di Enrico Carmelo Tomasello
“L’immediato è il caso e nello stesso tempo è definitivo.
Quello che voglio è il definitivo per caso”
J.-L. Godard
Le pagine che state per leggere sono il risultato di ciò che ho letto, notato e osservato; Non sono fatti ma pensieri. Eppure anche il pensare può essere considerato un accadere, un modo dell’agire o un tentativo di interpretare la realtà. Per queste ragioni, propongo di condividere una riflessione su uno dei possibili significati del fotografare, sull’atto creativo come gesto naturale e sulla fotografia come fenomeno plurale. A questo bisognerebbe aggiungere in premessa, che non credo di sapere molto sul tema, sia sul piano tecnico che sul piano teorico. Tuttavia nell’ultimo periodo ho collezionato una serie di letture sull’argomento, soffermandomi sul significato della pratica fotografica, anche attraverso articoli e raccolte di diverso genere.
Da illustri padri della fotografia umanista come Robert Doiseau, ai pioneristici rullini della street photography di Vivian Maier, passando per gli storici scatti dei report di Robert Capa. Tra le letture, un saggio di Barthes mi ha restituito le risposte che cercavo e ha suscitato in me domande migliori di quelle che mi ero posto all’inizio. Nel tentativo di mettere alla prova la tesi, secondo la quale, la fotografia possa coincidere con una certa idea di realtà. Non prenderò in considerazione l’argomento come tecnica, né come arte, ma semplicemente come fenomeno antropologico connaturato alla corporeità dell’essere umano. Non dimenticando che si tratta di una proposta o meglio ancora di un sentiero. Nel corso della lettura qualche idea potrebbe parlarvi, altre potrebbero non dirvi nulla, alcune invece potrebbero suggerirvi l’intuizione per una nuova idea. Prendete ciò che volete, lasciate andare ciò che vi sembra inutile. Quello che seguirà non è altro che il risultato di quanto credo di aver compreso e di quello che ancora non riesco a comprendere. Ora non resta che verificare la validità di questa prospettiva sulla fotografia oppure ammetterne la sua infondatezza.
- La camera chiara
Nessuno scrittore sa quale sarà il suo ultimo libro. Quando Barthes scrisse La camera chiara nel 1980 non pensava potesse esserlo. Era mosso da quella curiosità che lo ha reso un autore eclettico oltre che semiologo, saggista e linguista. Ma facciamo un passo indietro. Quello che ho definito come libro in realtà non lo è, o meglio non era nato come tale, lo è divenuto in seguito. Il titolo originale in francese era Note sur la photographie, quindi delle note, degli appunti o delle considerazioni sul tema. Ciò che scosse il semiologo francese era il suo profondo desiderio di comprendere cosa fosse la fotografia in sé. Come dichiara lui stesso in apertura del saggio: «Nei confronti della Fotografia, ero colto da un desiderio “ontologico”: volevo sapere ad ogni costo che cos’era “in sé”, attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini»[1]. Quella che propone Barthes sulla fotografia, dunque, è un’indagine sul suo statuto ontologico e sulla possibilità che vi sia del vero nel reale. La fotografia si esprime necessariamente attraverso la luce. La luce è la vera protagonista. La luce è l’essenza della fotografia. Come la lettrice o il lettore avrà compreso, queste note sulla fotografia sono in realtà un saggio sulla luce. Questo emerge con evidenza dalle considerazioni barthesiane sul tema. Ma se volessimo andare oltre, l’indiscussa protagonista, potremmo domandarci: Cosa conosce il nostro corpo dell’evento fotografico? Cosa sappiamo di ciò che accade al momento dello scatto, del prima e del dopo? Cosa scaturisce da questa vana pretesa di immortalare l’istante?
Da un punto di vista antropologico non è facile trovare una risposta esaustiva, ma possiamo condividere con l’autore l’idea secondo la quale, nell’atto del fotografare intervengano tre pratiche. Quella del fare, del subire e del guardare. Ed a queste pratiche corrispondo tre soggetti. L’operator, ovvero il fotografo, che esprime la sua funzione nella pratica dello scattare la foto; lo spectator, ovvero colui che osserva l’evento fotografico nella dimensione della fruizione del prodotto foto (quindi sotto forma di stampe, mostre fotografiche, giornali, riviste o internet) ed infine vi è lo spectrum, vale a dire ciò che viene fotografato e che ne rappresenta il suo bersaglio. Questi elementi compongono la triade dell’evento fotografico. Talvolta si sovrappongono, come nel caso dell’autoscatto (in cui operator e spectrum coincidono), altre volte si moltiplicano esponenzialmente, come nel caso della visibilità che può avere una foto sui social (qui il numero degli spettatori può variare e non è limitato da spazio o tempo). Ciò che permane è la presenza di questi tre elementi, seppure in forme e combinazioni diverse.
Questo ci permette di porre la differenza tra la foto e l’immagine. La prima è il risultato di un’interiorità che si manifesta in un campo chiuso di forze. Nelle storie di corpi, oggetti o eventi colti nel loro compiere un’azione, nel loro abitare lo spazio-tempo e nell’essere dimensioni di un’esistenza che è questo incessante fluire di tempo e materia. La seconda è invece tutta esteriorità, privata dell’intimità che la relegava alla categoria fotografica, essa appare più distante ed inaccessibile della foto; appare «senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso»[2]. Foto e immagine non sono necessariamente in aperta opposizione ma espressioni differenti della medesima sostanza.
