di Mattia Spanò
- 1. La scrittura umana tra (in)visibile e (in)dicibile
[…] scrittura che è il corpo di tutti i suoi saperi e che è insieme problema generale a sé stessa […][1].
Carlo Sini
Parlare, partiamo da qui. O sarebbe meglio dire scrivere, visto che ciò con cui il lettore – al quale va la mia più sentita gratitudine per interesse e pazienza – si sta confrontando è, appunto, un testo scritto. Parola e scrittura: e già ci si affaccia su un inatteso, quanto problematico, squarcio abissale. Stando ad Heidegger, infatti:
L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. […] Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm von Humboldt. Resta però da riflettere che cosa significhi: l’uomo[2].
Da questa prospettiva, un sentiero – tra gli innumerevoli squadernati – può essere, intanto, intrapreso a partire da un segnavia: l’uomo non può approcciarsi ad un testo scritto se non in una modalità che potremmo definire linguistica. Il concetto, arduo quanto possa apparire, si mostra – in realtà – molto più frequentemente di quanto possa sembrare a primo acchito: come si potrebbe, dal punto di vista dell’umano che dialoga, parlare senza parole? E – ancora – parafrasando Heidegger, leggere, ascoltare, addirittura pensare senza parole? Il lettore che, al momento, si sta interrogando sulle questioni proposte nel presente testo scritto, non può che farlo linguisticamente: certo, potrebbe sempre chiedersi quale sia la differenza tra processi interpretativi linguistici e non linguistici, ma si tratterebbe – anche in questo caso – di un domandare a parole che altre parole richiederebbe: «tutta la cultura è di fatto una cultura parlata, che non può mai fare a meno del linguaggio. E così la visibilità della quale godiamo e di cui siamo capaci è governata dalla dicibilità che ci rappresenta: questa dicibilità la applichiamo a tutto e dappertutto», ma «il nostro stesso tratto espressivo è un dire che dice e disdice» e «dobbiamo farci carico di questa ambiguità»[3].
Facendo ordine, dunque: se da un lato è vero che l’intera cultura umana si fonda sul linguaggio è altresì vero, dall’altro lato, che questo tratto espressivo rimanga comunque ambiguo. In altri termini: dietro le parole (ciò che si nomina) non vi sono le cose (ciò che è nominato); ma, al contempo, è pur innegabile che dalle parole l’uomo deve, ineludibilmente, partire in qualsivoglia indagine intenda intraprendere.
In questo senso, probabilmente, Heidegger prima afferma che l’uomo sia tale in quanto dotato di parola – restituendo l’illusione di aver fornito una definizione esaustiva dello stesso – per poi, successivamente, rimodulare i contorni della questione tornando sull’interrogativo: che cos’è l’uomo? Molti aspetti delle questioni finora solo accennate meriterebbero un ben più ampio spazio che non possono trovare in questa sede. Basti, intanto – ai nostri scopi – concludere mobilmente questa prima soglia di riflessione con quanto suggerisce Carlo Sini:
Non si tratta, come spesso capita di fraintendere, di una duplicità fra la parola e la realtà (dove «realtà» è a sua volta una parola). Questo non significa evidentemente che esistano solo le parole e fuori di esse nulla, ma non significa neppure che la realtà sia fatta di due parti estrinsecamente contrapposte: da un lato le cose «reali» e dall’altro i segni delle parole. La parola è il mondo della analogia, ovvero della ripetizione. Nell’esercizio dei suoi significati si dispiega l’evento della sua duplicazione: letteralmente l’evento del mondo in parola; soglia che sempre di nuovo si rinnova e che riapre la sfida della sapienza[4].
