di Stefano Piazzese e Mattia Spanò
La terra dei vostri figli voi dovete amare: sia questo amore la vostra nobiltà nuova, – la terra non ancora scoperta, nelle lontananze remote del mare! Questa terra io ordino di cercare e cercare, alle vostre vele.
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte III, Di antiche tavole e nuove)
- Introduzione
Il termine geofilosofia – si dice – è stato coniato e impiegato per la prima volta da Gilles Deleuze e Fèlix Guattari nell’opera Che cos’è la filosofia?, pubblicata nel 1991. Ciò non vuol dire che, fino a quel momento, nessuno avesse mai trattato tematiche che, a posteriori, sarebbero ricadute in questo rinnovato panorama di ricerca. Né significa che nessuno, precedentemente a questo presunto spartiacque metodologico di matrice francese, avesse assunto determinati problemi entro un orizzonte ermeneutico assimilabile a quello tracciato da Deleuze e Guattari. D’altronde sono proprio questi ultimi a smarcarsi dalla paternità del concetto, riconoscendo in Nietzsche il fondatore della geofilosofia[1].
Il continuo riferimento alla terra che troviamo nello Zarathustra è oggetto di interpretazioni tra loro spesso molto diverse e inconciliabili, certo. In effetti si tratta di un riferimento poliedrico presente nei versi di colui che Ferruccio Masini ha definito lo scriba del caos, ovvero un pensatore nomade. Tale nomadismo, che Nietzsche ha fatto proprio nella sua esistenza, sicché in lui pensiero ed esistenza non sono mai due dimensioni separate dell’esistere – qui la grande tragicità dell’uomo-filosofo –, vuole che terra non sia mai un concetto astratto; nelle pagine del filosofo essa è anche vitalità dei luoghi che lui stesso ha vissuto cogliendone quanto più possibile tutte le prismatiche risonanze della vita umana che in essi si diramano. Nietzsche che – ancora – aveva già a più riprese evidenziato, con una certa decisione, come fosse una contingente atmosfera più che una puntuale origine, a decretare l’ininterrotto dispiegarsi di vita e pensiero[2]; e che, fonte inesauribile di stimoli vivaci, è così seguito da Deleuze e Guattari nell’intento di mostrare che ogni concetto, pur incardinandosi nella storia, «in sé non ha né un inizio né una fine, ma soltanto un ambiente. In tal modo è più geografico che storico»[3].
Riflessioni che, inevitabilmente, riconducono alla geofilosofia sotto un cono di luce teoretica peculiare: l’inestricabile e co-costitutiva relazione tra uomo ed ambiente. Da questo punto di vista, tornando alle battute iniziali del presente contributo, si potrebbe aggiungere che il problema geofilosofico sia in cammino già da secoli. E che, nel corso degli stessi, sia stato preso in carico ed elaborato dalle più disparate prospettive, di volta in volta emerse entro peculiari coordinate culturali – ad un tempo storico-geografiche – e articolantesi in vista di una o più esigenze speculative.
Ciò che, comunque, in questa sede è opportuno rimarcare risiede nel fatto che appare ormai «assodato […] che i fattori ambientali svolgono un ruolo sia nella storia culturale sia nell’evoluzione biologica, naturalmente con una significativa differenza. […] Quello che una civiltà ha sviluppato viene accolto da quella vicina e, in un diverso contesto, appare sotto una nuova luce»[4]. Tenendo, da un lato, ferme le più recenti acquisizioni sulla tematica in oggetto – sulla trama delle quali si tornerà e procederà – dall’altro è opportuno rimarcare, ancora una volta, come l’architettura complessiva dei problemi relativi alla geofilosofia si svolga su un manto d’età millenaria.
