di Luca Dilillo
“But under cliff-eaves there were glooming caves,
weed-curtained, dark and grey;
a cold air stirred in my hair,
and the light waned, as I hurried away.
[…]
Black came a cloud as a night-shroud.
Like a dark mole groping I went,
to the ground falling, on my hands crawling
with eyes blind and my back bent.
I crept to a wood: silent it stood
in its dead leaves; bare were its boughs.
There must I sit, wandering in wit,
while owls snored in their hollow house.
For a year and a day there must I stay:
beetles were tapping in the rotten trees,
spiders were weaving, in the mould heaving
puffballs loomed about my knees”.
“Frodo heard a sweet singing running in his mind: a song that seemed to come like a pale light behind a grey rain-curtain, and growing stronger to turn the veil all to glass and silver, until at last it was all rolled back, and a far green country opened before him under a swift sunrise”.
Una campana suona remota. Le mie orecchie la odono fioca mentre osservo la vastità del Mare sul ponte di una nave. Oppure non è così? In realtà sono nel mio letto e sogno di vedere il Mare, sogno il suo rumore ammaliante, e sogno anche il lontano tintinnare di una campana, fuori, chissà dove. Dalla finestra aperta posso vedere, pur con gli occhi chiusi dal sonno, il buio del cielo punteggiato di stelle, il debole chiaror bianco della luna e una dolce brezza primaverile. Vedo o sento? È una sinestesia di forme fragranze melodie, questa mia visione. Su tutto però, spiccano il suono della campana e il suono del Mare, nitidi e luminosi come fresco argento squillante. Sono il desiderio e la paura di vedere e sentire quelle onde, forse placide e blu, forse nere e rombanti; sono la paura e il desiderio di sentire e vedere quella campana marina, magari gialla oro e festosa, magari dolente e grigio cenere: sono quel desiderio e quella paura a guidarmi lungo la Via dei miei sogni, a occhi aperti o sprofondati nel sonno. Una Via che mi ha condotto – dovrei dire piuttosto mi sta conducendo – a vedere, sentire, considerare una Parola, un Nome che è corpo spirito suono odore paesaggio sapore immagine concetto idea: il Sogno. Un Nome-corpo-senso-spirito-idea che mi affascina interpellandomi in modo travolgente. Vorrei parlarne – se parlarne e basta è sufficiente – attraverso l’Opera dell’autore a me più caro, J. R. R. Tolkien, un uomo che a lungo ha frequentato le lucenti marche del Reame di siffatto sfuggente e misterioso signore, per quanto raramente i loro nomi vengano accostati. Si può dire che lo stesso Tolkien non trattò mai l’argomento ‘di petto’, né in modo teorico né attraverso le sue storie; e ciononostante tutta la sua esistenza letteraria ne è impregnata, fino al midollo. A voler esagerare potremmo affermare che il Sogno ne sia, se non il Tema, certamente il Protagonista principale. Chissà? Forse anche il Professore aveva intuito la potenza incommensurabile di Messer Oneiros, che ovunque si insinua e su tutto prende signoria, limitandosi perciò a lambirne i confini, alludendo e celando, per rendergli onore nella maniera più adatta… Ma allora come si può parlare di qualcosa senza parlarne? Descrivere senza descrivere? Penetrare senza davvero essere penetrati? Per fronteggiare i rischiosi paradossi del Sogno occorre abbandonare i metodi d’indagine tradizionali, bisogna sprofondare nel sonno anche da svegli. Dobbiamo accontentarci di vedere sentire toccare, senza esigere di riportare indietro, come è richiesto in alcune fiabe. Possiamo abbandonarci e fantasticare, ma mai razionalizzare, ridurre o spezzettare con la lucida mente dei desti. Quel che Sogno ci concede è di percepire nel profondo per poi riaffiorare, dimentichi di ogni cosa o quasi, con minuscoli rimasugli di lembi sfilacciati tra le mani. E allora non possiamo che affannarci tra i bordi fumosi di quei regni, cercando la Via a tentoni, costeggiando e talvolta, appena per poco, sconfinando, confusi e frastornati. Che farne dunque, di questi brandelli filiformi? Rammendare, tentare di rifare, è sconsigliabile oltre che vano, perché ben misero potere hanno gli strumenti della veglia sulle cose del Sogno: si può solo continuare a lambire, indugiando sul limen, nei pressi della Soglia tra i mondi; vedere e non vedere, credere e no, entrare e non entrare, in un fragile equilibrio piuttosto eracliteo. Insomma ci si deve accontentare.
