr die Nacht und Liebe scheucht –

wenn der Schlummer ewig und nur Ein unerschöpflicher Traum seyn wird.

Himmlische Müdigkeit fühl ich in mir.                                                                                   

                                                                                    Novalis[1]

 

Einleitung. Preludio. Volevo dare un ordine a queste riflessioni sparse, che erano come lampi, stelle che mi balenavano in testa e poi lentamente svanivano nel buio della mente. Poi però ho pensato, meditando nelle tenebre di un incipiente crepuscolo, che l’ordine non appartiene alla Notte: dopotutto si dice “ordine del giorno”, e non ho mai sentito parlare di “ordine della Notte” … Se dunque la forma appartiene al Giorno, nemmeno leggi vorrei dare alla Notte. Lascerò questi pensieri notturni sparpagliati, come le stelle nel cielo, senza alcun ordine derivato dalla luce diurna. Sarà la legge della Notte – se la Notte ha legge – a unire i puntini distanti, creando nuove costellazioni. Magari la confusa legge di notti interiori…

Le costellazioni in fondo appartengono all’uomo: alla creatura tormentata e insoddisfatta, che sperduta vaga sotto il dissennato cielo notturno, cercando un senso in quel caos di puntini… 

 

Vecchio pagliaccio mascherato, Aschenbach suda e il trucco cola via, schifosamente profumato. La perfezione è screpolata. Odore dolciastro di medicina, malattia nascosta in piena vista, tra i vicoli fetidi e opprimenti della città lagunare. Il male è in mezzo a noi: sotto il profumo cerchiamo di occultare la puzza del cadavere in putrefazione. Torna continuamente quell’aroma greve e dolciastro, che mi fa pensare ai fiori marci, all’odor di cimitero. Ennesimo personaggio a metà tra clown e repellente, rosso straniero emaciato, volgare, brutale, ambiguo, anch’egli moribondo, preda del male? Scoperta dell’epidemia nascosta, segreta e sporca voluttà del tacere, ebbrezza della rovina. Ed ecco infine il sogno dionisiaco, tremendo, caotico, violenta espressione dei desideri più distruttivi: il dio straniero! Morte. Sudiciume, veleno, contagio, esalazioni putride. Stanchezza, sfinimento, sudore appiccicoso, simpatia per l’esecrabile: anche lui infine, pagliaccio, vecchio schifoso e ripugnante, Aschenbach, impregnato di sudore e morte, trasformato nell’abisso. Pathos della distruzione. Esotica estraneità, ebrezza malata.

La Morte a Venezia ci rivela che la Notte è Malattia, Torpore…

 

Quando si dice Tristan und Isolde, si sbaglia. La “dolce parola” und deve sparire. Come pure, infine, devono sparire i nomi dei due amanti. Se si nomina Tristan, si nomina allo stesso tempo Isolde: i due sono uno. TristanisoldeIsoldetristan

 

Don Giovanni – in particolar modo quello mozartiano – incarna l’essenza dell’uomo moderno? No, dell’uomo in generale. Vuole provare tutto, di tutto fare esperienza, tutto assaggiare, Tutto Essere: ma è impossibile, ed egli lo sa bene. Eppure, non si rassegna al finito, alle forme stabilite, a un finto arrivo: cerca costantemente di travalicare ogni limite, sapendo in partenza di fallire. Non c’è vittoria e neanche sconfitta. Abbraccia il fallimento, dolore del Desiderio, destino di Morte.

 

Tutto nasce, come sempre, dall’esperienza personale: consonanze e risonanze tra arte e vita, tra lettura, visione, ascolto ed esistenza. Sentimento contingente dell’esserci. Ci sono volte in cui mi scopro fortemente desideroso di Morte: velata dal riposo, dal sonno, dalla notte, dalla pace, non altro che suoi sinonimi. Sfuggire alle incombenze quotidiane, trovare riposo dagli assilli, non dover più immergersi in quella vita caotica, impegnata, sempre squallida e banale… È allora che trovo ristoro nelle letture: arrivano conferme, quasi consolatorie, nello stato d’animo di Gustav von Aschenbach, di Detlev Spinell… Possibilità di compassione; arte e vita vissuta si compatiscono a vicenda.