È così che uno studioso come Franco Farinelli, nel sostenere l’inestricabile intreccio tra geografia e dispiegarsi del pensiero, ha avuto modo di spingersi fino all’osservazione: «A scuola li abbiamo studiati come filosofi presocratici. Giorgio Colli li chiamava i sapienti greci. Ma per Strabone, all’inizio dell’era volgare, gli autori dei primi modelli occidentali del mondo erano semplicemente geografi»[5]. E, ancora, si potrebbe fare riferimento ai quarantasette corsi che Kant dedicò – durante gli oltre quarant’anni di docenza – alla geografia, considerando l’espansione degli orizzonti di quest’ultima come un passaggio complementare all’affinamento degli orizzonti di pensiero[6]. Non molto tempo dopo, Carl Ritter, padre fondatore della disciplina geografica moderna con Alexander Von Humboldt, ha strutturato il suo «sistema del mondo» a stretto contatto umano ed intellettuale con Hegel e sotto l’influsso della Naturphilosophie di matrice schellinghiana. Lo stesso Humboldt – fratello minore di Wilhelm – intraprenderà una serrata e accesa polemica con l’Hegel fautore di una lettura geografica della storia, la quale – a sua volta e in una certa misura – sgocciolerà sull’opera del geografo Friedrich Ratzel, iniziatore di quella geografia politica che si interroga sui rapporti tra i fattori geografici e le forme politico-istituzionali. E si potrebbe, ancora, procedere a lungo: significativa è l’influenza dell’opera heideggeriana nei confronti di un geografo come Eric Dardel che, in stretto dialogo con il filosofo tedesco, traccerà il concetto-scenario di geograficità dell’essere umano. Heidegger e Dardel saranno, poi, figure centrali nella manovra geografico-filosofica attuata, negli ultimi trent’anni, da Augustin Berque, il quale propone per il ripensamento del rapporto uomo-Terra il programmatico termine-ambito mesologia: «la disciplina che si occupa dei milieux umani e dell’ecumene, per definirne la medialità. In pratica è uno sviluppo della geografia nella prospettiva della fenomenologia ermeneutica»[7]. O, ripercorrendo un ulteriore tornante, non è difficile rinvenire nel pensiero marxista degli assunti di matrice geografica, seppur non necessariamente rivendicati dallo stesso come tali; tant’è che una consistente ala della cosiddetta nuova geografia culturale è proprio da assunti intrisi di marxismo – e da spunti provenienti dai Cultural Studies – che attuò una drastica revisione epistemologica della disciplina, iniziando ad assumere il rapporto tra uomo ed ambiente entro un orizzonte ermeneutico rinnovato[8].
Posto ciò – e ci sarebbe ancora tanto altro da dire – l’orizzonte metodologico-prospettico entro il quale si dispiega il presente tentativo di riattraversare la questione geofilosofica non si situa nella vana pretesa di stabilire cosa spetti esclusivamente alla filosofia e cosa, invece, sia di pertinenza meramente geografica. In questo modo ci si allontanerebbe da quanto ci si propone di fare, oltre – molto probabilmente – a non fornire un buon servizio alla ricerca, la quale, oggi più che mai, non può che fondarsi sul reciproco arricchimento interdisciplinare.
In questa sede, al contrario, si intende intraprendere un cammino – mentre si è già in cammino – nel riferirsi ad «un orizzonte di problemi che, in modo diverso e muovendo da differenti punti di vista e presupposti, pongono in questione il pensiero o, come si usa dire da tanto tempo la filosofia» (e la geografia), «al di là di confini disciplinari già delimitati» e nell’ambizione di collocarvisi, «come è proprio di ogni ricerca che aspiri a essere filosofica»[9] (e geografica).
Geofilosofia vuol dire pensare a partire dalla consapevolezza che essere collocati storicamente significa anche essere collocati geograficamente. Questo esser collocati geograficamente non è un dato secondario o una variante di poco conto nell’elaborazione di un pensiero come tentativo di comprendere la terra e la vita, laddove la terra è πολλών ονομάτων μορφή μία, forma unica dai molti nomi (Eschilo, Prometeo incatenato, v. 210), nel senso che quell’unità a cui si fa riferimento quando si dice pianeta Terra non deve erroneamente condurre a pensare omogeneità di contenuto, come se si trattasse di un organismo – anche se la traduzione del verso eschileo potrebbe ingannare in un primo momento. Qui i molti nomi della terra, i suoi inesausti e sempre nuovi volti, come sempre nuove sono le esperienze di coloro che la terra la abitano, di coloro che in essa fanno dimora, di coloro che la vivono e, essendone parte costitutiva, pensano a partire dai luoghi che abitano, che sono luoghi della terra e luoghi della vita. Della Terra perché i luoghi trascendono sempre l’abitatore e rimandano costantemente a uno spazio più vasto, a una connessione fondamentale con ciò che lo sguardo, tuttavia, non riesce a cogliere data la limitatezza del raggio visivo. Della vita poiché in essi, e a partire da essi, si struttura il pensiero che riguarda un bisogno primario dell’umano: l’abitare. Dall’abitare dell’uomo è possibile pensare attraverso i luoghi.