Ma se ciò proprio non bastasse? Beh, allora si potrebbe cominciare a raccontare.
Già: provando questa ‘chiave d’oro’ di specialissimo potere può darsi che ci si schiudano cancelli inaspettati; ma affinché funzioni, a qualcosa bisogna pur rinunciare… Messere Racconto esige da noi l’incondizionata disponibilità alla sorpresa e allo stravolgimento, alla messa in forse di ogni dogma e pregiudizio. È forse impossibile dire cos’è il Sogno, ma di lui si può narrare e così facendo magari scoprire che il suo cuore è molto più grande di come ci aspetteremmo. Tolkien l’ha fatto: ha raccontato per tutta la vita storie che guardano il Sogno da vicino, rivelandoci molti dei suoi segreti nascosti. Non saprei pensare a una guida migliore in luoghi tanto strani e ignoti…
Il viaggio ha inizio con Frodo Baggins: quasi tutti conoscono il protagonista e principale narratore della vicenda dell’Anello, colui che insieme ai suoi piccoli amici ci introduce a un mondo di poteri immensi e antichissime leggende; perché è questo il ‘compito Hobbit’: essere cornice narrativa, mediazione indispensabile alla corretta ricezione di cose estranee e remote[1], punto di vista alla nostra portata, grazie al quale entriamo in contatto con la storia e il mito di Arda. Non è arbitrario insomma che il più ‘illustre’ fra gli Hobbit sia per noi anche via d’accesso al Sogno: si tratta non a caso del personaggio che sogna di più all’interno del romanzo, il più legato al regno onirico. Nel primissimo di questi sogni, a Crickhollow[2], la notte che precede l’uscita dalla Contea[3], Frodo immagina di arrampicarsi su una bianca torre nei pressi del Mare, mentre sotto di lui giace un fitto bosco intricato da cui provengono rumori sinistri. Le Acque si odono solamente: Frodo non riesce a raggiungere la cima prima di svegliarsi e ci viene detto che, pur non avendole mai viste, già in passato il suono delle onde ha echeggiato nel suo sonno come un desiderio misterioso. Il Portatore dell’Anello sogna di continuo, in lui questa dimensione si manifesta nei suoi molteplici risvolti: c’è l’abisso sommerso e sepolto, oscuramente psicanalitico – se è lecito usare il termine – come pure la valle di Desiderio e Timore, sempre intimamente annodati; c’è il sogno premonitore e il sogno retrospettivo, sguardi sul passato e sull’avvenire; c’è la nitida visione e quella sfumata, vi sono incubo e dolcezza, conforto e abbattimento, tentazione, rinuncia, stanchezza e coraggio indomito. Nei sogni di Frodo c’è l’intero spettro del Reame Misterioso, ma ci sono anzitutto le metà elementali di cui è fatta la Terra: Ombra e Luce. Ne sono perfetto esempio le due esperienze oniriche che ho citato in esergo: la prima è in verità parte di una poesia, The Sea-Bell, contenuta nel libriccino Le avventure di Tom Bombadil, nella cui introduzione leggiamo che, sebbene non sia opera dello Hobbit, l’altro titolo con cui è nota – Il Sogno di Frodo – «dimostra che essa veniva associata agli oscuri sogni disperati che tormentarono Frodo in marzo e ottobre nel corso degli ultimi tre anni. Ma c’erano sicuramente altre tradizioni riguardanti quegli Hobbit che venivano presi dalla “follia del vagabondare” e che – se mai facevano ritorno – erano poi strani e taciturni»[4]. Questa composizione caratterizzata da un tono cupo, malinconico e senza speranza, racconta di un viaggio a Faërie, privo però di quel senso di gioia e meraviglia che ci aspetteremmo: al contrario, l’esperienza descritta è desolata, a tratti disturbante. Fredda, buia e vuota è la terra visitata dall’io narrante, ogni