Un punto di contatto tra queste ultime, potrebbe essere il tema della messa in posa, dal momento che posso essere fotografato sapendo di esserlo. In quel caso sento l’occhio dell’operator su di me e «mi metto in atteggiamento di “posa”, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine»[3]. Invece è sempre l’imprevisto a rendere autentica una foto. L’assenza di consapevolezza da parte della mente, che percependo di trovarsi sul palcoscenico della vita, come in una parata di consuetudini, non può far altro che sorridere verso la camera. Spontanea è anche questa censura del sé. Il tentativo di nascondersi non vale per gli oggetti o per ciò che accade come gli eventi. Questi non possono difendersi dallo sguardo del fotografo, non hanno la necessità di farlo, quindi accolgono la luce e restano lì per il tempo che gli è concesso dal mutare delle cose. Così Barthes ha potuto affermare: «Guarda come sono spenti […] le immagini sono più vive delle persone»[4].
Se l’evento fotografico ci mostra solo una porzione di realtà, cioè quella che si può scrivere servendosi della luce (come ricorda l’etimologia stessa della parola), allora i nostri occhi non sono altro che avidi consumatori di foto e di immagini, conformati ad un immaginario generalizzato. Non dipende dall’evoluzione della tecnica fotografica, né delle infinite possibilità di editare un contenuto e quindi di allontanarlo dall’aderenza con il percepito. La foto non può indubbiamente svincolarsi dalla sua tecnica né dai processi che le permettono di esistere, ma la sua essenza coincide con l’immaginario che attraversa il nostro occhio. A partire da ciò che suggerisce la realtà e che finisce per riproiettare all’esterno sotto forma di rappresentazione. La fotografia è ontologicamente questa visione, questo gesto, questa prospettiva.
- Occhi umani
L’invenzione della macchina fotografica nasce dall’imitazione dell’occhio umano e tra queste vi sono numerose corrispondenze e analogie. Ad esempio, nell’occhio la parte utile a regolare l’intensità della luce, prende il nome di iride (omonimo della divinità greca messaggera degli dei); nella camera invece questo compito è svolto dal diaframma, che funziona come una pupilla, permettendo e regolando il passaggio della luce. Inoltre sul fondo oculare troviamo una membrana delicata, la retina, che trasforma l’immagine in segnali elettrici, i quali lungo il nervo ottico raggiungono il cervello dove vengono elaborati, legati alla memoria e dotati di vita emotiva. Nelle camere analogiche, la memorizzazione di immagini avviene per mezzo della pellicola. Infine nella parte anteriore del bulbo oculare troviamo il cristallino, che insieme alla cornea, permette la messa a fuoco sulla retina. Le stesse funzioni sono svolte da una comune lente fotografica[5]. Tutto ciò non basta. Se pensiamo ad elementi come risoluzione e memorizzazione il confronto non si pone più sullo stesso livello. La dicotomia tra naturale ed artificiale non sussiste, dal momento che dobbiamo considerare i nostri occhi in continuo movimento ed in perenne dialogo con il nostro cervello. Proprio perché la nostra mente ha la capacità di correggere errori, modificare immagini o estrometterle del tutto. Generando alterazioni visive che impattano sulla possibilità di darne una rappresentazione fedele. Delle volte per una devianza patologica altre volte per motivi del tutto personali. Di ciò ne è testimone la storia dell’arte. In particolar modo di quella che ha contribuito ad offrire uno spaccato della realtà attraverso la pittura. A chi chiedeva il perché, di quegli occhi vuoti nei sui ritratti, Modigliani rispondeva che avrebbe dipinto le pupille il giorno in cui avesse conosciuto l’anima dei suoi modelli. La foschia presente negli ultimi dipinti di William Turner, non era causata da un inquinamento atmosferico ante litteram, ma si trattava delle difficoltà derivanti dalla sua vista. Stesso discorso vale per gran parte delle 250 tele di Claude Monet, costituenti la raccolta delle ninfee, dipinte nel pieno delle sue nebbie visive. Dunque se fotografare è il risultato di un’azione di rappresentazione della realtà, possiamo dire lo stesso per la pittura che ne è un’anticipazione. Possiamo considerare l’occhio (ovvero quell’organo di senso che ha il compito di ricavare informazioni sull’ambiente esterno per mezzo della luce) il punto di contatto tra il fotografare ed il dipingere. E se volessimo ancora rintracciare una definizione che ci restituisca il vero ruolo dell’organo della vista. Potremmo lasciarcela suggerire dal genio di Leonardo, che in un passaggio dei suoi scritti, ha così definito gli occhi umani: «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua vita specula e fruisce la bellezza del mondo»[6]. Ecco cosa sono gli occhi: un luogo in cui poter incontrare l’altro, un’occasione di conversazione che non necessita di alcuna parola, una finestra da cui poter accogliere quella luce che noi siamo.
[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p. 5.
[2] Ivi, p. 106.
[3] Ivi, p. 12.
[4] Ivi, p. 118.
[5] Cfr. V. Lingiardi, Corpo, umano, Einaudi, Torino 2024, p. 73.
[6] Cfr. Leonardo da Vinci, Libro di Pittura, a cura di M.T. Fiorio, Abscondita, Milano 2022.