Sul far del crepuscolo

Recensione a:

De Simone

Sul far del crepuscolo. Il destino della filosofia dalla tragedia alla dialettica

Mimesis, Milano-Udine 2021

Pp. 192

€ 18,00

di Stefano Piazzese

Una domanda fondamentale quella che l’autore pone – «perché esiste la tragedia?» (p. 37) nella sua indagine –, la cui risposta, formulata movendo da Carson, individua nel dolore il nucleo del λόγος tragico. Questo sembra essere il trait d’union che attraversa le 19 lezioni nelle quali De Simone affronta «il destino della filosofia dalla tragedia alla dialettica».

La tragedia greca è grammatica delle forme di vita. Dai preziosi contributi di Blumenberg (Theorie der Unbegrifflichkeit) sappiamo che il concetto può essere inteso anche come ciò che indica una direzione rispetto a quanto si presenta nel nostro orizzonte, sicché, considerando il presente, in merito alla tragedia e al tragico l’autore pone, nelle prime pagine del suo denso quanto teoreticamente vivace percorso speculativo, la seguente domanda: «c’è ancora necessità di interrogarsi sulle filosofie del tragico e del destino? Il nostro presente sopporta la sua tragedia e la forza del suo destino?» (p. 11).

Riflettere a partire da questo interrogativo comporta sin da subito la difficoltà di una definizione del concetto di tragico. In primo luogo, bisogna considerare la differenza tra tragedia e tragico, poiché se di differenza si tratta non è possibile pensarla se non a partire da quella continuità che Kierkegaard ha evidenziato con la celebre formula “riflesso del tragico antico nel moderno”. Tale riflesso non è una semplice, pallida, lontana e asintotica vicinanza di temi o, peggio, mera somiglianza in termini estetico-teatrali: vi è un nesso profondo e inscindibile tra la tragedia e il tragico che risiede nel tentativo di elaborare un pensiero che sta nella contraddizione (Schelling). E rimanendo entro i sentieri teorici tracciati da De Simone, il problema posto è assunto in tutta la sua portata spaesante per il pensiero, in tutto il tremendum che si dispiega quando si pone un simile problema. E dunque:

Sottraendolo all’attualità, il pensiero filosofico è capace di porre capo a un concetto generale del tragico, fermo restando che esso solleva comunque il problema della sua essenza e della sua relazione con l’evento, con l’umano accadere nella e della storia? […] dobbiamo criticamente chiederci se il lógos filosofico può accettare la “sfida del tragico” e se la filosofia è in grado di approntare un’ermeneutica materiale del tragico, ovvero di una dialettica del tragico e del tragico come dialettica (p. 12).

Se è vero che, come afferma lo stesso autore, la riflessione sul tragico gode oggi di un «rinnovato ascolto» (p. 16), bisogna altresì riconoscere che si tratta di un ascolto che a fatica viene portato sino alle sue estreme conseguenze, ovvero sviluppato in riferimento a determinati aspetti cogenti del presente, ma tale esito, forse, come ricorda Givone nella sua introduzione a Disincanto del mondo e pensiero tragico (autore non di rado evocato lungo i sentieri dell’itinerario argomentativo del libro in questione), è il destino di tutti coloro i quali pensano il tragico. Rimanendo sempre sul versante Givone-Szondi, sappiamo che quando parliamo di tragico ci muoviamo, in prima istanza, in ambito ontologico, sicché tale ‘passaggio’ costituisce un presupposto imprescindibile, e ciò perché il filosofo che s’interroga sul tragico vuole indagare il senso dell’essere, ‘vederne’ il fondamento. Stando a ciò la tragedia attica e ciò che è sorto in epoca moderna in relazione a essa, il tragico, non sono altro che il tentativo di comprendere il mondo, i suoi aspetti più insidiosi e problematici a partire dalla consapevolezza della lacerazione dell’essere.

La filosofia della tragedia si caratterizza quale studio di forme diverse di esperienza (p. 17) mostrando un “diverso orizzonte di possibilità” (p. 29), e ciò è dovuto al fatto che «la tragedia è consapevolmente anacronistica: disintegra l’ordine della temporalità storica, pur traendo alimento da un sostrato riconducibile a quella che viene percepita come realtà storica» (p. 31). Ancora, la tragedia problematizza la pràxis, la mette in discussione teoreticamente.