Senz’altro la collocazione geografica del pensante è un elemento che imprescindibilmente determina il pensiero, e lo determina in forza di questo legame simbiotico tra luogo e abitante che pertiene all’umano. Partiamo da una definizione: «la geofilosofia si pone, dunque, programmaticamente come una riflessione interdisciplinare sull’abitare la terra nell’epoca del dominio della razionalità scientifica e strumentale e della sempre più pervasiva omologazione tecnica dei luoghi e delle prassi abitative»[10], una riflessione che per la sua versatilità teoretica, dunque, può esser declinata in tanti modi e perseguire varie direzioni in ragione delle intersezioni dove discipline diverse s’incontrano. Qui verrà tracciato un percorso che a partire dal concetto di geograficità dell’uomo giungerà all’analisi del nesso mare-filosofia in riferimento a un contesto preciso: l’Europa.
- 2. Geograficità dell’uomo: ambiente e pensiero
Entro quest’orizzonte si situa anche il gesto di Deleuze e Guattari che, non a caso, definiscono le coordinate della geofilosofia in un’opera che annuncia già dal titolo un anelito al rinnovamento teoretico-prassico e, dunque, disciplinare. Ecco che la manovra intellettuale dei due pensatori francesi emerge in tutta la sua drasticità, non risolvendosi nel perimetro del tentativo di comprendere il seppur innegabile e profondo percorso intrecciato di filosofia e geografia, ma costituendosi come un discorso di matrice fondazionale: non si tratta solo di un’operazione volta ad evidenziare la necessità di assumere ogni traiettoria speculativa entro il contesto storico-geografico dalla quale emerge (problema epistemologico); di più: si tratta di rimarcare l’intrinseca e ineliminabile geograficità, oltre che storicità, della filosofia (problema, in una qualche misura, anche ontologico).
Se Deleuze e Guattari non impiegano l’espressione geograficità[11] della filosofia, è in un senso significativamente affine al concetto in questione che ne sostengono una riconfigurazione complessiva, evidenziando come non vi sia accenno di pensiero che non emerga in uno specifico ambiente. Una premessa metodico-prospettica in cui riecheggiano, seppur con diverse sfumature e differenti esiti, spunti di derivazione marxiana. Se, come si è detto, è sull’opera di Nietzsche che Deleuze e Guattari fissano i pilastri del discorso geofilosofico, risulta particolarmente interessante notare come alcuni degli snodi cruciali dell’Ideologia tedesca mostrino una spiccata vicinanza teorica alle fondamenta della manovra geofilosofica attuata da Deleuze e Guattari. Pur non potendosi addentrare in un esame approfondito «né della costituzione fisica dell’uomo […], né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche e climatiche», Marx ed Engels osservano che «ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini»[12]. Questi sono i presupposti «reali» a partire dai quali assumono e ripensano l’inestricabile nesso tra qualsivoglia spunto critico-filosofico e la realtà-ambiente entro cui si dispiega. Contesto prassico-materiale che, per quanto passibile di modifica, restituisce a chi vi è gettato già un’impronta (se non del tutto determinante, perlomeno vincolante in quanto a condizioni di vita e possibili sviluppi). Marx ed Engels, dunque, chiosano recisamente: «le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini fanno le circostanze»[13].
In questa cornice è all’opera quel dispositivo di ripensamento in termini relazionali del rapporto soggetto-oggetto che – già gorgogliante in altri luoghi speculativi di Marx[14] – sarà posto da Deleuze e Guattari a fondamento del capitolo dedicato alla geofilosofia: «Il soggetto e l’oggetto forniscono una cattiva approssimazione del pensiero. Pensare non è un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro. Il pensare si realizza piuttosto nel rapporto fra il territorio e la terra»[15]. Da qui, i due pensatori intraprendono l’itinerario della geofilosofia: decaduto il modello ontologico-epistemologico che intende la ricerca umana come un movimento che si esprime tra i due irriducibili poli soggetto-oggetto, risulterebbe vano approcciarsi al pensiero tentando di stabilirne un inizio ed una fine. Chi, infatti, potrebbe tracciare un perimetro tanto del primo quanto della seconda che sia indefettibilmente univoco? E sulla base di quali immodificabili principi primi ed ultimi, se ogni concettualizzazione dell’uomo è in cammino con l’ambiente dalla quale affiora, pur non rimanendone assolutamente prigioniera?
