Dissipatio e zdanovismo. In difesa dell’Europa

di Marcosebastiano Patanè

 

  1. Oicofobia e politicamente corretto

 

«Ancora una volta tentiamo di comprendere il presente»[1]. Se con Disvelamento. Nella luce di virus la bilancia dell’analisi di Biuso verteva sulla volontà di dominio e di disciplina dei corpimente da parte del potere, una volontà incarnatasi nella dimensione sanitaria come trionfo della vita desacralizzata, della nuda vita, su tutti gli aspetti dell’être-au-monde e dell’in-der-Welt-Sein, con Ždanov. Sul politicamente corretto la bilancia della teoresi catecontica di Biuso verte più sulla minaccia alla dimensione semantico-culturale dell’homo sapiens sapiens, cioè sulla dimensione-relazione «Mentecorpomondo»[2].

I due volumi risultano di fatto inscindibili, poiché in entrambi Biuso affronta e analizza le diverse declinazioni della medesima crisi antropologica e i molteplici fenomeni di dissipatio del corpo sociale, tentando così di delineare una linea di resistenza filosofica, linguistica, storica e politica, tentando cioè di difendere l’Europa.

Ždanov. Sul politicamente corretto è anche, dunque, una difesa delle radici dell’identità europea, una difesa dell’οἶκος, della nostra dimora, la dimora dell’essere bio-sociale che siamo, del connubio di natura-cultura che siamo, in diretta contrapposizione con l’«oicofobia, vale a dire l’avversione alle proprie radici, alla propria cultura, alla propria identità»[3], scaturita da ciò che Biuso definisce «etnocentrismo etico dell’Occidente»[4].

Sotto attacco sono quei terreni ultimi di intelligibilità rappresentati dall’integrità psicosomatica che siamo, dal linguaggio, dalla comunità e dal suo passato come continuità storica della propria identità. Sono questi, infatti, gli elementi minimi necessari per la germinazione di un orizzonte di senso, orizzonte che per l’Europa e i suoi popoli origina nella filosofia greca inaugurata dai Presocratici, nella comunità divenuta polis, nel diritto romano, nell’Università del progetto di Wilhelm von Humboldt, nelle letterature nazionali, nella difesa della sovranità individuale e collettiva.

L’apparenza grottesca, a tratti ridicola, certamente rozza e vandalica, di alcune manifestazioni del politicamente corretto, del wokismo e della cancel culture non devono ingannare. Queste infatti incarnano l’ultima manifestazione di una tendenza millenaria delle società umane alla cristallizzazione di un sistema specifico di valori in risposta all’incertezza del divenire degli eventi e dello slittamento dei paradigmi valoriali, «è il tentativo autoritario di fermare tale flusso nella stasi del bene, di ciò che le autorità politiche e culturali, o anche un’intera società ammansita, credono sia il Bene»[5].

Politicamente corretto, wokismo e cancel culture sono «fenomeni che si pongono in continuità con alcune delle pratiche più repressive e violente della storia europea e occidentale. Si pongono in continuità con i tribunali dell’Inquisizione cattolica, con l’inflessibile moralismo calvinista, con i totalitarismi del Novecento»[6], cioè con l’uso violento, strumentale, censorio, propagandistico e utilitaristico dell’arte, delle scienze, della filosofia, della letteratura, della musica, dell’istruzione e delle istituzioni. Tali fenomeni rispondono nell’analisi di Biuso alla categoria dello “zdanovismo”, cioè il tentativo di imposizione della propria bêtise da parte dei detentori “illuminati” dell’ortodossia di turno.

Nella classificazione di Eugenio Capozzi[7] riportata da Biuso, il politicamente corretto è caratterizzato da una posizione «diversitaria», cioè dalla tendenza alla dissoluzione di ogni identità nel flusso di una assoluta indifferenza; dalla colpevolezza dell’Occidente per definizione; dall’avvenuta trasformazione dei desideri in diritti; dalla separazione netta tra umano e natura; da un’assoluta autodeterminazione.

Come zdanovismo il politicamente corretto si rivela nella forma di un feroce conformismo nato dall’esigenza degli individui del corpo sociale di rispondere alla crisi di identità che caratterizza le società contemporanee. Per questo esso si configura anche come una «modalità di trasformazione della politica da dispositivo mondano di gestione dei conflitti a struttura soteriologia tesa a salvare dai conflitti. È un tratto religioso che non soltanto disvela la maschera di ‘laicità’ della storia contemporanea – il Novecento è stato un secolo di sostanziale religiosità politica – ma rappresenta anche un elemento che mette a rischio le effettive libertà individuali e collettive»[8].