Per rispondere alla domanda iniziale non si può non tener conto del grande contributo di Simmel (in particolare Das Problem des Schicksals, 1913-14) all’argomento, il quale ha sviluppato il rapporto vitaforma per definire il senso del tragico ponendo particolare attenzione al concetto di destino, alla sua rilevanza filosofica che produce un sentimento di spaesamento «per cui ciò che di assolutamente necessario si trova nella nostra vita è in qualche modo casuale. Il rovescio di ciò e il superamento si trova solo nel regno dell’arte, e in particolare nella tragedia”» (p. 125): la tragedia è sempre tragedia di destino. E proprio a partire da Simmel è possibile inoltrarsi anche nella riflessione fondamentale di Lukács sulla tragedia, in quanto è proprio a partire dal primo che il filosofo ungherese muove. Difatti, senza questo nesso non si comprende come per Lukács la tragedia sia «“la forma essenziale dell’umana esperienza, che emerge in tutti i momenti di transizione storica”» (p. 147).

In riferimento a un determinato periodo le riflessioni dei due filosofi sono accostabili, poiché

Lukács, come Simmel, sottolinea marcatamente l’alienazione e la spersonalizzazione dei rapporti umani, la loro cosalizzazione, quale effetto dell’attività economica moderna e del suo ordinamento borghese, osservando che “la complessiva organizzazione statale […], ogni espressione della vita economica […] denunciano un’identica tendenza: la spersonalizzazione, uno sviluppo cioè tendente a ridurre la categoria qualitativa a quella quantitativa” (p. 154).

 

Ne Il dramma moderno Lukács contrappone, in termini storico-sociologico-filosofici, Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società), e il dramma moderno, risentendo di tale scissione, è “dramma della solitudine” (p. 163): in esso l’uomo è isolato e vive una solitudine che certamente non è una scelta, ma una costrizione dettata dalla contingenza. Qui risiede il fallimento del dramma moderno e la sua incapacità di farsi tragedia, fallimento che rispecchia «l’indice della profonda incapacità della borghesia di assumere su di sé in maniera piena, il compito di un’egemonia sociale e culturale nell’età moderna» (p. 165).

Nella tragedia si squaderna il sentimento del mondo (Weltgefühl) (p. 168), e per questa ragione agli inizi del Novecento essa acquisisce una connotazione metafisica ed esistenziale. L’autore afferma che tale interesse, che da Nietzsche arriva a Simmel, risiede proprio nel tentativo messo in atto da diversi pensatori di mettere in luce la tragicità stessa del filosofare. E precisamente nell’alveo di questo tentativo dobbiamo collocare la riflessione del giovane Lukács in cui è espresso «l’acuto e profondo senso della specificità del problema ontologico-esistenziale ed estetico-borghese moderno» (p. 178), in forza del quale la tragedia è topografia trascendentale dello spirito: ciò che intercorre nel mutamento tra i tempi e le forme (ibidem).

Visto che del Lukács de L’anima e le forme (Die Seele und die Formen, 1910) si parla, bisogna domandarsi cosa sia la Seele in questa fase del suo pensiero. Essa ha un senso metafisico ed è intesa come sostanza del mondo concepita come individualità autentica, ovvero il nucleo che fa sì che ogni personalità sia in linea di principio irripetibile e insostituibile, dunque autonoma (pp. 178-179).

Vi è una forte connessione tra Seele e Bestimmung, il poter essere dell’uomo, e Lukács «al problema della crisi della Kultur quale effetto della tragedia metafisica dell’esistenza umana e prodotto della struttura economica e di classe della moderna società borghese, risponderà eticamente e politicamente con la scelta del marxismo» (p. 181).

Pertanto, nel nesso Kultur-merce De Simone individua un punto imprescindibile del discorso di Lukács affermando quanto segue:

Nel capitalismo, l’attività strumentale di dominio della natura ha dunque assorbito tutte le risorse dell’individuo, l’economia ha invaso ogni aspetto della società, diventando da mezzo fine e trasformando il mondo in un ‘enorme mercato’ e la vita sociale in un ‘grande rapporto di scambio’. Tutto è diventato merce e, di conseguenza, la Kultur è stata negata. L’anarchia della produzione capitalistica ha provocato il predominio della moda sulla forma e sulla qualità delle creazioni culturali, fino a eclissarle con la sua estrema mutevolezza e la sua indifferenza nei confronti della ‘bellezza e finalità’ (p. 183).

La forma-merce scandisce il ritmo di tutte le attività nella società influendo su esse e determinando tutte le manifestazioni della vita che in essa si dispiegano, e qui, da questo fattore decisivo da cui sorge il capitalismo moderno, «si può scoprire nella struttura del rapporto di merce il modello di tutte le forme a esse corrispondenti della soggettività nella società borghese» (p. 188).