 

Don Giovanni, commedia notturna: il soggiacente funereo del vorticoso e spensierato classicismo settecentesco. Sotto la patina galante, allegra, colorata, leggera, si sente odore di morte e putrefazione: c’è qualcosa di sinistro e di oscuro, perfino di solenne, in quell’eroe che eroe non è, modernissimo, perfettamente immaginabile in un contesto wagneriano. Come quello del Tristan? Eroe dell’abisso, ateo, ribelle, mortifero e notturno: don Giovanni agisce di notte, non ha forma. È protagonista del Nulla. Il Don Giovanni di Mozart ha qualcosa di assolutamente particolare, che mi fa pensare a una commedia al buio: nonostante la prevalenza dei toni comici, tutto è immerso nel buio. L’intero secondo atto si svolge di notte, moltissime sono le scene al chiuso, tra le ombre, in palazzi cavernosi, al cimitero; l’atmosfera generale è lugubre: la dolcezza è costantemente velata di sopore letale, su ogni cosa aleggia un senso di dolore e lutto, passato e incombente. La Notte ricopre l’opera buffa. Il dramma gioca con le ombre.

 

È simile alla scelta di Tristano e Isotta quella di Don Giovanni… Forse cambia solo la consapevolezza. I due amanti sanno bene di dover morire perché il loro Amore si compia. Volontariamente si consacrano alla Notte. Il Desiderio, sostanza della musica del Tristan, può vivere come supremo piacere solo nella Morte.

 

Non le ho scelte io, queste figure della Notte: mi sono capitate addosso, in un momento in cui ero particolarmente sensibile alla decadenza e al disfacimento… Vengono dalle novelle di Thomas Mann, dal cinema di Fellini, dalla musica di Mozart e di Wagner… Le figure della Notte e della Morte, personaggi notturni e mortiferi: Don Giovanni, Casanova, Aschenbach, Spinell, Tristan e Isolde. Non per caso sono anche tutti personaggi dell’Amore, legati ad Eros in varia misura. Personaggi in cui Morte e Amore vengono a coincidere. Figure di Morte perché figure d’Amore. 

 

La Sera: i vespri la annunciano, quindi dovrebbero fare da Preludio, Vorspiel… Ma siccome la Notte che è nostra guida e signora non ha legge né ordine, non ha tempo né spazio, si può ben parlare di Sera dopo aver parlato di Notte. Nel crepuscolo v’è dolcezza, tenerezza, sentimenti lievi e delicati, effusioni amorose leggere, anche sofferenti: ma ogni emozione nella Sera si fa dolce, trascolora in rosa e sfumato, pastello granuloso di realtà. Il calar del sole prepara la Notte: la preparazione reca in sé molto di ciò che poi esploderà con enigmatica violenza. La Notte è violenta, dura, forte, gelida, bollente, tutto è portato all’estremo: vediamo il mistero invisibile, l’enigma perturbante si mostra in una caligine spaventosa. Sogni, turbolenza, vita che sprofonda nell’Inconscio e nel Nulla. Il terrore del non sentire, del non vedere, del non esser coscienti. Di non essere.

Luogo che non è un luogo, tempo che non è un tempo, vita morta, morte viva, tutto e niente: Tutto è Niente. Nessuna regola, nessuna legge. Solo stelle pulsanti e remote. Il buio dice tantissime cose, troppe cose, con il suo silenzio. Parole inconsistenti e invisibili. La Notte fa paura, è l’ignoto, è la Morte. La Notte è il Mare. Tempesta e silenzio, bonaccia e tormento. Calmo turbamento, angoscia serena. 

 

Preludio del Tristan: difficoltà. All’inizio è davvero faticoso definire con parole il sentimento suscitato da quella musica fascinosa e torbida, meravigliosa, ammaliante come un filtro d’amore… Con forza, con insistenza mi diceva qualcosa, ma cosa di preciso non avrei saputo dirlo: forse era proprio quello il punto. Una musica notturna, informe, senza definizione. Non si può esprimere a parole quell’amore che risuona nel Tristan… una musica della Notte. Poi è arrivato, un nome: il Mare. Sereno, sonnolento e dolce fluire delle onde, di tanto in tanto increspate, mosse da scoppi di tormenta. Acque calme violente agitate.

Tristan und Isolde ci rivela che la Notte è Desiderio, Sehnsucht. La Notte è il Mare.

 

Venezia, la città notturna. Wagner vi si recò per scrivere il secondo atto del Tristan: fuggiva dallo scandalo della sua passione, mai consumata, per Mathilde Wesendonck… mai aveva conosciuto la vera felicità d’amore e sentiva il desiderio di elevare un monumento al più bello dei suoi sogni: “O ew’ge Nacht, süße Nacht! Hehr erhabne, Liebes-Nacht!”[2]. Notte d’amore.