Secondo gli studi di Robert Hughes riportati da Biuso, il politicamente corretto sarebbe una «“sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo”»[9], lo strumento di un corpo sociale ferito che vuole nascondere le proprie debolezze e le proprie fratture dietro una strumentalizzazione ideologica del linguaggio.

È in nome della tolleranza e dell’accoglienza che si invoca la cancellazione e la riscrittura del passato e delle opere letterarie, come dimostra uno degli esempi riportati da Biuso a proposito dell’organizzazione Gherush92. Comitato per i diritti umani che pretende la cancellazione dello studio della Divina Commedia in virtù della sua palese islamofobia e del suo spiccato antisemitismo[10]. L’obiettivo generale che sembra emergere da tali tentativi di «colonizzazione dell’immaginario collettivo»[11] e di disciplina delle menti sembra proprio la riduzione al silenzio: «Per non offendere nessuno sarebbe infatti necessario stare zitti»[12].

In questo senso sembrano andare sia il rifiuto della logica argomentativa[13] sostituita da valori morali assoluti e indiscutibili, che la rimozione del ragionare soppiantato dall’aderire, l’aderire a una causa di natura morale e di struttura fideistica tale per cui non conterà più né la coerenza di un pensiero né il rigore di un metodo di ricerca, ma il successo della causa da portare avanti. Una generale e radicale assenza di pensiero che conduce a esiti grotteschi, come l’appello di un’accademica statunitense volto a delineare una matematica non maschilista e antirazzista[14].

 

  1. Diritti, astrazioni, Capitale

 

I nemici della libertà e della giustizia, scrive Biuso, sono sempre meno le nazioni nate in risposta alla crisi del modello imperiale successivo alla Guerra dei Trent’anni. Con l’avvento del modello liberale e la diffusione globale del mercato nasce un nuovo modello di universalismo, quello a trazione imperial-capitalista. Il trionfo di questo modello, oggi, rappresenta la minaccia alle libertà dei popoli. Oggi, dopo il crollo dell’argine al capitalismo globale rappresentato dall’URSS, è l’emersione degli Stati-civiltà[15] a tentare di limitare lo strapotere occidentale. Gli Stati-civiltà sembrano infatti coniugare in sé la permanenza di un perno culturale e identitario di fondo legato al territorio e alla comunità, un modello che non metta al primo posto il mercato e la relativizzazione feroce dei costumi in funzione del consumo e della sua perpetrazione.

L’emancipazione liberale, cioè l’astrattismo dei diritti, lascia sempre intatti i fondamenti del dominio capitalista. Le istanze più radicali della sinistra si trovano così nella condizione schizofrenica di ritenere di combattere il capitalismo anche in quanto espressione patriarcale, omofoba, razzista e per natura orientata alla restaurazione di modelli ottocenteschi, invece di riconoscerlo come l’agente materiale dello sradicamento. È nella società dello spettacolo che capitalismo e diritti umani, capitale e volontarismo dei desideri, appaiono in contraddizione, ma essi non lo sono. Della diade composta da capitale e diritti umani lo scopo di questi ultimi è quello di far amare ai dominati la propria sottomissione: «L’umanitarismo costituisce uno dei più potenti strumenti contemporanei volti a conseguire tale obiettivo, facendo sentire individui e collettività parte di un progetto volto al Bene universale»[16]. Questo progetto nasconde una verità ben diversa.

 

Siamo immersi in varie forme di dissipatio del legame sociale che esprimono uno degli elementi ontologici del liberismo e del capitalismo. In contrasto con le società tradizionali, infatti, “dove le relazioni economiche sono incastonate in un tessuto di relazioni comunitarie (politiche, religiose, simboliche), il capitalismo si caratterizza per una quasi completa autonomia dell’economia: le interazioni sociali motivate all’interesse individuale dominano qualunque altra forma di interazione non utilitaria o di interesse comunitario. Questa tesi, che è diventata classica a seguito della pubblicazione dei lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, deve costituire il punto di partenza di ogni seria analisi del capitalismo.[17]

 

Uno dei concetti meno politicamente corretti della critica al Capitale è quello marxista di industrielle Reservearmee, di esercito industriale di riserva. Tale analisi permette infatti di evidenziare la natura «camaleontica»[18] del colonialismo che oggi si incarna nelle guerre umanitarie, e cioè di quelle guerre scatenate a fin di bene, per aiutare ipotetiche minoranze oppresse che condividono i valori occidentali, e che invece servono a «creare un flusso migratorio verso i Paesi europei»[19] di manodopera a basso costo. «Negli anni Venti del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dunque dalle migrazioni tragiche e incontenibili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso capitale […] scatena in Africa e nel Vicino Oriente»[20]. Le conseguenze sono l’abbassamento dei salari, la dequalificazione della forza lavoro e la distruzione della solidarietà operaia.