creatura lo fugge, il tempo lo consuma fino a farne un vecchio disperato; quando infine riesce a tornare a casa, il viaggiatore non trova nessuno ad accoglierlo. Nessuno parla con lui. È solo, incompreso, ingrigito e sperduto. Sono sensazioni analoghe a quelle sperimentate da Frodo al ritorno nella Contea: mentre gli amici hanno l’impressione di essersi risvegliati da un sogno, egli si sente ricadere nel sonno[5]. Per lui una casa non c’è più: troppo ha sofferto e ormai la Terra lo respinge. A ciò si ricollega la seconda esperienza onirica, di segno totalmente opposto: nella casa di Tom Bombadil, la notte prima di ripartire, Frodo sogna una grigia cortina di pioggia che, sollevandosi, schiude ai suoi occhi una contrada verdeggiante, sotto una rapida aurora[6]. Stavolta la visione misteriosa è gravida di promesse e speranza; dona al Portatore dell’Anello la forza per affrontare il suo duro viaggio e prepara la sua purificazione finale, oltre il Mare. Quando infine lascerà la Terra di Mezzo sulla nave diretta alle Terre Imperiture, Frodo la intravedrà davvero, descrivendola con le identiche parole del suo sogno. Lo aspetta un soggiorno di pace e riposo. Oltre il dolore, le ferite e la morte, c’è qualcosa di luminoso. E poi, chissà? un verde paesaggio di là dai cerchi del mondo…
Nelle versioni iniziali del legendarium tolkieniano, ancora nell’ambito della cornice narrativa che l’autore cercava di costruire per mediare l’accesso a quei remoti racconti, rintracciamo le prime occorrenze di un legame essenziale con la Terra del Sogno: siamo addirittura al principio dei principi, nel testo intitolato La Casetta del Gioco Perduto, progettato come introduzione al Libro dei Racconti Perduti – prima versione del futuro Silmarillion che, per via delle enormi differenze nella concezione e nella struttura generale, può essere quasi considerata un’opera a sé stante. Si tratta di un manoscritto redatto in bella copia dalla moglie di Tolkien, Edith Bratt, con la data del 12 febbraio 1917; tutto il materiale di questa prima fase della mitologia risale agli anni tra il 1916-17 e il 1920 e la nascita di questo racconto introduttivo potrebbe essere contemporanea o comunque di poco posteriore alle originarie redazioni dei racconti di Beren e Lúthien, di Túrin Turambar e della Caduta di Gondolin[7]. Vi si racconta del marinaio Eriol, chiamato “figlio di Eärendel”, che giunge per ventura nella magica Isola Solitaria, venendo ospitato alla Mar Vanwa Tyaliéva, la Casetta del Gioco Perduto della città di Kortirion; qui alcuni saggi del popolo degli Gnomi[8] prendono a narrargli antiche leggende dimenticate. Prima di tutto questo, i padroni di casa Vairë e Lindo descrivono a Eriol il luogo in cui si trova. All’interno di questa suggestiva narrazione – che molto risente dei riferimenti narrativi fiabeschi e infantili della tradizione inglese con cui Tolkien era cresciuto, non ultimo il Peter Pan di J. M. Barrie – trova spazio la descrizione del meraviglioso Olórë Mallë, il Sentiero dei Sogni: una stradicciola che «conduceva, per strade fuori mano, alle case degli Uomini. […] Era un sentiero con sponde alte sovrastate da grandi siepi, oltre le quali si levavano molti alberi slanciati, dove sembrava vivesse un mormorio continuo; non di rado grosse lucciole s’insinuavano tra i suoi cigli erbosi»[9]. In un contesto notturno assolutamente affascinante, questo magico viottolo metteva in comunicazione il nostro mondo con il Regno delle Fate, Valinor, serpeggiando frusciante tra piccole luci baluginanti e le brezze lievi del