La Venezia perduta e sognata, anelata da Casanova. Venezia fantasma, irreale. La Venezia di Aschenbach, città malata, soporifera. Nere bare galleggianti sull’acqua…

La Morte a Venezia fu di Wagner: il termine estremo di una vita geniale, spentasi proprio nella città notturna, il 13 febbraio 1883. Non fu invece di Casanova… e magari la bramava anche lui, quella Morte a Venezia, quando giunse il momento nella remota Boemia, esule girovago. Venezia, vagheggiata meta, negli ultimi istanti sognata, come una dolce madre, in una notte ormai perduta…

 

Nella musica di Wagner, come pure in quella di Mozart, si realizza ciò che della musica diceva Schopenhauer: essa rivela l’essenza del mondo. La musica consiste nell’essenza del mondo, custodisce un cuore di verità tenebrosa e segreta che risuona per noi senza parole, senza alcuna forma che definisce e imprigiona. La musica dice il divino, l’animale, l’inerte e l’umano, il Morto e il Vivente, lo Sveglio e il Dormiente, che sono un tutt’uno. Dice senza dire, dicendo il Nulla e la Volontà del Nulla. Al di là di ogni possibile e impossibile, la volontà e il desiderio che sono Amore vogliono il Nulla: la Notte, la Morte, l’Eterno che è Tutto. Ewig Ein

 

Nessuno di questi personaggi si eleva verso il Cielo. Ma tutti sprofondano, che è un po’ come elevarsi al contrario, pur sempre in verticale, verso l’Inferno e l’Inconscio… Tutti tranne Tristan e Isolde, seguaci dell’Obliquo. Essi ripudiano Verticale e Orizzontale, figure di incoscienza, di incomprensione, di misticismo, celestiale o infernale che sia. Bramosi di Morte trasfigurata in Amore.

E di Amore trasfigurato in Morte.

 

La morte a Venezia: teoria incessante di figure della Morte. Galleria di ritratti di θάνατος e νεκρόι: la cappella funebre, “mole bizantina” che prefigura Venezia; lo straniero – un dio straniero? La visione: una palude tropicale. Il paese delle tigri. È tutto un continuo prefigurare: pure questa rimanda a Venezia, destino fatale, palude stagnante, regione esotica; come pure alla malattia mortale, colera indiano; un vecchio che si atteggia da giovane: è disgustoso, orrido, raccapricciante. Decrepito cadavere mostruoso in mezzo alla gente, ma nessuno sembra notarlo: è fuori posto… ancora una volta, anticipazione dello stesso Aschenbach, truccato e ringiovanito prima della fine; l’esperienza della gondola, il calmo dondolio sull’acqua. La scena sulla gondola, bara galleggiante, è un momento decisivo. Qui si rivela tutta la disturbante stravaganza dell’intreccio tra dolcezza e distruzione. La Morte è perfino orgasmo: la voluttuosa pace che segue allo sforzo, alla tensione montante. Del resto, alla piccola morte dell’orgasmo si allude in molti luoghi. Mi viene in mente il bellissimo madrigale di Arcadelt, Il bianco e dolce cigno: mentre il candido uccello muore disperato, colui che gusta la dolce morte se ne va beato, tutto riempito di gioia e di desire

Orgasmo è desiderio di Morte.

 

Il Don Giovanni e il Tristan sono opere totalmente diverse, perfino opposte; c’è tra loro però una strana affinità: è il senso della Morte che le pervade, aprendole e chiudendole, quasi in un abbraccio, sfero empedocleo. Liebes Tod, Morte d’Amore, è il nome che Wagner aveva dato al Preludio del Tristan und Isolde; Mozart inizia l’Ouverture con gli stessi toni funerei del Finale secondo, per poi passare, nell’Introduzione, a una serie vorticosa di prepotenza, furia, precipitazione, persecuzione, omicidio, tragedia luttuosa; Wagner termina con la Verklärung, la Trasfigurazione di Isolde, la morte dei due amanti; Mozart conclude con il terribile Morto che Ritorna, l’abisso infernale che si spalanca, perdizione e dannazione. La Morte domina l’incipit e la fine di entrambe le opere, anche se in vesti opposte: paradossalmente, nell’opera buffa queste vesti sono lugubri, brutali e terrorizzanti, mentre nella tragedia amorosa sono abiti di ardente desiderio, di suprema letizia, di pace e congiungimento. Due finali che danno i brividi, per la potenza e la maestà che sono quelle della Morte: timore e tremore, estasi e commozione. Piacere e Paura. Ancora, Orrenda Dolcezza…