Se le analisi dell’esercito industriale di riserva sono sostituite dall’umanitarismo dei diritti, la lotta di classe viene sostituita dalla vittimologia. Lo status di vittima diviene l’unica piattaforma per mezzo della quale poter ottenere un riconoscimento sociale di qualsiasi tipo, la base di rivendicazioni economiche, la base per la costruzione di una carriera e addirittura della propria identità. Il vittimismo stabilisce «un primato etico rispetto a coloro che invece non amano rivendicare uno status di vittima. Secondo Hannah Arendt la ‘politica della pietà’ si oppone alla politica sociale e alla politica in quanto tale poiché il vittimismo non è e non può costituire un paradigma politico»[21].

Il lavoratore consapevole della propria identità nel contesto della società e dei suoi conflitti è sparito. Al suo posto troviamo l’uomo inteso come un nodo della rete ipertecnologica di mercato: «Siamo l’energia del fiume di parole, informazioni, richieste, scambi, immagini, suoni, in cui consiste la Rete»[22].

Analogamente, affermare che le società multirazziali del melting pot statunitense e francese siano in realtà società multirazziste e che le differenze tra popoli e comunità diverse non possono essere cancellate da alcun fervore moralista, diventa, sotto il regime del politicamente corretto e dell’umanitarismo dei diritti, un discorso razzista. Ciò legittima la riduzione al silenzio. E invece, afferma Biuso, quello di “uomo” è «un concetto astratto, per i Greci del tutto marginale. Al centro della vita collettiva si pone invece l’abitante della πόλις, con i suoi diritti e i suoi obblighi»[23]. I confini che delimitano le comunità nazionali, i territori, le culture locali e i loro componenti non sono astrazioni, i suoi individui non sono monadi isolate e irrelate. Cultura, comunità, territori e confini sono orizzonti di spazio e tempo condivisi, sono aperture di senso, sono carne culturale: «L’opposto della frontiera è il mercato, è il capitale»[24].

Non considerare chi in un determinato luogo ha abitato per secoli e millenni significa votare se stessi non solo all’incomprensione dei problemi sociali ma anche a un futuro di scontri tribali e violenza tra clan. «È necessario demoralizzare il problema e ripoliticizzarlo»[25], riconoscere che quello di «umanità è diventato in questo modo anche e soprattutto uno strumento del conformismo più pervasivo e più cupo»[26] e che «chi dice ‘umanità’ sta cercando di ingannarti (Wer Menschheit sagt, will betrügen)»[27].

La dimensione del modello liberal-capitalista è quella del T.I.N.A., there is no alternative, di tatcheriana memoria, l’esatto contrario della sovranità dei popoli, l’esatto opposto della politica intesa come gestione dei conflitti. La strada già tracciata, il futuro già deciso del modello liberal-capitalista, invece, si sposa alla perfezione con il wokismo, con l’ideologia dei risvegliati. Politicamente corretto e cancel culture sono anche, infatti, dinamiche interne del wokismo, frutto avvelenato del liberismo e braccio armato dell’imposizione di paradigmi culturali e politici totalitari.

Il wokismo, il politicamente corretto e la cancel culture condividono con i totalitarismi del Novecento l’odio verso il passato e la volontà radicale di trasformazione dell’esistente nella forma di un’imposizione dall’alto da parte di un’élite illuminata che deve condurre le masse verso un mondo nuovo, un Brave New World. È per questo motivo che risulta ormai necessario parlare di totalitarismo della democrazia, cioè di totalitarismo liberale, totalitario perché privo di argini, privo di qualsiasi compromesso o legame storico con istituzioni di altro tipo: gli Stati democratici «ritengono di essere in diritto di vietare alcuni sentimenti e imporne altri. I sentimenti interiori, i pensieri. Una pretesa che nessun potere, neanche il più determinato e feroce, aveva sinora nutrito»[28]. L’auspicio di Biuso è quello della nascita di un nuovo Nomos della Terra contro la globalizzazione anglosassone, contro i popoli eletti e le élites illuminate.

