«Dentro il fasto verminoso dell’eternità». Oltre il muretto della “Cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda

di Sarah Dierna

 

 

  1. La baroccaggine dello stile e del mondo

 

La lettura dei libri di Carlo Emilio Gadda può non essere semplice e di immediata comprensione ma riesce a regalare in compenso un ironico sguardo sul mondo, il disincanto sulle sue faccende e la quieta serenità di colui che ha sublimato l’ostilità nella conoscenza e alleviato il dolore con la distanza.

Clelia Martignoni[1] lo descrive, a ragione, come uno degli scrittori più potenti del Novecento. Tra i suoi libri, La cognizione del dolore rimane un unicum nella storia della letteratura per il contenuto, per la forma, per la tormentata lucidità che contraddistingue la vita del protagonista, Gonzalo Pirobutirro, il quale abita insieme alla madre in quella villa della Brianza separata dal resto del mondo da un insolito, alquanto basso, muretto bianco. Il romanzo ha una trama di per sé molto asciutta ed esigua. Ciò che incanta e che conquista non sono i fatti ma la comprensione che di questi fatti ne fa Gadda. Una analisi folgorante per esattezza, distanza e verità.

Come Gadda suggerisce di se stesso nell’Appendice che chiama in causa l’autore, non bisogna «leggere negli strati o nei nòccioli grotteschi dell’impasto Cognizione una deliberata elettività ghiandolare-umorale di chi scrive […] [ma] una lettura consapevole (da parte sua) della scemenza del mondo o della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari»[2]. Gadda parla del mondo così come lo osserverebbe qualsiasi umano in grado di guardare oltre quel muretto basso che circoscrive la nostra vita come l’abitazione di Gonzalo. Oltrepassato il confine angusto e tragico dell’io la realtà si rivela una commedia di cattivo gusto, ma anche buono. A non apprezzarla sarà forse la lugubre magistratura, l’affossatore principale e i ricchi signori del Lukones proprietari della Giuseppa o dell’Enrichetta, insomma gli «instupiditi di prima fila» (24). Ad apprezzarne i contenuti sarà invece lo spirito libero capace di cogliere insieme a Gadda la baroccaggine del mondo e l’insignificanza della storia umana che scorre seguendo la ronda del conta-ore (63) per terminare infine sotto una manciata di terra.

 

  1. L’Io

 

Dal moto dell’essere l’umano appare come una «favilla dolorosa del tempo» (130). Nella scrivania di Gonzalo troviamo il Timeo di Platone del quale il protagonista sogna di scrivere una postilla senza scopo di guadagno alcuno ma come esigenza che scaturisce dal pensare filosofico. Nel dialogo platonico il tempo (chronos) è descritto come l’immagine mobile dell’eternità. Tale è il destino dell’umano. Una flebile fiamma che emanerà una luce fioca finché la candela della vita non si riconsegna alla tenebra liberatrice del nulla.

In questo anfratto di materia individuata nasce l’Io, «il più lurido di tutti i pronomi» (85), il «pidocchi[o] del pensiero» (86), il muretto basso che confina l’umano nei limiti angusti della propria esistenza là da dove è impossibile cogliere la verità del proprio essere, là dove «è più la pena che la vita» (60) la quale si regge – con una immagine bizzarra ed efficace, ironica e appropriata – come un cappero sopra un’acciuga e da lì riveste di significato e di senso il mondo e il proprio scorrere in esso. A vivere abbarbicati in questa monade e incapaci di sollevare lo sguardo oltre il limite del proprio sé sono i numerosi ospiti che passano dalla casa di Gonzalo per riempire la testa della povera madre di chiacchiere vuote e inutili che non arrivano a niente «dacché ignoriamo…. Il soggetto di ogni proposizione possibile» (86). La disistima degli umani e la sfiducia nella vita del protagonista che il dottore considera più patita che effettivamente voluta è piuttosto l’esito di una cognizione dei fatti umani e della catena senza scopo del divenire della storia. In questo bagliore di lucidità «più conosciamo noi stessi, più adempiamo alle esigenze di un’igiene volta a ottenere la trasparenza organica grazie a tanta purezza, vediamo attraverso di noi. Si arriva così ad assistere allo spettacolo di se stessi»[3]. E infatti dalla descrizione che Gadda fa della fisiologia delle azioni umane sembra davvero di assistere a uno spettacolo grottesco di se stessi, goffo e persino ridicolo, in verità soltanto svuotato del significato che riveste di senso l’insieme dei fatti umani conferendo loro uno scopo. L’Io si schiude al reale invaso da una profonda speranza che lo tiene però confinato nell’errore il quale soltanto «ha reso l’uomo così profondo, delicato e inventivo […]. Il puro conoscere non sarebbe stato in grado di farlo. Chi ci svelasse l’essenza del mondo, causerebbe in noi tutti la più spiacevole delusione. Non il mondo come cosa in sé, bensì il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di significato, così profondo e meraviglioso, e reca in seno tanta felicità e infelicità»[4].