Al modello dell’origine, così strettamente intrecciato allo schema della necessità, Deleuze e Guattari affiancano ed oppongono il paradigma dell’incontro, che si articola, al contrario, sulla trama della contingenza. Alla tradizione che intende la filosofia come il risultato necessario di una storia dalla precisa origine, contestano la sistemica autoreferenzialità pur condividendone un assunto di fondo: che la filosofia sia nata in Grecia, a patto d’intendere quest’asserzione nei mobili termini della contingenza e di non interpretarla, al contrario, come un fatto derivante da una presunta necessità interna allo sviluppo storico. Aderire a quest’ultima concezione significherebbe, infatti, supporre che la storia sia «una forma di interiorità nella quale il concetto sviluppa o disvela necessariamente il suo destino»[16] e condurrebbe, di conseguenza, all’appiattimento della filosofia sulla sua storia: come se ogni movimento di pensiero non dipendesse, in ultima analisi, che dal suo stesso svolgimento storico, a prescindere da qualsivoglia interferenza geografico-ambientale. Che la storia e, dunque, il pensiero si dispieghino su un piano a sé stante che nulla abbia a che vedere con la terra ed il territorio?
In questa soglia di problematicità, Deleuze e Guattari ripropongono allora l’interrogativo sulla nascita della filosofia aggiungendo un tassello che per quanto, a primo impatto, possa sembrare innocuo, rimodula drasticamente la gittata della questione: «Perché la filosofia nasce in Grecia e in quel determinato momento?»[17]. In primo luogo vi è da osservare che i due filosofi non estromettono la dimensione storico-temporale: si chiedono, infatti, perché la filosofia sia emersa in un determinato momento e non in un altro. A questo piano, però, affiancano la forzante geografico-spaziale: perché lì e non altrove? Ed ecco che per un complesso intreccio di ragioni – «di per sé non insufficiente, ma in sé contingente»[18] – si può concludere che la filosofia abbia fatto la sua comparsa in Grecia e non in un altro luogo, in quella peculiare epoca e non in un’altra: la vicinanza al mare, l’estensione delle coste, la capacità di assumere e rielaborare – mantenendosi a debita distanza – i modelli dei grandi imperi; e, ancora, l’incontro tra figure che abitavano ai margini del mondo ellenico e l’ambiente che stava gradualmente configurandosi in Grecia.
Si potrebbe, dunque, dire: ogni gesto umano non può che dispiegarsi in un ambiente, del quale l’uomo è ontologicamente debitore in una trama di matrice storico-geografica. In altri termini: la geografia, la scrittura della terra, non avviene che sulla e in vista della terra, la quale pur riunendo «tutti gli elementi in un’unica presa, […] si serve dell’uno o dell’altro per deterritorializzare il territorio»[19]. Estendendo il concetto in forma estrema, si può dire che lo stesso essere umano sia un elemento della terra che, operando per mezzo e in vista di questa, attua delle opere di territorializzazione e deterritorializzazione pur sempre nel presupposto storico-geografico che è la terra[20]. Si badi bene che l’espressione «scrittura della terra» è, in questa sede, impiegata in relazione ad ogni gesto conoscitivo umano:
Il mondo si iscrive nella traccia. Quando parliamo di scrittura non parliamo solo di scrittura alfabetica. Evochiamo con la parola scrittura ogni pratica, perché ogni pratica traccia e delinea il mondo. […] Questo gesto della scrittura di mondo è un gesto infinito. […] È un gesto infinito ogni scrittura di mondo, ogni pratica di mondo […] per la sua infinita e assoluta unicità sciolta (absoluta) da ogni focalizzazione finita[21].
E non è forse un caso che, nella stessa opera appena citata, Carlo Sini osserverà ancora: «i pensieri non hanno nome, non hanno inizio, non fine; non si sa da dove vengono e dove vanno»: ogni pensiero «è […] un modo dell’esistente puro e semplice, la cui circostanza è il corpo (perciò lo sento mio), corpo che è a sua volta un modo della natura»[22].
Ecco che, allora, l’intento di Deleuze e Guattari risiede nel tentativo di mostrare che, se il pensiero si sviluppa nel rapporto tra il territorio e la terra,
La geografia non si limita a fornire una materia e dei luoghi variabili alla forma storica; non è soltanto fisica e umana, ma anche mentale, come il paesaggio. Essa strappa la storia al culto della necessità per far valere l’irriducibilità della contingenza. La strappa al culto delle origini per affermare la potenza di un “ambiente”[23].
Si tratta, dunque, di riconoscere che la potenza dell’ambiente entro il quale l’uomo elabora la propria gettatezza abbia radici ed orizzonti geografico-spaziali oltre che storico-temporali. Una lezione, quella dei due pensatori, che si riversa tanto sulla filosofia – d’altronde l’interrogativo che restituisce il titolo all’opera è, appunto, Che cos’è la filosofia? – quanto sulla geografia: «È […] da qui che bisogna partire: dalla constatazione che ogni paesaggio, anche il più limitato […], pone la questione dell’essere»[24].