 

  1. Progressismo

 

La metafisica progressista del capitale e dei diritti dell’uomo è «metafisica dello sradicamento»[29]. Il liberismo ne è la manifestazione e il politicamente corretto, la cancel culture e il wokismo sono sue dinamiche. L’antropologia flussica che ne deriva determina una radicale crisi della presenza. Una delle manifestazioni più evidenti di tale crisi è il gender. «La questione gender, va compresa in particolare nell’ambito delle tendenze transumanistiche che agitano il presente e che si implementano ogni giorno nelle pratiche della cosiddetta Intelligenza Artificiale»[30]. Il transumanesimo rappresenta l’apice dell’antropocentrismo divenuto compiutamente tecnocentrismo, cioè la certificazione, l’autocertificazione, dell’uomo quale dominatore del mondo, la forma realizzata dell’iperumanismo e l’esatto opposto della celebre espressione heideggeriana: «“L’uomo non è il dominatore degli enti. L’uomo è il pastore dell’essere”»[31].

Un radicale volontarismo emerge dalla svalutazione di un’ontologia realista che non vede il mondo come prodotto dello spirito umano e della sua percezione. La differenza delle strutture biologiche viene eliminata in favore di un individualismo flussico eretto a ontologia, ben oltre qualsiasi forma storico-culturale di svalutazione della materia. «L’antimaterialismo culturalista nasce da una radicale ostilità verso la struttura biologica dei corpi umani e animali, una radicale ostilità nei confronti del corpo sessuato»[32]. Il disprezzo per la potenza della corporeità che si esprime anche nel dualismo della separazione tra sesso e genere e che sostituisce la materia con un flusso metamorfico di istanze mentali è l’esatto opposto di un’altra celebre espressione, questa volta di Nietzsche: «“Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro”»[33]. Che un maschio possa sentirsi e desiderare di essere femmina, che possa assumere atteggiamenti e costumi femminili, o viceversa, non significa che tale persona «non costituisca uno statuto ontologico che è maschile o femminile, senza incertezze»[34].

Impulsi alla trasparenza teologico-roussoviani[35] invadono e contribuiscono al carattere messianico di buona novella delle nuove tecnologie. Già a metà degli anni Settanta l’innovazione tecnologica era diventata, di per sé, una promessa di emancipazione e di progresso, la promessa di una nuova età dell’oro da raggiungere alla fine della grande corsa all’innovazione. Oggi, a maggior ragione, gli insistenti tentativi da parte del capitale di regolare, orientare e trasformare, in una parola controllare, l’esistenza delle popolazioni occidentali e delle metropoli di tutto il mondo, dovrebbero aprire gli occhi sulla vera natura della gestione delle rivoluzioni tecnologiche. Caratteristiche di tale gestione sono la svalutazione del legame sociale, dei mestieri, di tutte le attività umane, dell’esperienza sensibile, il rimodellamento dell’interiorità. La tecnologia non è mai neutra e la tecnica è sempre rapporto con il potere.

Nel contesto di questo rapporto, l’importanza dell’analisi di 1984 di Orwell risiede per Biuso nello smascheramento che esso compie: «“Il potere non è un mezzo, è un fine”»[36]. Non sono infatti le dittature a essere instaurate al fine di salvare le rivoluzioni, sono le rivoluzioni che si fanno per instaurare le dittature. Il potere trova nell’operazionismo[37] del pensiero contemporaneo una delle sue più potenti incarnazioni, al suo cuore si trova la «fallacia artificialista»[38] e cioè l’imposizione di ciò che si deve fare come risultante da ciò che si può fare. Il risultato di questo processo è la natura ridotta a device, la riduzione di tutti gli enti a manipulanda e la perdita di quella «consapevolezza fondativa del mondo che abitiamo»[39], il nascondimento di quel Boden che questa consapevolezza dà al mondo perché lo riconosce nel cosmo. Il «dataismo»[40] è una delle conseguenze di questo processo e cioè una ideologia della misurabilità volta alla dissoluzione del non misurabile.

«Il principio, la ragione, il fine della tecnocrazia digitale è il superamento della libertà come differenza, come maturare lento delle decisioni, come fatica delle scelte, come incertezza costitutiva della vita, a favore invece della libertà di essere tutti uguali nel mondo della competizione ultraliberista»[41]. Il progressivo dominio della ragione artificiale è volto all’eliminazione della rilevanza di qualsiasi fattore innato in favore del self-made-man, letteralmente l’uomo fatto da sé, che da sé riscrive il rapporto natura-uomo-mondo in favore di una atomizzazione disgregante.