Di questa rappresentazione della soggettività il limite metaforico e concreto è proprio quel muretto che delimita l’abitazione dei Pirobutirro. Un rialzo basso, facilmente scavalcabile eppure edificato per impedire l’ingresso dei ladri. Quel confine angusto, di cui si colgono i limiti e che tuttavia costa molta fatica e rinuncia abbandonare, perché lì dentro ci si considera una cosa da prendere sul serio.

Nella narrativa di Gadda il soggetto, benché causa di tanti mali, è anche il Sé che ciascuno si porta d’appresso per il solo fatto di esserci, del quale ci si libera soltanto alla fine del tempo dell’essere-alla-vita. Solo allora si fa avanti «la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io» (217). Finalmente «il cappero resta inerte/ E l’uomo se ne va/ Alla sua casa fuori del tempo»[5]. Non è soltanto l’immagine qohéletica a essere rievocata dallo scrittore della Brianza ma l’intera sapienza del libro biblico che Gonzalo e la madre incarnano con la loro esperienza del mondo e di cui acquisiscono essi stessi cognizione muovendosi in esso, scoprendolo, abitandolo con disincanto e distanza, imparando a osservare proprio al di là di quel muretto (la cui altezza in fin dei conti, nonostante le sue pretese, del tutto inutile). Ciò che Guido Ceronetti scrive a proposito dell’Ecclesiaste vale qui anche per il narratore e la sua storia: Gonzalo non cerca di cambiare il mondo, si sforza soltanto di osservarlo, di conoscerlo per come accade e per come si manifesta a una mente consapevole; nel farlo si accorge semplicemente che un simile posto non vale la pena[6].

 

  1. Vanitas vanitatum

 

Volgendo lo sguardo appena un poco oltre il muretto di cinta Gonzalo osserva infatti «la montagna, e l’azzurro oltremonte […], di là, i cieli e gli eremi, [il] nulla» (79). Il gioco vano dell’essere che niente di nuovo mostra sotto il sole se non la catena senza fine di prole e di dolore. Il peso degli anni, e il loro declino, riavvolgono il nastro della vita che la madre osserva adesso senza il filtro lenitivo della speranza. Una domanda soltanto vale la pena porsi: dinanzi alla «folla imbarbarita degli evi persi, la tenebra delle cose e delle anime […] un torbido enigma», la madre «si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita bimba) – perché, perché» (129). L’anziana donna aveva subìto lo strazio di perdere il figlio in guerra, un dolore senza requie per una morte che apparentemente sovverte la legge del tempo della vita, la quale concede di solito ai genitori di anticipare la scomparsa dei figli e di non assistere quindi alla loro, ma in verità conferma quella del tempo dell’essere, «lieve suasore d’ogni rinuncia», il quale conduce ogni cosa «dove si dimentica e si è dimenticati, oltre le case ed i muri, lungo il sentiero aspettato dai cipressi» (135), lì in fondo «dentro il fasto verminoso dell’eternità» (132).

Questa figura che in passato era stata donna, madre e sposa; che invano aveva generato e patito poiché niente resiste alla risacca del tempo che si ripete. Niente di nuovo si dà sotto il sole del divenire: «Che cosa era [infatti] il sole?» e «quale giorno portava sopra i latrati del buio»? Se ne conoscano pure «le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere; […] i matemi e le quadrature di Keplero», tutto in verità «persegu[e] nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (128).