crepuscolo estivo. Il sentiero dei Sogni conduceva alla Casetta del Gioco del Sonno, o Casetta dei Bambini, con i suoi fragranti giardini, dove i piccoli delle terre mortali potevano recarsi in sogno per giocare e danzare spensierati, scortati dal popolo fatato che impediva che si smarrissero: i bambini rischiavano infatti di cadere vittime dell’incantamento di quelle contrade, dimenticando le loro case e restando sospesi per sempre in un mondo sognante. Coloro che tornavano indietro dopo il risveglio, invece, serbavano l’animo pieno di meraviglia e molti dei miti e dei racconti che si narrano sulla Terra derivano dai loro ricordi e frammentarie impressioni di quei luoghi incantati. Purtroppo il Sentiero fu in seguito sbarrato, seguendo in un certo senso il destino di questa storia, che scomparve del tutto dalla mitologia di Tolkien; eppure, così come, dopo che la via venne chiusa, Lindo e Vairë edificarono la Casetta del Gioco Perduto per raccogliere intorno a loro tutti quei piccoli rimasti in Valinor e custodire e preservare le antiche storie del passato, allo stesso modo il Professore cercò sempre di salvaguardare la magia del mito e delle leggende e la connessione vitale tra il mondo reale e quello della fantasia: dato che i bambini non possono più raggiungere la Casetta del Gioco del Sonno, sono i fanciulli di Mar Vanwa Tyaliéva che, di tanto in tanto, «si aggirano tra i bimbi soli sussurrando loro al crepuscolo, là dove si sono coricati presto, alla luce dei lumini o alla fiamma delle candele»[10].
Due cose vanno comunque evidenziate: prima di tutto, che il luogo in cui i bambini giungevano attraverso Olórë Mallë stava fuori da Valinor, seppur nei suoi immediati pressi; da lì infatti i piccoli potevano udire il suono ammaliante dei flauti dei Solosimpi – i cantori delle coste – e il dolce rumore delle onde, intravedere l’argenteo brillio delle perle sulla spiaggia di Eldamar, perfino facilmente raggiungere la città degli Elfi, Kôr. Il reame del Sogno si stende vicinissimo al Paese delle Fate, lì dove con i propri sensi è possibile percepirne, seppur vagamente, fragranze forme suoni; così vicino che lo si può talvolta raggiungere e allora i suoi effetti sulla mente e sullo spirito si rivelano inaspettati, nel bene e nel male. Il secondo elemento è fondamentale, perché Olórë Mallë collega i mondi: il nostro fisico Mondo Primario con il ‘loro’ spirituale Mondo Secondario. A nessuno dei due appartiene però la Terra del Sogno, che ha quindi il sembiante di un Mondo Terzo, mediatore e mediano: un Mondo-Via che partecipa di entrambi, esistente sia in Terra che in Cielo, sia nello spirito che nel corpo. Un Mondo liminare, una Soglia. Ultimo dettaglio: nella Casetta del Gioco Perduto si dice che Eriol fosse il nome dato dalla gente dell’isola al viaggiatore terrestre giunto in Tol Eressëa e che il suo significato fosse “colui che sogna da solo”. Questo ‘figlio di Eärendel’, come l’avo agitato dalla brama del Mare, errò lungo una Via da cui fu condotto a uno strano sogno solitario. Come quei bambini antichi che in sonno percorrevano il Sentiero dei Sogni, anch’egli era destinato a tornare nella nostra Terra di Mezzo per narrare racconti di un lontano, mitico passato. Anch’egli, veleggiando per il Mare del Sogno, contribuisce a preservare le leggende di Valinor, del Mondo Secondario, riportandole a noi…