Nell’analisi di Mazzarella riportata e condivisa da Biuso, politicamente corretto, gender, capitalismo e tecnocrazia si incontrano «nella tesi che la persona umana “a priori, naturalmente e socialmente, non è ontologicamente nient’altro (o almeno si pretende) se non persona giuridica, fiction sociale titolare dei diritti che la società gli riconosce in una pattuizione ogni volta a determinarsi”. A tale astrazione etico/giuridica – continua Biuso – va opposta con chiarezza la tesi che l’umano, come ogni altro ente, è costituito da una struttura ontologica cangiante sul fondamento di qualcosa che non muta»[42]. L’umano non è cultura opposta alla natura, né la natura è mero hardware, o wetware, l’umano è «“l’innesto biosociale della cultura nella natura”»[43].

 

  1. Il «coro degli spiriti della vendetta»[44]

 

Come dichiarato in apertura del testo, l’analisi di Biuso è condotta con gli strumenti della comunità filosofica, con gli strumenti del concetto e della sua libertà, e gli esponenti di tale comunità sono i protagonisti di questa analisi: Spinoza, Heidegger, Nietzsche, Mazzarella, Schmitt, per nominarne alcuni tra i più rilevanti. Accanto a questi nomi troviamo anche diversi scrittori, Orwell, Huxley, e poi ancora sociologi, poeti e uomini politici. Un nome, però, rischia forse di sfuggire. Si tratta di Hieronymus Bosch. Il particolare scelto per la copertina del volume, infatti, appartiene a un celebre dipinto del misterioso maestro fiammingo, Il Trittico delle tentazioni di Sant’Antonio, nello specifico un particolare del pannello centrale che vede nel mezzo della raffigurazione la figura di Sant’Antonio rivolta verso l’osservatore e tutt’intorno un’intricata, rizomatica, danza di figure ed eventi.

Chi sono le figure rappresentate? Si tratta del «coro degli spiriti della vendetta». Secondo la descrizione di Fraenger il corteo è aperto da una coppia di cani corazzati, un richiamo ai cani necrofagi dell’inferno, e da una megera irata, furibonda, che indossa guanti e scarpe ferrate e a guisa di elmo il tronco di un salice, albero magico caratteristico delle megere utilizzato per incantesimi di natura bellica come l’evocazione di interi eserciti dalle acque. Agguantato e trascinato dalla megera è possibile osservare un vero e proprio demone infernale munito di zoccoli, ali, denti appuntiti e un lungo corno. Altre figure e simboli di varia natura seguono questi primi personaggi: il cadavere di un maiale infilzato, un boia mostruoso e l’armatura vuota di un cavaliere la cui visiera «nasconde un profondo horror vacui, il cavaliere non è che una maschera nichilista, a cui una vitalità fittizia conferisce una spettralità straordinariamente inquietante»[45].

Non è che un particolare, questo, di un quadro incredibilmente complesso e articolato, ricco di rimandi simbolici, immerso in una rete fitta di richiami teologici e caratterizzato da uno stile unico che ha reso celebre l’opera di Bosch. In un magmatico succedersi di personaggi, di simboli, di figure e di eventi, animali fantastici, ibridi, uomini dalle fattezze di uccelli, cavalli trasformati in anfore, animano il quadro, e ancora navi-carpa e navi-oche, paesaggi futuristici, figure ancestrali, rappresentazioni di culti misterici e messe nere. Ogni cosa sconfina l’una dentro l’altra, lo spazio perde la propria serialità e acquista un carattere onirico. «Nel dipinto non è dunque rintracciabile alcuna salda connessione spaziale. Le strutture sono intercambiabili e concatenate come cassetti, sorgono e si dissolvono, in uno stato di sospesa oscillazione che conferisce loro, attraverso il contrasto con l’abisso indistinto dell’abiezione, la cruda luce di un bengala»[46].

Perché un coro della vendetta? Il passo biblico sotteso agli spiriti della vendetta e a tutto il complesso intermedio del pannello centrale è individuato da Fraenger ne Il Cantico di Mosè (Deuteronomio XXXII, 15 sgg.). Si tratta quindi di una vera e propria punizione divina quella operata dagli spiriti della vendetta, un castigo divino contro la ϋβρις dei popoli che abitano il mondo, contro élite orgogliose, contro l’ignoranza delle masse, «“contro le Chiese e i preti, / contro gli uomini politici, / contro i buoni, i compassionevoli, / contro i cóliti e il lusso, / in summa contro la tartuferia. come Machiavelli”»[47].