- Sul nesso mare-filosofia
In Geo-filosofia dell’Europa Cacciari afferma che nella tragedia attica inizia quel mutamento che rende l’uomo nomade all’interno della pólis e rispetto a essa, in quanto proprio la tragedia attica e nella tragedia attica inizia quello che il filosofo definisce lo sradicamento del Nomos che, opponendo il nomos physeos al nomos poleos, trasformerà l’uomo greco da abitante della pólis a nomade nello spazio universale dell’ecumene. Alfieri di questo mutamento furono le filosofie cosiddette ellenistiche, costituenti un
pensiero anti-tragico per eccellenza: la tragedia, infatti, aveva rappresentato dinanzi a tutta la polis, e nel pieno della sua stagione, l’enigma dei nómoi in guerra gli uni con gli altri — guerra tra nómoi e timaí divini, e non soltanto tra le diverse leggi delle umane città. L’ethos stesso dell’uomo era apparso come il luogo di questo conflitto — e ne era uscito lacerato, pieno di dubbi angosciosi sulla propria radice e di terrore per le punizioni che Nemesis avrebbe potuto infliggergli. Già nella tragedia l’uomo inizia a farsi nomade nella e dalla sua polis. Nomás era il pastore che veramente abitava il nomós, il pascolo[25]. Abitare la legge — questo proteggerebbe da ogni rischio di hýbris, questa sarebbe pace divina. Ma già la tragedia fa-segno a questa idea come a un impossibile. Il ‘nomade’ cosmopolita dell’ellenismo la dimenticherà[26].
L’Entortung del Nomos segna, dunque, il passaggio dalla pólis all’ecumene, ovvero a quella che, seguendo sempre il discorso di Cacciari, preannuncia «la ‘globale Zeit’ moderna-contemporanea, di cui Schmitt parla, appare, allora, il compimento dell’intero spirito europeo-mediterraneo post-classico, piuttosto che il prodotto dei conflitti tra i moderni Stati secolarizzati»[27]. L’uomo si ritrova in una connessione ed estensione geografica molto più ampia rispetto a quelle che definivano i confini ristretti della pólis – va da sé che ciò non può non comportare forti risvolti teoretici –, e tale estensione è un tratto caratteristico che a partire dal mutamento avvenuto nel periodo di cui parliamo riguarda anche l’umano di oggi nel tempo della globalizzazione, degli “interminati spazi” in cui vive. Prima di procedere, soffermiamoci sul concetto di ecumene e sul suo etimo. Οἰκουμένη deriva dal verbo οἰκέω, che, posta l’ampiezza del suo spettro semantico, vuol dire abitare, dimorare, trovarsi, esser situato, ma non solo. Come transitivo dice anche amministrare, governare. Difatti, discende dalla medesima radice – οἰκ – di οἰκειόω, appropriarsi, impadronirsi, e, ancora, da quella di οἰκονομέω, regolare, ordinare.
Tornando alla Entortung del nomos che segna il passaggio dalla pólis all’ecumene, «non si può parlare di geofilosofia (e di geofilosofia dell’Europa) senza ripartire da Nietzsche che ha ri-assunto lo spirito di questa terra e ha innescato quella che potremmo chiamare la sua deterritorializzazione»[28]. Dunque, in merito alla domanda quale terra abitiamo? vogliamo seguire la strada tracciata da Cacciari, ovvero la rilettura del rapporto terra-mare prendendo in considerazione alcuni passi tratti da Geo-filosofia dell’Europa (1994) e da l’Arcipelago (1997). Chiaro è quindi che la terra cui si fa riferimento qui è l’Europa, ma, allo stesso tempo, alcuni punti dell’argomento di Cacciari travalicano i confini geografici dell’Europa per toccare l’esistenza di chi anche in altri punti della Terra esperisce questa profonda – quanto perturbante – osmosi determinante per il pensiero. E quindi la stessa ecumene deve essere sempre considerata e pensata in forza del suo costitutivo legame con il mare[29].