 Gonzalo osserva la vicenda ripetersi in ciascuna delle persone che vengono a spargere il loro lamento sordo nelle stanze della villa. Dietro lo slancio e la speranza non c’è che la ripetizione che disegna per tutti la stessa parabola destinata a concludersi nel viale alberato del Recoleta. In fin dei conti la vita persegue lo stesso ordine geometrico, regolare del mondo ma la sua regolarità consiste nell’insensatezza del suo accadere e nella fatica del viaggio che l’umano è in grado di sopportare soltanto immergendosi nella non-verità.

Ritornando in superficie questi troverà errate le ragioni che regolano il suo agire – per lo più aperte verso l’avvenire di un orizzonte felice – e forse persino insensate. Una volta che si sia fatta propria questa cognizione del destino doloroso e senza approdo dell’esistere verrebbe da chiedersi se sia «vero che resterebbe ancora un unico modo di pensare, che si porterebbe dietro come risultato personale la disperazione e come risultato teoretico una filosofia della distruzione»[7]. Nel porre questa domanda Nietzsche distingue tra due temperamenti possibili i quali corrispondono, in modo diverso, alla stimmung del figlio e della madre Pirobutirro: «Io credo che la decisione circa l’effetto della conoscenza venga data dal temperamento di un uomo: potrei immaginare, altrettanto bene che quell’effetto descritto e possibile in singole nature, un altro effetto, grazie al quale nascesse una vita molto più semplice, molto più pura da passioni di quel che non sia l’attuale»[8]. Mi sembra che i due protagonisti stiano di fatto dallo stesso lato della cognizione, solo che la donna vi fa approdo con una serenità e una distanza di cui è complice la maturità degli anni, la lunga esperienza di chi sa che la tregua non tarderà ad arrivare. Dal canto suo, quella di Gonzalo non è però una filosofia della distruzione, bensì la ferita ancora aperta di un dolore originario. 

 

  1. L’arca bastarda delle generazioni

 

Sempre nel Qohélet la vanità del tutto avvolge anche il grembo che genera[9]. La ripetizione di nascita, dolore e morte dell’esserci dell’uomo nella monotonia dell’essere che continua il suo moto senza nessuna novità ha infatti come conseguenza l’isterilimento del mondo. La comprensione non genera poiché la fecondità del pensiero avrà come esito l’infecondità della carne. E invece «dall’Arca bastarda delle generazioni» (150) la signora Pirobutirro tirò fuori Gonzalo e quell’altro fratello riconsegnato presto alla pace del non-essere.

Il figlio sa di condividere con la madre l’apprensione di un mondo spietato che niente concede di buono alle sue entità se non il ritorno al nulla, eppure nei confronti della donna persiste un inquieto sentimento, il «suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d’ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte» (147). La colpa della madre che il figlio non le perdona non viene mai chiarita ma credo non sia irragionevole pensare che si tratti dell’errore iniziatico, originario e tutt’ora immedicato dell’essere portato al mondo, il quale rimane sempre vivo e rinnovato nel tempo che passa. Ciò che gli faceva dimenticare la tenerezza e affievoliva in lui un sentimento totale, innato e viscerale con la figura materna è «il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno» (146). Il male di essere stato portato al mondo.

La madre dunque diventa un’individuazione del Principio. Qui la lezione di Albert Caraco è dirimente nel cogliere il significato filosofico della figura femminile che, nella sua forma individuata appunto, non è che il tramite dell’archetipo originario della Grande Madre. In Post-mortem si trovano pagine folgoranti per finezza di pensiero e acutezza dei sentimenti. In quel libro nato a seguito della morte della figura materna, Caraco mostra un inquieto gelo, una provocante indifferenza nella quale convergono non la disistima per la donna amata e perduta, bensì la messa in atto del più grande insegnamento che questa presenza ha lasciato nella sua vita: la distanza. Nonostante tutto, la freddezza e il progressivo sciogliersi della candela dei sentimenti Gonzalo li ha appresi dalla madre la quale gli rammentava con l’esempio che il male «non meritava di essere propagato». «Invece era nostro comune dovere scomparire, affinché i nostri dolori fossero sepolti assieme a noi»[10]. Un dovere che la madre assolve con grande mestizia.