Il mondo stregato e infernale raffigurato da Bosch è anche il mondo odierno della «democrazia totalitaria»[48] le cui origini affondano nella politica e nella pedagogia di Rousseau, nel Contratto sociale e nell’Emilio, nel progetto politico giacobino e in quello babouvista. «Dalla ϋβρις greca al peccato cristiano, dai miti orientali al fatum latino, la realtà della vita umana era sempre stata vista come intrisa di limite […] nel Settecento la svolta […] il doloroso limite che ci costituisce fu da Rousseau ricondotto alla storia; la finitudine di ciò che è biologico […] fu definita una colpa sociale»[49].

Gli spiriti della vendetta di Bosch sono anche il risultato che attende chi dimentica il passato, chi ignora la potenza del Bios, chi disconosce il dispositivo di identità e differenza che intride e governa l’Intero, chi ritiene che dall’alto del proprio potere tecnico possa divenire il padrone di un mondo rifondato a propria immagine e somiglianza stabilendone le regole e le origini.

Gli spiriti della vendetta sono il frutto delle culture della dismisura e degli eletti, di chi rigetta la sapienza antica racchiusa nel detto di Anassimandro: «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo e il suo divenire…) Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo»[50].

Gli spiriti della vendetta sono la Nemesi inevitabile di chi rifiuta la finitudine, di chi non riconosce la ricchezza della Zωή, la Nemesi delle «tendenze costruttivistiche, culturaliste e transumane»[51], la Nemesi dei novelli Pènteo e Creonte, la Nemesi della barbarie puritana ipernormativa, ultramoralista e delle dittature dei valori. Questa Nemesi è Dioniso-Mῆνις ed è anche Dioniso dio della «misura […] poiché “in chi è saggio, l’equilibrio tutti i moti domina”»[52].

[1] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Catania 2024, p. 11.

[2] Id., Temporalità e differenza, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2008, p. 100.

[3] Id., Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 52.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 12.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 24.

[8] Ivi, pp. 23-24.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Ivi, p. 32.

[11] Ivi, p. 31.

[12] Ivi, p. 34.

[13] Ivi, p. 143.

[14] Ivi, p. 144.

[15] Ivi, p. 51.

[16] Ivi, p. 49.

[17] Ivi, p. 34.

[18] Ivi, p. 56.

[19] Ivi, p. 25.

[20] Ivi, p. 26.

[21] Ivi, p. 76.

[22] Ivi, p. 48.

[23] Ivi, p. 43.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 44.

[26] Ivi, p. 36.

[27] Ivi, p. 43.

[28] Ivi, p. 59.

[29] Ivi, p. 56.

[30] Ivi, p. 107.

[31] Ivi, p. 42.

[32] Ivi, p. 110.

[33] Ivi, p. 116.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p. 46.

[36] Ivi, p. 136.

[37] Sul concetto di operazionismo cfr. E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017; M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (L’Œil et l’Esprit, 1960), trad. di A. Sordini, SE, Milano 1989.

[38] E. Mazzarella, Luomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, cit., p. 11.

[39] Ivi, p. 10.

[40] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 41.

[41] Ivi, p. 48.

[42] Ivi, p. 117.

[43] Ibidem.

[44] W. Fraenger, Hieronymus Bosch: le tentazioni di Sant’Antonio (Die Versuchungen des heiligen Antonius [Nationalmuseum Lissabon]. Dei Versuchungen des heiligen Antonius [Madrid], 1975), trad. I. Bernardini ed E. Gini, Abscondita, Milano 2007, p. 27. Fraenger ha dedicato tutta la vita allo studio dell’opera di Bosch alla luce del pensiero teologico-filosofico della comunità adamitica del Libero Spirito e del suo Gran Maestro Jacob van Almaengien.

[45] Ivi, p. 31.

[46] Ivi, p. 17.

[47] F. Nietzsche, in A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 57.

[48] Ivi, p. 125.

[49] Ivi, pp. 125-126.

[50] Anassimandro, in Simplicio, “Commentario alla Fisica di Aristotele”, 24, 13 (DK, B 1).

[51] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 122.

[52] Id., Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano 2023, p. 61.

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