Tale legame fu già individuato a partire da Erodoto e Tucidide. Ai loro occhi, infatti, «la nuova-vera terra della filosofia appare, al più, come un’isola, abbracciata da Oceano. Ma l’isola vive, e cioè s’arricchisce e si rafforza, soltanto se domina l’elemento che la circonda»[30], elemento che determina quel modo del pensiero che è la filosofia, al punto che non di rado, movendo da Platone, nel pensiero antico è possibile imbattersi nella metafora della navigazione[31]. Questo vuol dire che abitare il luogo, quel luogo dove terra e mare vivono di questa e in questa opposizione, ha fatto sì che la riflessione filosofica assumesse (esplicitamente o implicitamente) il dato geografico come uno degli elementi fondamentali per l’elaborazione del pensiero. E dunque, tornando alla domanda che anima il presente paragrafo, sembra chiaro adesso che ci muoviamo nel solco geofilosofico dell’Europa, e per comprenderlo appieno bisogna coglierlo nel pólemos tra terra e mare che ne sancisce la sua frastagliata identità. Identità plurale, molteplice, sincretistica, incontro e scontro continuo delle forme della vita. Ma la risposta risulta ancora debole – e forse sempre lo risulterà, posto lo sconfinato universo semantico, storico, geografico che l’Europa è –, se si pensa che la stessa Europa ha due anime, una atlantica e l’altra mediterranea[32]. Non soffermandoci su questo aspetto, per il quale rimandiamo ad alcune letture fondamentali, vogliamo porre un’altra domanda: in che modo noi – abitatori dell’Europa di oggi – possiamo comprendere la nostra οἰκουμένη a partire dal pólemos terra-mare? In che modo questo ancestrale legame che ha determinato la travagliata storia del continente-arcipelago ha sempre qualcosa di nuovo da dirci? Ancora: perché tale legame è essenziale per il pensiero?
L’ecumene, dunque, in riferimento all’Europa, va sempre considerata a partire dal suo inscindibile e osmotico nesso con il mare iscritto nella sua stessa geografia[33]. In che modo questo nesso ci determina filosoficamente? Abbiamo fatto riferimento, movendo anche dall’etimo del termine in questione, al concetto di abitare, che nel nostro caso include anche il mare come elemento che mette in crisi lo stesso abitare poiché invita l’abitante all’oltre, a salpare verso altre terre, ecco perché «per la filosofia d’Europa non si dà vera terra che oltre il mare. E nel ‘superare’ il mare consiste la parte fondamentale della téchne polemiké»[34]. Rimanendo entro i confini della geofilosofia d’Europa, possiamo affermare che abitare vuol dire ciò: tendere continuamente oltre il mare. L’abitare si caratterizza, dunque, come tentativo di spingersi sempre al di là dell’orizzonte conosciuto, e in questa tensione-verso si realizzano i vari significati che il concetto di ecumene ha nel suo etimo: è la vita che si protende oltre se stessa. Nello spingersi oltre si realizzano politicamente l’amministrare, il regolare, l’ordinare dell’ecumene.
Abitare l’ecumene vuol dire essere animati da questo desiderio, dal desiderio di estendersi oltre i confini poiché il mare indica quel meraviglioso che ogni isola, ogni parte dell’ecumene, ha vicino, che le è prossima. Nel seguente passo Cacciari sviluppa proprio tale dinamica, che è tutta filosofica:
Nessun mare può ‘contenere’, infatti, quel “procedere della vita oltre se medesima”; sempre nuove distese quel desiderio esige dinanzi a sé. Il mare interno, il mare di mezzo, fin nel suo stesso nome denuncia il proprio limite fisso, il proprio confine terraneo. L’impresa di Carlo V raffigurava le colonne d’Ercole, avvolte da un cartiglio: “Plus Oultre”: nessuna “dolcezza”, nessuna “pietà”, nessun “debito amore” possono vincere l’“ardore … a divenir del mondo esperto”. Il mare attinge in pieno il proprio principio soltanto allorché appare perfettamente ‘aperto’ di fronte all’ardore experiri. E questo ardore, per riuscire, deve essere più forte di ogni sete di guadagno, anzi: tale da metterla addirittura in pericolo[35].
La vita sul mare, quindi, è un tendere all’Altro, al già dato, al già vissuto, al già esperito, al già abitato. E l’abitare, dunque, acquisisce un doppio statuto: da una parte esso è inteso come dimorare – l’uomo stabilmente dimora nella propria οἶκος –, dall’altra acquisisce una connotazione di nomadismo che dipende proprio dal suo essere un abitare sul mare.