Ancora nel Libro dei Racconti Perduti, nel resoconto dell’Occultamento di Valinor, si narra che Manwë, signore dei Valar[11], chiedesse ai compagni Oromë e Lórien di realizzare due percorsi segreti per raggiungere il Reame Beato: soffriva infatti a causa della fuga dei Noldoli e degli eventi luttuosi che avevano portato al nascondimento di Valinor[12], reso ormai quasi inaccessibile, desiderando lasciare aperta qualche via di collegamento con le Terre Esterne. Dall’opera di Oromë nacque Ilweran Ponte del Cielo, l’Arcobaleno; ma la strada di Lórien era proprio Olórë Mallë, il Sentiero dei Sogni, percorribile solo da giovani cuori durante il sonno. Lórien è infatti il nome del Vala originariamente noto come Olofantur, Signore dei Sogni, in seguito chiamato Irmo, fratello del Signore della Morte, Vefántur Mandos – poi Námo. Il fatto che la mitologia tolkieniana contempli un essere divino-angelico preposto ai sogni e alle visioni segnala una volta di più l’importanza attribuita dal Professore alla dimensione onirica: Irmo – che significa Signore del Desiderio – vive nel luogo più bello di Arda, i meravigliosi giardini di Lórien, dove ogni creatura di Valinor trova pace, riposo e conforto. Lórien è popolato da numerosissimi spiriti e lo stesso Irmo, insieme al fratello Námo, è considerato il Vala degli spiriti: c’è dunque una misteriosa e sostanziale affinità tra Morte e Sogno, due regni intessuti di Invisibile. Il Signore del Sogno è un essere sfuggente, dall’influenza sottile come la sua stessa natura, forse il più indecifrabile e al contempo il più incisivo dei Valar; egli abita un palazzo di nebbia e ombre, ama il crepuscolo e la notte, dispensa non visto consigli e visioni di bellezza: una delle sue attività è appunto quella di mandare messaggi, di speranza e consolazione ma anche di ammonimento, alle genti della Terra di Mezzo. La sua voce è la voce del Sogno, veridica visione proveniente dall’Ovest. Nel Signore degli Anelli lo scorgiamo – forse – all’opera nel sogno dei due fratelli Faramir e Boromir, che spinge quest’ultimo a Rivendell per conferire con Elrond: il testo parla in maniera allusiva di una ‘voce da Occidente’ che esorta gli uomini a cercare a Imladris la Spada che fu Rotta, annunciando l’apparizione del flagello d’Isildur[13] e di un misterioso Mezzuomo.
Tramite la figura di Irmo ci accostiamo a tre Nomi di Sogno quasi dimenticati, che sono Visione, Desiderio e Speranza. Egli li porta tutti e tre, permettendo a noi lettori di riconquistare dell’onirico alcuni sensi luminosi, troppo spesso delegittimati di fronte al cinico dominio attuale di una prospettiva materialista e psicologizzante. Il primo Nome è quello principale, che comprende in sé gli altri due rinviando potentemente alla concezione antica e medievale del Sogno come Visio: le visiones non erano semplici sogni, ma vere e proprie vedute chiarificatrici che coinvolgevano i sensi e provenivano da mondi altri, scorci dell’aldilà. Da sempre nel regno spirituale Visione rappresenta un’esperienza potente, vera, trasformativa, di origine angelica o divina. Nel mondo di Tolkien le visioni giungono da personaggi dotati di grande maestà e autorevolezza[14] e mantengono forti legami con Faërie; e anche se di solito poco chiare, per non dire ambigue, sono sempre in qualche modo congiunte a Desiderio e Speranza. Lo vediamo in uno dei personaggi più intessuti dello spirito di Irmo e dei suoi tre Nomi: Olórin – “il suggeritore di sogni” – meglio noto come Gandalf. In origine un Maia[15] di Valinor, assiduo frequentatore dei giardini di Lórien, da lui apprese come guidare, consigliare e consolare tramite immagini belle e potenti e, una volta giunto nella Terra di Mezzo in qualità di inviato dei Valar, mise in atto queste virtù. Della Visione angelica Gandalf è l’incarnazione pratica: egli viaggia in lungo e in largo come un fuoco mai domo[16], esortando all’azione, alimentando fiducia e coraggio, ma anche ravvivando o riaccendendo il conforto nei cuori di coloro che devono affrontare compiti difficili; e nel duro cammino attraverso le tenebre è saggio dare uguale valore all’ardente consiglio e al sollievo rinfrancante…