Sulla scorta di quanto finora sostenuto, emerge allora un interrogativo di fondamentale importanza: che parlare/ascoltare e scrivere/leggere siano, dunque, modi diversi di intendere la stessa, identica, operazione linguistica? Un’altra soglia prospettico-orientativa, proseguendo sulla trama teoretica cucita da Carlo Sini, funge da segnavia del discorso che si sta affrontando:
La parola orale, infatti, è sempre interna a una situazione concreta di vita e di espressione e sfuma col venir meno di essa (verba volant). Solo la scrittura opera propriamente il raddoppio segnico: essa assume una porzione di mondo come supporto delle sue incisioni e delle sue tracce. Questi oggetti divengono allora luoghi di rappresentazione, cioè copie e simulacri della parola parlata agìta nel mondo: figure del mondo «in miniatura»[5].
Due concetti-scenario[6] fondamentali emergono da quanto mostra il filosofo italiano: la nozione di supporto e la concreta situazione di vita entro cui emerge la parola. Ma qui occorre aggiungere che, sebbene con la scrittura si assista ad un ulteriore raddoppio segnico (dalla vita agita che si fa saputa nella parola, si approda all’incisione e fissazione su un ulteriore supporto segnico di quanto assunto e frequentato oralmente), anche il linguaggio altro non è che un supporto, «l’artefatto fondamentale»[7].
Non si tratta, però, di un medium che opera al di là della vita vissuta, in guisa di un terzo occhio che interpreta il mondo in cui è gettato al di fuori dello stesso, bensì di una pratica – orale o scritta che sia – interna all’ambiente in cui opera; in altri termini, situata in un complesso intreccio di pratiche dal quale emerge e che concorre, asintoticamente e ininterrottamente, a ri-configurare.
Se il mondo è appreso ed elaborato dall’uomo in un sapere linguistico che abbiamo definito – con Simone Belvedere – l’artefatto fondamentale, è questo stesso supporto parlato, entro cui accade ogni gesto ermeneutico, a fornire i modelli d’interpretazione del reale; in altri termini, in una parola che, umanamente – si è già visto con Carlo Sini – dice e disdice, perché il mondo – l’esistente puro e semplice di Spinoza o la zoè della Grecia antica –, nel frattempo, procede oltre le parole, al di là del testo. Occorre, allora, che ci si rivolga al supporto entro il quale l’uomo, frammento di mondo, assume un mondo che procede, comunque, oltre il supporto.
- 2. Di supporto in supporto
Abbiamo così uno scorrimento infinito di supporti empirici in una continua metamorfosi di senso, innescata e motivata dagli esiti degli intrecci profondi di pratiche di vita, a loro volta modificate dal risultato delle «scritture» via via poste in essere[8].
Carlo Sini
Insomma, non siamo specializzati in niente, a meno che non sia proprio questa una specializzazione di livello differente, che non riguarda il corpo ma ciò che esso è capace di produrre esternamente: le tecnologie. La scarsa specializzazione anatomica che presentiamo è in realtà contrappesata dalla capacità tecnica, che non va considerata come un fenomeno marginale, bensì la chiave di lettura dell’evoluzione della nostra specie[9].