 

Il Casanova di Federico Fellini: un uomo che non ha mai vissuto, un amante delle ombre: essere che è nulla, vita inesistente, creatura liminale, già da sempre morta, avvolta nel sudario, specialmente quando pratica la sua arte amorosa… La melodia spettrale e cantilenante di Nino Rota che apre e chiude il film ci getta nelle ombre, in questa Venezia, ancora Venezia, città dei morti, buia, fantasma, illusoria. Infine deserta. Laguna ghiacciata, tenebre calanti… Tutti fuggono, Casanova è solo. Solo come le anime in pena, vagante nella notte, nel gelo, nella laguna spettrale. L’effige del capo della dea Luna che all’inizio della pellicola non riesce ad emergere dalle acque – forse perché il suo elemento è l’acqua, lo stagnante, i recessi fangosi – è segno di cattivo auspicio e sotto questo segno l’intera esistenza del Casanova si svolge: un uomo perseguitato dalla mala sorte, braccato dall’ombra della Morte. La dea Luna, scura e inquietante, potrebbe anch’essa celare figurazioni mortifere: la Luna è regina della Notte, ma Selene è diva triformis: è Persefone, signora degli inferi; è Ecate, signora del notturno, dell’oscurità, dei fantasmi… Tutto il mondo della Notte-Morte è qui evocato…

 

Il Tristan und Isolde è la Musica che dis-vela Amore-Morte nella sua più profonda e segreta verità…

 

Sono tutte figurazioni della Morte. È la morte che Aschenbach cerca a Venezia? Venezia è essa stessa la Morte? Un desiderio di annullamento cercato per stanchezza della vita, del giorno. Giunge Eros, subdolo ma dolce, a irretire il protagonista, a spingerlo verso la Fine: nella figura di Tadzio, bellissima e malaticcia, pallida, i denti rovinati… è improbabile che diventi vecchio… Il clima di Venezia, quasi tropicale, disturba: l’afa ripugnante stagna nei vicoli, l’aria è densa di vapori, il calore è opprimente, asfissiante, sgradevole. Anche il Bello è qui maschera della Morte, tutto la nasconde e la rivela. Evitata e cercata. Domina l’impressione di qualcosa che non dovrebbe esserci, qualcosa di ripugnante e di schifoso, che tuttavia c’è, in mezzo a noi. Il torpore dello stordimento, dell’ubriachezza, della torrida sonnolenza. Su tutto cala una cappa di gravezza stranamente dolce e molle. Dolcezza e morte, profumo e fetore, l’uno copre l’altro o l’uno rivela l’altro? L’uno è l’altro? Amore è Morte? L’Amore a Venezia

Ma davvero serenità dolcezza molle languore sono opposti a sofferenza agonia turbato disfacimento? Superficie e profondità ci dicono di sì, perciò sentiamo lo straniamento. Sia che ci fermiamo all’apparenza, sia che tentiamo di elevarci all’unità serena o sprofondiamo nell’orrida moltitudine, Cielo, Terra o Inferno non possono cancellare il sentimento di una contraddizione stranamente violata.

Occorre il terzo senso, l’Obliquo…

 

Don Juan Tenorio, come ci dice Umberto Curi[3], è il grande mito moderno: non ci parla tanto di seduzione, quanto di Morte. Seduzione della Morte? L’evento centrale è l’atto blasfemo, la derisione della sacralità della Morte. A cui segue, irrimediabilmente, il sulfureo castigo. Il Morto che Torna, il Cadavere di pietra, immagine della Morte stessa, che si presenta alla cena. Ultima Cena, sempre e comunque preludio di una Fine. Perché Don Giovanni non teme la Morte? Perché la deride? Perché si ostina a non pentirsi, pur davanti alle fiamme eterne? Forse perché vede in quelle fiamme la stessa qualità del fuoco d’Amore? Quel fuoco di mai sazia passione, eternamente bramoso della totalità del femminile: tutta l’altra metà del mondo, perché si compia la mai compiuta unità. Don Giovanni – ce lo mostra la musica di Mozart – non può mai fermarsi: è puro movimento, desiderio infinito, tensione senza meta. Vuole Tutto. Quindi, ineluttabilmente, vuole anche la Morte. Per questo la abbraccia.