Tonando a Simmel, De Simone s’interroga sull’importanza di Michelangelo, considerato uno dei più eloquenti riferimenti della sua teoresi. Quello principale è all’opera Michelangelo. Ein Kapitel der Metaphysik der Kultur (1910/11), in cui è formulato e sviluppato un problema filosofico cruciale, ovvero quello che riguarda il dissidio tra la vita e la forma inteso come lacerazione tragica e insanabile che caratterizza l’esperienza che la soggettività individuale fa del mondo; dissidio che la filosofia, le Weltanschauungen e le varie forme d’arte hanno rappresentato grazie al potere della mediazione concettuale, espressiva e simbolica.

Stando a questa premessa simmeliana, le opere di Michelangelo risultano animate dal titanico tentativo di «riportare a unità classicismo e cristianesimo, realtà del mondo e spiritualità dell’anima, come se l’una e l’altra partecipassero di un’unica realtà”. […] I corpi nelle opere di Michelangelo “restano tali, ben saldi sulla terra”», ma non per questo risultano privi della loro spiritualità (p. 132).

In Michelangelo il primato appartiene sempre al mondo e mai alla singolarità. Qui tutta la distanza dell’artista moderno dalla classicità greca, che si manifesta in modo evidente se si pensa che la sua arte si regge sul dualismo anima-corpo e sulla spiritualità cristiana. L’arte michelangiolesca racconta il titanico concepito come assenza della perfezione della nostra essenza interiore, fattore decisivo e caratterizzante la frammentarietà della nostra esistenza (p. 134). Ed è proprio Simmel, infatti, ad affermare che il titanismo di Michelangelo è “tragedia della forma”, e non affermazione prometeica di malinconia:

Per Simmel, Michelangelo è in assoluto “una personalità tragica”, che nella grandiosità delle sue espressioni “fa ormai presentire il barocco, poiché trattiene nella loro lotta due elementi, la pesantezza del mondo terrestre e lo slancio spirituale, che nel barocco saranno resi indipendenti e si alterneranno nella rappresentazione artistica”. E tuttavia, il barocco “non sopprime il tragico, ma ne modifica la forma”. […] L’opera e la vita di Michelangelo sono la suprema testimonianza del tragico, nel loro intreccio, infatti, esprimono la stessa profonda aspirazione: “trovare la perfezione e la redenzione della vita nella vita stessa, configurare l’assoluto nella forma del finito (pp. 134, 140).

Ecco che l’arte di Michelangelo si caratterizza quale terzo regno che elimina l’aut-aut tra immanenza e trascendente mettendo in atto il tentativo di conquistare i valori e le finalità dell’assoluto senza abbandonare il mondo, ovvero un tentativo di «salvarsi dal mondo restando nel mondo, cioè cogliere l’assoluto nel contingente e nel relativo» (p. 143). La tragicità dell’arte in questione è presa da Simmel come punto di riferimento per spiegare la tragicità della modernità, dalla quale sorgono le aporie del pensiero e i conseguenti tentativi di superamento delle stesse.

In conclusione, vorrei dire qualcosa sulla filosofia del tragico a partire da alcune suggestioni incontrate nella lettura del testo in questione e integrarla alla presente recensione. Szondi, altro autore presente nelle lezioni di De Simone, fa riferimento a Schelling in merito a ciò che possiamo considerare il cuore teoretico del tragico: il fondamento della contraddizione.

Il punto di partenza è la domanda schellinghiana sul modo in cui la ragione greca potesse sopportare le contraddizioni dello spirito tragico. Ma per comprendere appieno questa prospettiva bisogna porre una domanda fondamentale: come si sviluppa la contraddizione che sta a fondamento del tragico? E come arriva tale contraddizione alla fine della vicenda narrata dalla parola poetica? Secondo Szondi la tragedia greca onorava la libertà umana in quanto il protagonista (definito eroe) è chiamato a combattere contro una forza superiore: il destino. Dunque, la tragedia lascia soccombere il suo protagonista.

La punizione diventa uno dei poli della contraddizione, il cui scopo è quello di permettere la libera affermazione della volontà dell’uomo tragico ma sempre entro i confini di ciò che lo determina. Pertanto, possiamo parlare di affermazione del libero volere nella perdita della propria libertà. Questo, forse, è l’aspetto che più rende conto del complesso pensiero di Schelling sul tragico e che certamente apre la strada alla “riflessione ufficiale” della filosofia sul tragico. Il libro di De Simone si caratterizza anche come tentativo di affrontare alcuni degli aspetti più problematici e insidiosi di tale riflessione.

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