Ma la Prima delle Visioni è in ultimo quella che apre la storia stessa di Arda: nella Musica degli Ainur, il resoconto della Creazione, dopo che gli spiriti angelici nati dalla mente di Ilúvatar – il Dio tolkieniano – hanno cantato i temi musicali da Lui proposti arricchendoli con personali variazioni, Eru, cioè l’Uno, mostra loro in una grande Visione di sogno l’universo originato da quella Musica; grande è la meraviglia degli Ainur quando Ilúvatar, attingendo al fuoco segreto della creazione, le dona esistenza concreta. Perché il grande Sogno del Mondo non è solo immagine: è reale, è vero!
Se quindi il Sogno rettamente inteso si apre alla verità, potrebbero suonarci strane le affermazioni di Tolkien nel suo famosissimo saggio On Fairy-Stories: qui infatti il Professore mette fiaba[17] e sogno in aperta opposizione; racconti come Alice nel Paese delle Meraviglie, a suo dire, non sono fiabe proprio perché alla fine della storia tutta la vicenda si rivela soltanto un sogno. Ma le fiabe sono vere. Se non altro, pretendono seriamente di esserlo. È qui insomma che si gioca la questione: nella nostra moderna concezione i sogni non sono altro che illusioni, desideri repressi, immagini create dalla mente durante il sonno. Sono falsi, a tutti gli effetti. Ora, non occorre negare al Sogno queste valenze: sappiamo benissimo infatti che, partecipando di entrambi i mondi, il regno onirico reca in sé elementi materiali e puramente psicologici. Non ci si sbaglia nel definire i sogni ‘manifestazione del represso’, ma nel credere che la cosa finisca qui:
Solo sogni!
Eppure, tanto le fiabe non sono soltanto storielle per bambini, quanto i sogni non sono soltanto illusioni. Se quindi proviamo a rimetterci in gioco e a ristabilire il Sogno, a redimerlo per così dire, recuperandone valenze dimenticate o ritenute superate, lo scopriremo molto più vicino alla vera Fiaba di quanto si possa immaginare. Anzi: laddove la fiaba tenta di raccontare l’incomprensibile incappare dell’uomo nelle cose del Reame Fatato, il Sogno vero e proprio ci trascina lì dentro, tutti interi! Allora la più fondamentale aspirazione del fairy-tale – che è quella all’incantesimo di farsi reale – verrebbe a corrispondere con la segreta, autentica sostanza del Sogno; solo a patto però di considerarlo sotto una luce ben diversa, come Tolkien ha fatto lungo tutta la sua ‘cerca’ letteraria. Così Fiaba e Sogno possono giungere a toccarsi.
Come Visione l’uno, come Racconto l’altra. Quel che le Fate ci mostrano, quel che vediamo del loro Paese, ci è permesso narrarlo.
Smettiamo dunque i nostri abiti di scetticismo: la Via per Faërie, Mondo Altro, Terra di là dal Mare, non è per ingenui ed eterni fanciulli; non è la comoda fuga da una fredda e spietata realtà. È molto di più e molto di meno. Lì troveremo pace e consolazione e visioni di commovente indescrivibile bellezza; ma potremo pure incontrare terrore e incubi informi, o cader preda di un fascino ammaliante e rischioso; ed è perfino possibile che scoveremo strane cose indefinibili, come il coraggio la sofferenza le decisioni, la libertà il destino e perché no? la Parola più triste e più bella: Estel.