Non c’è Amore perfetto al di fuori della Notte…

 

In ogni caso, la prova che la Morte è amorosa Bellezza sta nel canto finale di Isolde. Ascoltandolo è impossibile non esserne convinti. Noi stessi diventiamo Isolde, diventiamo Tristan, eternamente uniti, per sempre una cosa sola, sprofondando ci innalziamo… dentro una melodia che sale, discendono nubi marine… “ertrinken… versinken… unbewußt… höchste Lust!”

 

Casanova perde ogni donna che vorrebbe amare davvero, senza stanchi giochi erotici: queste scompaiono nel nulla o lo abbandonano alla triste e vacua dissipazione. Casanova è attratto dalla malattia, come nella pallida sartina che sviene continuamente necessitando di ripetuti salassi, forma esangue… È attratto da una bambola, meccanismo inerte, privo di vita, che non risponde al suo ardore se non con freddezza: la bambola, che gli assomiglia in modo inquietante, è la Morte. Con lei Casanova danza nell’ultima scena, alla fine di tutto. Ed egli, in quanto assomiglia alla Morte, è il Morto per eccellenza. Morto e Morte si accompagnano nella Notte, assolutamente e irrimediabilmente soli. Amanti?

Il Casanova di Federico Fellini ci rivela che la Notte è Assenza, Fantasma…

 

Quasi sempre si parla di Amore che vince la Morte, di Amore che è più forte della Morte. Ci viene detto di non temere la Morte, ma di amare la Vita… Vita e Amore sempre contro la Morte. Come se fosse vera, questa lotta. Ma perché? È solo finzione. Dovrebbero una buona volta invitarci ad amare la Morte, senza che ciò significhi essere nichilisti. Amare la Morte nell’Amore e l’Amore nella Morte, in continuità, in identità, non certo in opposizione…

 

“Donde escono quei vortici di fuoco pien d’orror?” “Chi l’anima mi lacera!… Chi m’agita le viscere!”

Chi? Perché allora Don Giovanni vive la Morte come dannazione infernale?

È il contrasto lacerante tra Istinto e Inconscio, Superficie e Profondità. Egli sente in cuor suo che non può e non deve sfuggire alla Morte, ma teme terribilmente questa pace, che immagina come Orrore… Orrenda Dolcezza. Il Liebestod di Don Giovanni è tormentato come la sua anima, costantemente agitata, che nel momento supremo sente fortissima la fine del movimento interminabile. Egli ha vissuto nell’Orizzontale ed è morto sprofondando nel Verticale, in affannosa ricerca dell’Obliquo.

D’altra parte, se in Don Giovanni c’è lotta, in Tristan e Isolde pace e tumulto vengono trasfigurati in qualcosa di nuovo. Il Tristan è l’opera dell’Ascesa, del Suolo e dell’Abisso: di Cielo, Terra e Inferno. È l’opera del Desiderio, che sposa Amore e Morte nella pienezza dell’Estasi. I due amanti affondano e si elevano. Solo così è possibile considerare come il più bel lieto fine quello che in qualunque altro dramma d’amore sarebbe un finale tragico…  

 

Il Tristan è il cuore di tutto, sta al centro di queste riflessioni. In un certo senso, mi ha fornito la chiave di lettura per leggere tutte le altre opere. Non è tanto la volontà di positivizzare la Morte – oggi la positività sembra un obbligo – quanto quella di vederne l’essenziale unità con Amore. Li troviamo sempre insieme, apparentemente in contrasto; pur nella vicinanza si escludono a vicenda. Ma se stanno così intrecciati, perché poi parlare di opposizione? Che sia invece attrazione? Istinto e Profondità sentono la lotta. Ma tra Orizzontale e Verticale sta l’Obliquo. Tra impulso epidermico e cieca immersione c’è il Desiderio.

Solo che è una verità abissale. Fa paura. Ci terrorizza l’idea che Amore sia Morte.

La Morte si dice in molti modi. Con molti volti, anche contraddittori. Si mostra attraverso figure notturne.