Suddetta forma dell’abitare impone la domanda sul Mare d’Europa: cosa rivela esso dell’uomo che lo esperisce? «Polyphloisbos, multirisonante, il Mare d’Europa; tutte le sue lingue congiurano nel nominarlo nella molteplicità dei suoi volti, senza mai esaurirne il significato»[36], esso, inoltre, ha una caratteristica precisa, fondamento della sua incommensurabile importanza: è ricco di isole[37]. Qui il carattere più profondo dell’Europa, il suo essere arcipelago e dunque luogo che vuole la connessione, il rimando costante all’alterità, il porsi costantemente di fronte al δεινός, terrore e meraviglia insieme, tanto caro alla tragedia attica. E questo perché «l’armonia europea è dia-logos e pólemos: dialettica tragica. Arcipelaghi i suoi mari, arcipelaghi le sue città, e arcipelaghi i suoi tópoi, quei luoghi, quelle torme, quelle domande, cioè, che vi rimbalzano da epoca a epoca, da nazione a nazione, che ne intrecciano spazi e momenti»[38]. L’uomo che sa vivere tramontando è colui che fa incarna il cum dell’arcipelago, che si pone costantemente di fonte all’altro da sé; altro il cui apparire scatena quello che Pareyson seguendo Schelling chiama “stupore della ragione”, poiché l’altro che si presenta è un quid non preceduto da alcun concetto, da conoscenza certa che si possa afferrare. Nell’arcipelago di Europa è il Theos xénos a rispecchiare questa idea, che va colta in termini di φιλία con l’uomo: «solo tramontando da ogni fissa identità, da ogni individualità egoistica, è pensabile una tale amicizia stellare»[39]. In ciò risiede la quintessenza dello Übermensch nietzscheano, ovvero nel suo porsi come totalmente altro rispetto a ogni determinata affermazione di forza o potenza[40]. Amicizia che nell’Arcipelago-Europa è possibile realizzare in termini di una comunità in cui lo straniero (ξένος) è accolto come dono, in cui la sacra legge di Zeus protettore dei supplici è rispettata e posta come ordinamento intangibile. Si tratta di una relazione che, come ricorda bene Cacciari, è e rimane comunque pólemos, con tutto ciò che ne consegue: nell’incontro di cui si parla, l’altro mai è sottoposto allo sterile, quanto ingenuo, tentativo di cancellazione, dissolvimento o ‘stemperamento’ di aspetti riguardanti la di lui identità pur di convenire ‘felicemente’ al dialogo, semmai, se la strada di un autentico dialogo si vuole perseguire, i dialoganti dovranno mostrarsi fermi in ciò che sono e, parimenti, capaci di andare oltre, come si è detto, ogni fissa identità (concetto problematico, certo).
E qui la riflessione geopolitica sull’Europa, alla luce dell’ecumene e considerata anche l’opposizione terra-mare che fa della stessa un arcipelago, ci ha condotti alla φιλία come suo carattere distintivo che plasma la vita delle comunità che dimorano presso le diverse isole che l’arcipelago compongono. Dunque, in conclusione, si è assai distanti dalla definizione di amico data da Aristotele[41] poiché è più corrispondente alla concretezza delle nostre vite, della vita nell’arcipelago, affermare che «non è amicizia l’esser amico del simile, di ciò che si conosce, di ciò che in qualche modo ci appartiene. È amicizia credere che “esiste veramente una straordinaria, invisibile curva e orbita stellare, nella quale le nostre così diverse vie e mete potrebbero essere ricomprese, quasi fossero esigui tratti di strada”»[42]. Qui ritorna il Nietzsche della Gaia scienza, e torniamo noi al passo nietzscheano citato in esergo. Questo è il modo nomade di abitare l’ecumene-arcipelago che chiamiamo Europa, l’esser posti sempre di fronte a nuove terre, nuove perché anche se conosciute sono sempre inesauste, inesplorate e agognate, come per il ναύτης lo è la terraferma.
[1] Su ciò Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, A. De Lorenzi, Einaudi, Torino 1996, pp. 89-96.
[2] Sulla discussione delle nozioni di origine ed ambiente, che Nietzsche intraprende in relazione alla nascita della filosofia in Grecia, Cfr. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci. E scritti 1870-1873, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1991, p. 141-151; per quanto concerne, invece, la trattazione del concetto di atmosfera vitale che, pur incardinandosi nella storia, eccede la categorizzazione storiografica, si rimanda a F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano 1973, pp. 3-16.
[3] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 104.
[4] E. Holenstein, Atlante di filosofia. Luoghi e percorsi del pensiero, a cura di M. Guerra, Einaudi, Torino 2004, p. 11.
[5] F. Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio editore, Palermo 2007, p. 48.