Verde e rugiadosa Speranza.
[1] L’esigenza di questa cornice di mediazione era particolarmente sentita da Tolkien anche per la sua opera incompiuta, nota come Silmarillion: fu uno dei motivi che ne ritardò e infine impedì la realizzazione definitiva.
[2] Crifosso nella vecchia traduzione Alliata/Principe, Criconca nella nuova a cura di Ottavio Fatica. Userò la nomenclatura in lingua originale per evitare inutili fraintendimenti. Per i nomi dei capitoli mi rifarò all’edizione più recente: J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli (The Lord of the Rings, 1966), trad. a cura di Ottavio Fatica, Bompiani, Milano-Firenze 2020.
[3] La Compagnia dell’Anello, Libro I, Cap. 5: “Una congiura smascherata”.
[4] J.R.R. Tolkien, Le avventure di Tom Bombadil (The Adventures of Tom Bombadil, 1961), trad. a cura di Isabella Murro, Bompiani, Milano 2019, p. 11 (Prefazione dell’autore).
[5] Il Ritorno del Re, Libro VI, Cap. 7, “Sulla via di casa”.
[6] La Compagnia dell’Anello, Libro I, Cap. 7, “Nella casa di Tom Bombadil”.
[7] I cosiddetti ‘Grandi Racconti’ di quella che in seguito diventerà la Prima Era di Arda.
[8] Nome che nulla ha a che fare con i piccoli nanetti del folklore, ma che intende restituire il senso della parola greca γνώμη – conoscenza – per indicare un popolo capace e sapiente: quelli che in seguito verranno chiamati Noldoli e Noldor.
[9] J.R.R. Tolkien, Racconti Ritrovati (The Book of Lost Tales – Part I, 1983), trad. a cura di Cinzia Pieruccini, Bompiani, Milano 2013, p. 35.
[10] Ivi, p. 37.
[11] Le creature angeliche che sono venute ad abitare sulla Terra di Mezzo per governarla e custodirla, dimorando in Valinor.
[12] Il Vala corrotto Melko aveva distrutto i due Alberi di Valinor gettando le Terre Immortali nell’oscurità e rubato i Silmaril di Fëanor: sono gli eventi fondanti della mitologia del futuro Silmarillion.
[13] L’Unico Anello.
[14] Come per esempio il misterioso Tom Bombadil: si vedano i capitoli “Nella casa di Tom Bombadil” e “Nebbia sui Poggitumuli” ne La Compagnia dell’Anello.
[15] Spirito minore rispetto ai Valar.
[16] Non per caso al suo arrivo nella Terra di Mezzo Olórin riceve Narya, l’Anello di Fuoco: uno dei Tre Grandi Anelli degli Elfi, che incarna il potere di incoraggiare e infondere Speranza. Il legame tra Gandalf e il fuoco si rivela in molti punti del Signore degli Anelli.
[17] Il termine italiano ‘fiaba’ non è per nulla adeguato al suo corrispettivo inglese ‘fairy-story’, essendo una mera contrazione di ‘fabula’ – racconto. La vera specificità della fiaba sta proprio nell’essere una storia a proposito di Faërie e dei fairies: una storia di fate appunto. Fairy e fata, che nel tempo hanno subito una deprimente riduzione di significato, rimandano a una doppia etimologia, francese e latina: dal francese ‘faie-rie’, condizione in cui ci si ritrova incantati; dal latino ‘fatum’, fato. Nell’antichità Fatae era un altro nome delle Parche o Moire, le potenti divinità del Destino. Come spesso accade, l’origine etimologica delle parole ne rivela la nascosta nobiltà. Lo stesso avviene a proposito del Sogno, se si richiamano i suoi significati antichi e medievali di vera visione, profezia, messaggio dagli dei.