Francesco Parisi
Da quanto finora riattraversato emergono due fatti di fondamentale importanza: in primo luogo, ogni strumento che l’uomo utilizza non può essere considerato neutro; al variare del supporto, mutano le modalità di pensiero e di azione dell’uomo; nell’alveo di una civiltà già ampiamente linguistica e simbolica – ad esempio – vi è da considerare come l’affermarsi empirico di un supporto materiale a scapito di un altro si configura come un elemento trasformativo anche e soprattutto nei confronti di chi questi strumenti li utilizza: processo in cammino almeno dall’introduzione della scrittura fonetica – soglia dinamica collocabile intorno al 770 a.C. ma da intendere come fase mobile e continua di un flusso ininterrottamente in transizione[10] – che conduce ai più recenti, e parimenti sempre in cammino, supporti prodotti dalla ricerca tecnologica. Basti pensare agli strumenti digitali[11] o dotati di intelligenza artificiale[12], di fronte ai quali si fa sempre più necessaria una riflessione genealogico-prospettica, piuttosto che fermarsi a quelle, seppur fondamentali, osservazioni d’ordine psicologico-sociale che sorgono di fronte al prodotto finito[13]. Occorre, in altri termini, soffermarsi sul più ampio contesto in cui si incardina ogni gesto d’ordine prometeico, istantanea mobile dell’incontro-scontro tra tecnica e necessità che si svolge in un, di volta in volta attuale, mondo-ambiente. Consci del fatto che «il mondo dell’uomo, ormai, viene a coincidere con l’intero mondo, lanciato in un processo di antropizzazione senza posa»[14], solo abitando la complessità dell’attuale significato profondo del nostro esserci (di uomo progettante e gettato in mondi-ambiente perlopiù artificiali) è possibile ricucire l’evidente strappo di un dislivello prometeico che si rinnova ogni giorno. In accordo a ciò, prima di continuare la sosta su ciò che Simone Belvedere ha definito l’attuale condizione umana – sottotitolo del già citato saggio è, infatti, L’anima di Prometeo in un mondo in macchine –, occorre, allora, inquadrare il più recente (e sempre in cammino) stato di cose tecnico-tecnologico nel più ampio processo di lungo corso di cui è figura in transito.
Si è visto in che senso si intende che la parola orale sia un supporto, analogo ma diverso rispetto alla parola scritta. Si è, poi, solo accennato al fatto che non vi sia una coincidenza esatta tra parole e cose ma che, al contempo, ciò non vuol dire che parole e cose siano da considerare universi irrelati. Se la parola è il supporto principe – l’artefatto fondamentale – attraverso cui il mondo si dà all’uomo o l’uomo comprende il mondo, allora si potrebbe parlare di cose in parole, piuttosto che di parole e cose. Nondimeno, occorre ricordare che i supporti attraverso i quali interpretiamo il mondo, siano già-mondo; in altri termini, pezzi di mondo – come piega dell’intero è l’uomo stesso – sui quali è rappresentato un esistente puro e semplice che li precede e oltrepassa (e, dunque, fonda). Ecco che, allora, ammesso che si possa impiegare l’espressione cose in parole, ci si può approcciare sotto un’altra luce ai due nuclei tematici – già accennati – di supporto e concreta situazione di vita entro cui emerge la parola:
Dietro la semplice parola slittano, per così dire, pratiche e tradizioni innumerevoli, sicché, a guardare la cosa “veracemente”, non c’è la cosa […]; c’è questa metamorfosi continua di riferimenti. Già ho osservato che, certo, in ogni indagine è dalle parole che dobbiamo partire, non però alla ricerca superstiziosa che si proponesse di trovare la cosa esattamente corrispondente alla parola. Si tratta piuttosto di rianimare nella parola e attraverso la parola le pratiche di vita, di esperienza e di espressione che l’hanno via via prodotta e attraversata, modificandone, arricchendone, impoverendone il senso[15].
Bisogna compiere un ulteriore passo: se da un lato, come suggerito da Carlo Sini, nella parola accade una metamorfosi continua di riferimenti e comunicare linguisticamente significa rianimare le pratiche di vita che hanno prodotto, attraversato e modificato le parole, dall’altro le stesse parole – che, non si dimentichi, abbiamo assunto come supporti – producono, attraversano e modificano il contesto dal quale sono prodotte, attraversate e modificate. In questa cornice, allora, emerge un’ulteriore questione abissale (che sarà, poi, ripresa nel terzo paragrafo): anche l’ambiente-mondo si configura, asintoticamente e ininterrottamente, come un supporto. Per dirla con le parole del geografo J. Nicholas Entrikin: «Il luogo si presenta a noi come condizione dell’esperienza umana. Da agenti nel mondo siamo sempre “nel luogo”, così come siamo sempre “nella cultura”. Per questa ragione, il nostro rapporto con il luogo e la cultura diventano elementi di costruzione della nostra identità individuale e collettiva»[16]. A questo punto occorre, dunque, chiedersi: sono le parole a dipendere dall’ambiente o, viceversa, è l’ambiente a dipendere dalle parole? In altri termini: qual è l’essenza del supporto?