 

Detlev Spinell, lo scrittore coprotagonista della novella Tristano di Mann, mi suscita simpatia e un bel po’ di comprensione. Sarà pure la parodia della poetica decadente, di quell’estremo strascico morboso del romanticismo… “poppante putrefatto”, come viene malignamente chiamato, vecchio-bambino, creatura fatta dei due margini della vita: limite inferiore, prossimo alla Notte prenatale, limite superiore, vicinissimo alla Notte post-mortale. La strana unione degli esseri liminali, un monstrum incomprensibile, per sua natura estraneo alla vita. Forse proprio per questo scrittore, artista, che osserva e riproduce senza agire. L’azione è il carattere del giorno, come il giacere lo è della notte… 

 

Destino fatale: l’attrazione erotica per una Morte non evitabile. Perché solo in essa si può amare. Perché nella vita di ogni giorno, rinchiusa e limitata, unica possibilità è il dongiovannismo: il movimento continuo, da un amore finito all’altro, da un interesse all’altro, da un impegno all’altro, senza mai potersi fermare. Ma è chiaramente una possibilità disperata, fatalmente destinata allo scacco. Per questo infine Don Giovanni non si oppone alla Morte, non prova a evitarla, anzi la sfida apertamente. La sua audacia blasfema è forse un celato desiderio di spegnersi? Morire, unico modo per trovare la pace? Unico modo per eternamente amare, eternamente giacere con Donna Notte? Amante perfetta… 

 

Dovremmo amare anche il soffrire, anche l’infelicità. Non sopportarli. Se amate solo gli amici e i fratelli, che merito ne avrete? Bisogna amare il proprio Nemico…  

 

La Morte a Venezia è il tentativo di dire in parole – tentativo fallito in partenza – la verità espressa in musica dal Tristan di Wagner: questa verità è continuamente ripetuta nelle due opere. In realtà è ripetuta in tutte le opere, in tutta l’Arte, incessantemente. Una verità mai davvero dicibile. Eppure ci prova, ogni artista, a suo modo, disperatamente. Dalla disperazione nasce l’arte. Una verità che riguarda la deformante, onirica e contrastante ambiguità percepita tra Orrore e Sereno, che sempre frequentano gli stessi luoghi. Quel senso di Unheimlichkeit da cui sorge l’arte si converte poi, con turbamento sempre maggiore, nell’obliquo, nella percezione di una appartenenza sostanziale tra Sereno e Orrore, fino al sentimento della loro unità irrisolta e indicibile. Supremo Abisso! Thomas Mann ha trovato parole per tentare di dirlo: Orrenda Dolcezza.

Arriva il dio straniero

 

Spinell è un essere che striscia, che giace, che non cammina e non agisce, esattamente come il vecchio moribondo e il bimbo appena nato. Vive, come loro, in un limbo tra vita e morte, tra giorno e notte, molto più vicino ai secondi che ai primi. In fondo scrivere è una delega, sostituisce l’azione diretta con ciò stesso eliminandola: Spinell non dice in faccia al rappresentante del giorno, al rubicondo e allegro mercante Klöterjahn, quello che pensa di lui, ma delega alla lettera, alla scrittura, arma dei deboli contro i forti che la vita la dominano. Scrivere è rinunciare. Ora, io non posso che simpatizzare con questo povero e debole bimbo putrefatto, già da sempre sconfitto. Anch’io infatti sto scrivendo; anch’io trovo nella scrittura la forma espressiva a me congeniale, schiva, rinunciante, già da sempre sconfitta. Ma la sconfitta appartiene al Bello. In esso mi rifugio. Come il povero Spinell, goffo, difettoso, passivo, incapace di reagire, morboso fino all’ossessione. Imperfetto e solitario come solo l’artista, il bambino, il vecchio, l’animale e il dio sanno essere…

 

Don Giovanni si traveste, si maschera, cambia identità in continuazione: “Chi son io tu non saprai!” Passa da una forma all’altra, da una donna all’altra, dio animale bambino artista amante inerte; sa nel profondo che durante il giorno solo all’Incessante è dato di amare. Per questo motivo, ammantato dell’indistinta Notte, se ne va sfrenato, incosciente, in cerca della Morte. A giacere – finalmente in pace – con lei.

Don Giovanni ci rivela che la Notte è Movimento, Maschera…

 

Non è per nulla facile trovare l’Obliquo: è una direzione strana, deformata, estremamente difficile da mantenere. Ma unifica Cielo e Inferno: è la radice di ogni consapevolezza e conoscenza. È Desiderio. Tocca l’estremo dolore e l’estremo piacere. Orrenda Dolcezza…

 

Dissonanza è l’unico linguaggio adeguato – se pure ce n’è uno – della Notte.

[1] Adesso so quando verrà l’ultimo mattino – quando la luce non fugherà più la notte e l’amore – quando il sonno sarà in eterno e un solo inesauribile sogno. Sento in me stanchezza celeste. Hymnen an die Nacht, IV.

[2] Lo afferma in una lettera a Liszt del 1854.

[3] U. Curi, Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2018.

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