[6] Per una ricca e vivace ricostruzione del Kant (anche) geografo si rimanda a M. Tanca, Geografia e filosofia. Materiali di lavoro, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 15-48.
[7] A. Berque, Essere umani sulla terra. Principi di etica dell’Ecumene, a cura di M. Maggioli, M. Tanca, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 171.
[8] La geografia democratica, in particolare, si sviluppò tra 1976 e 1980 in seno ad un raggruppamento informale perlopiù italiano. Su ciò Cfr. G. Dematteis, Zeus, le ossa del bue e la verità degli aranci in G. Dematteis, Geografia come immaginazione. Tra piacere della scoperta e ricerca di futuri possibili, Donzelli editore, Roma 2021, pp. 129-162.
[9] C. Sini, Semiotica e filosofia. Segno e linguaggio in Peirce, Nietzsche, Heidegger e Foucault, il Mulino, Bologna 1978, p. 5.
[10] S. Gorgone, Terra e paesaggio nella geofilosofia italiana, in «Logoi.ph – Journal of Philosophy», N. X, 24, 204, p. 75.
[11] Questo termine-concetto è attribuibile al già citato geografo Eric Dardel che lo impiega in relazione all’essere umano. Su ciò Cfr. E. Dardel, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, a cura di C. Copeta, Unicopli, Milano 1986.
[12] K. Marx, F. Engels, Dalla ideologia tedesca in S. Moravia (a cura di), Marx. Scritti filosofici giovanili, Fabbri editori, Milano 1998, p. 215.
[13] Ivi, p. 242.
[14] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p. 164: «Non appena io ho un oggetto, quest’oggetto ha me per oggetto».
[15] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 77.
[16] Ivi, p. 88.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 86.
[19] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 77
[20] Sulla relazione tra terra e territorio, in termini complessivi, si rimanda a G. Dematteis, Le metafore della terra. La geografia umana tra mito e scienza, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 73-88; A. Turco, Configurazioni della territorialità, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 47-72.
[21] C. Sini, Archivio Spinoza. La verità e la vita, in Spinoza o l’archivio del sapere, vol. IV, tomo I delle Opere, a cura di F. Cambria, Jaca Book, Milano 2012, pp. 181-182.
[22] Ivi, pp. 138-139.
[23] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 88.
[24] A. Berque, Ecumene. Introduzione allo studio degli ambienti umani, a cura di C. Arbore, S. Gamba, M. Maggioli, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 51.
[25] Questo aspetto è accostabile a un’acuta riflessione filosofico-politica sull’Arcadia come paradigma politico in R. Fai, Pastorale arcadica. Per un regno giusto, Mimesis, Milano-Udine 2020, il quale, a sua volta, prende le mosse da M. Ferrando, Il Regno errante. L’arcadia come paradigma politico, Neri Pozza Editore, Venezia 2018.
[26] M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 112-113.
[27] Ivi, p. 118.
[28] A. Caputo, Geofilosofie. A partire da Nietzsche, in «Logoi.ph – Journal of Philosophy», N. X, 24, 204, p. 14.
[29] Sul rapporto terra-mare in termini di conflitto a partire da Schmitt mi permetto di rimandare a S. Piazzese, Ci sono dèi e governano, grande è la loro misura. Al tramonto di un Nomos, in «IlPequod», Anno 3, N. 6, dicembre 2022, pp. 69-79.
[30] M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, cit., p. 56.
[31] Cfr. G. Cambiano, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2016.
[32] Cfr. C. Resta, Atlantici o mediterranei?, “Mesogea”, 0, 2002, pp. 53-63; R. Fulco, Geofilosofia mediterranea. Pensiero e politica del ‘mare di mezzo’, in «Logoi.ph – Journal of Philosophy», N. X, 24, 204, pp. 63-74; M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, p. 13: «Thálassa è per i Greci quello più usuale perché quello materno: nel suo grembo sono cresciuti, lungo i suoi cammini hanno viaggiato per conoscere, combattere, commerciare. Thálassa: mare nostrum, Mediterraneo. Non è nome generico del mare; è nome di persona».
[33] M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, cit., p. 63
[34] Ivi, p. 61.
[35] Ivi, p. 64.
[36] Id., L’Arcipelago, cit., p. 15.
[37] Ibidem.
[38] Ivi, p. 21.
[39] Ivi, p. 150.
[40] Ivi, p. 144-145.
[41] Cfr. Arist, EN, 1166a 32.
[42] M. Cacciari, L’Arcipelago, cit., p. 149.