Il reale supporto è quell’intreccio di pratiche di vita, di parola e di scrittura che sono costantemente all’opera nelle comunità umane. È questo intreccio di pratiche […] la natura prima delle cose, di cui anche il soggetto umano, preso nelle sue prassi, è interamente fatto e prodotto. È nell’invisibile intreccio del vivere collettivo e personale che si inscrivono e si esibiscono gli avvenimenti visibili, esprimibili, riproducibili, significabili, comunicabili, in generale pensabili[17].
Ecco, dunque, che la concezione di supporto si arricchisce e, di conseguenza, anche la nozione di medium. Concetti che l’uomo frequenta linguisticamente ma che non si riducono, al di là dell’uomo, a una questione meramente linguistica. Complesso intreccio di pratiche che forma e ri-forma anche il soggetto umano, essere progettante gettato in un intero composto da altre specie viventi e da materia non biologica (punto fondamentale, sul quale si tornerà a breve). Questo significa che i supporti sempre in cammino delle comunità umane sono da inquadrare in un tempo profondo (Tiefenzeit) del quale anche l’uomo è figura in transito. Quell’uomo-scimmia che Stanley Kubrick mostra in uno dei più celebri frame della pellicola 2001: Odissea nello spazio, intento ad impiegare il primo osso-bastone in quanto prolungamento del proprio corpo, protesi, estensione della propria mente nel mondo di cui è parte. Ed ecco che il supporto, corpo che si presume morto dell’osso-bastone, ritorna sull’uomo-scimmia restituendogli una rinnovata modalità di intendere il mondo e modificando – perciò – tanto l’uomo stesso quanto il mondo-ambiente circostante. Un pezzo di mondo diventa strumento nell’ancora-e-sempre rinnovata consapevolezza del farsi resto sociale e, dunque, lavoro umano. Mondo saputo e, ancora, frequentato oralmente e, poi, trascritto.
Ma di trascrizione in trascrizione, qualunque supporto restituisce contestualmente possibilità, limiti e rischi. Dall’osso-bastone ai cellulari, ogni strumento apre nuove possibilità, reca in sé limiti d’impiego e conduce a rischi, non di rado esiziali. Ecco all’opera il dispositivo prometeico, mai sopito e sempre cavalcante – talora manifesto, talaltra silenzioso – nella meravigliosa e terribile vicenda umana: «Un’instancabile ambizione, la brama di migliorare il proprio posto nell’ordine della natura e una ferrea autodisciplina sono requisiti indispensabili per superare la transizione»[18] ed approdare – si potrebbe aggiungere – in un’ulteriore figura di transizione. Ecco che, dunque, rimanendo sul tema del posto dell’uomo nel mondo, Salvatore Natoli osserva: «[…] nella storia evolutiva dell’umanità, a fronte dei problemi risolti, sempre di nuovi ne sono nati: altro che progresso, siamo sempre in arretrato», per cui «per vivere bene è necessario reperire, in ogni tempo, la sua giusta misura»[19].
Osservazioni, queste, che riecheggiano con particolare fragore nell’epoca in cui l’anima di Prometeo si aggira in un mondo di macchine. O, in altri termini, nell’Antropocene, termine che, assunto o meno che sia in via ufficiale dal punto di vista strettamente scientifico sul piano della scansione geologica[20], «designa […] una fase di massima espansione del dominio dell’uomo sulla terra, ma anche le sue controfinalità, i suoi effetti devastanti. Di qui la sua doppia faccia, il suo profilo ambiguo»[21].