 

  1. L’alba

 

Il finale è imprevisto, nient’affatto ordinario ma perfettamente compiuto, nell’incompiutezza del romanzo.

Gonzalo prende la sua valigia e parte, accompagnato dalle parole della madre: «Addio!… non essere inquieto» (211). Un saluto che sembra consapevole di essere l’ultimo e definitivo, forse per questo assistito da una raccomandazione che vale per gli anni venturi e per l’intera vita che rimane. E infatti dopo quella partenza del figlio la madre rinuncia al proprio io bussando alle porte di Ade.

Rimane incerta la causa di questa morte benché sia molto forte l’ipotesi di un gesto autonomo e voluto; un’estrema unzione dal peccato di avere generato. Sembra quasi che sia la madre a decidere di lasciare la presa sul figlio, di liberarlo. «Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero» e subito dopo Gadda aggiunge una parola veramente significativa: «Abbandono» (217). La signora Pirobutirro ha finalmente lasciato la tensione che la teneva contratta alla vita congedandosi dal grande cancro dell’esistenza, dall’Io che pone attrito nei confronti del nulla; dalla favilla che per un breve tempo fa luce e chiasso nel silenzioso buio del non-essere.

Sul finire il romanzo non lascia spazio all’umano bensì all’alba del giorno dopo. La luce che incede dalle finestre e rischiara nella campagna solitaria l’avvenire. Gadda connota il chiarore del sole con due aggettivi emblematici: ignaro e perentorio. Indifferente alle cose umane esso avanza prepotente nelle loro case senza vestire il lutto della loro scomparsa. Perché il buio non sarà alla fine l’ultima parola di questo «mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra» (198); quest’ultima si presenta soltanto come «liberatrice, che a tutte parti rimedia» (143). Non viene meno la luce laddove la presenza dell’umano tace. È soltanto la vita la «scheggia di luce che finisce nella notte»[11].

 

[Foto di Alberto Giovanni Biuso]

[1] Si veda C. Martignogni, «La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda: il “romanzo familiare» di una vita”», in Rendiconti. Classe di Lettere e scienze morali e storiche. Istituto Lombardo, n. 153, 2019.

[2] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudia Vela, Adelphi, Milano 2019, p. 224. Il numero di pagina delle citazioni successive tratte dallo stesso libro sarà indicato nel testo.

[3] E. Cioran, Il crepuscolo dei pensieri (Amurgul gândurilor), trad. di C. Fantechi, Adelphi, Milano 2024, p. 19.

[4] F. Nietzsche, Umano, troppo umano (Menschliches, Allzumenscliches, 1878), volume primo, nota introduttiva di M. Montinari, versione di S. Giametta, Adelphi, Milano 1979, af.29, pp. 37-38.

[5] Qohélet o l’Ecclesiaste, versione e saggi di G. Ceronetti, Giulio Einaudi, Torino 1970, 12,5, p. 45.

[6] Ceronetti scrive: «Qohélet non cerca di cambiare il mondo. Ha veduto quel che c’era da vedere e ha trovato che non ne valeva la pena», G. Ceronetti, «Qohélet poema ebraico» in Qohélet o L’ecclesiaste, cit., p. XXXI.

[7] F. Nietzsche, Umano, troppo umano, cit., af. 34, p. 41.

[8] Ibidem.

[9] «Cento volte generi un uomo/ E anni su anni viva/ Se in così grande numero di anni/ Il bene che ha non lo sazi/ E non ci sia neppure/ Una tomba per lui/ Un aborto io dico/ è più felice di lui/ Perché viene come una nebbia/ E nel buio se ne va/ E il buio il nome ne coprirà», Qohélet o l’Ecclesiaste, 6, 3-4; p. 22.

[10] A. Caraco, Post-mortem, trad. di T. Turolla, Adelphi, Milano 1984, p. 118.

[11] L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte (Voyage au but de la nuit, Paris, Gallimard 1952), trad. di E. Ferrero, Corbaccio, Milano 2022, p. 366.

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