Proprio in ragione di ciò, il concetto-scenario di Antropocene ha reso sommamente evidente il fatto che «i media non solo abitano il pianeta ma lo modificano profondamente, intervenendo sul biota ma anche sulla costituzione geologica della terra»[22]. Da questo punto di vista, è importante marcare ulteriormente il termine medium che, nel corso del presente scritto, ricorre avvicendandosi sinonimicamente con termini come strumento, supporto, dispositivo. È in un senso non distante a quello che Michel Foucault ha attribuito al termine-concetto prassico dispositivo che ci si riferisce ai media: un insieme eterogeneo di elementi, un intreccio di pratiche umane e non-umane, di viventi e non viventi e la rete che va, ininterrottamente, componendosi e ri-componendosi tra essi. Ma, occorre ancora aggiungere, i media emergono e si avvicendano – relazionandosi – nel più ampio ecosistema del pianeta. Un ulteriore tassello vi è, allora, da puntellare sulla questione che si sta attraversando: se l’ambiente offre opportunità mediali-strumentali, anche i supporti fungono da ambienti, così come questi ultimi sono da considerare, in ultima analisi, media. Dalla prima forma di mediazione, quale il corpo di ogni singolo individuo[23] – circostanza di mondo che co-emerge e si co-evolve con i suoi strumenti in un complesso intreccio di pratiche – al mondo-ambiente, non dimentichi del fatto che
[…] nessuno degli umani ha esperienza della Terra come tale, bensì delle sue articolazioni, nelle quali ciascuno è avviluppato da sempre e nei confronti delle quali, ognuna in misura diversa a seconda delle proprie condizioni biografiche e del contesto storico, intrattiene un rapporto ambivalente, di appartenenza e distanza, di desiderio e di paura, di abbraccio e di rifiuto[24].
Spostando l’asse sulla soglia d’incrocio di diversi tracciati disciplinari – il paradigma eco-evo-devo – ogni soggetto umano si configura come l’istantanea mobile dell’intreccio in cammino di almeno tre coordinate di fondo: ontogenesi, filogenesi e, appunto, ambiente[25]. Un intero che eccede e ricomprende ogni singolo che ne è parte ma che, al contempo, ne è modificato dall’interazione più o meno profonda con lo stesso. Ma – si badi bene – un intero che l’uomo, in quanto tale, non può che apprendere, sempre e comunque, dal punto di vista umano, la cui – di volta in volta – attuale parzialità ne è al contempo limite e carburante. Ritornando, allora, sui supporti e sulla scrittura di mondo tipicamente antropica, occorre volgersi sul più ampio contesto – umano e non umano – entro il quale ogni organismo è gettato. Che, sulla base di quanto finora riattraversato, potrebbe essere definito – con Michele Cometa – la nicchia ecomediale.
- 3. La nicchia ecomediale tra geo-grafia e scienze cognitive
Al cuore della teoria della costruzione di nicchia vi è l’idea che gli organismi modificano attivamente il proprio ambiente (e l’ambiente degli “altri”) e questo ha poi conseguenze sulle pressioni selettive che tali ambienti esercitano sugli organismi stessi e in particolari sui loro discendenti tanto che, appunto, si può parlare di “eredità ecologica”. Questo significa che l’ereditarietà genetica viene integrata da forme di ereditarietà extragenetica. Ora è di tutta evidenza che gli umani sono potentissimi costruttori di nicchia e tutti gli ambienti che hanno contribuito a modificare e a popolare di oggetti hanno contribuito a modificare e a popolare di oggetti hanno finito per innescare un feedback che li ha costantemente modificati[26].
Michele Cometa
Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi uccello, il signor Palomar. «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, – conclude. – ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile.»[27].
Italo Calvino
Corpo-mente, uomo-ambiente, natura-cultura: temi antichi che, nel corso del tempo, sono andati incontro ad un profondo ripensamento in termini relazionali e co-costitutivi piuttosto che stabili e dualistici. Orizzonti teoretico-prassici mai sopiti che oggi, in una temperie antropocenica trapunta di macchine, riemergono con icastica nettezza. Il fatto che l’interrogarsi su ognuno di questi concetti-scenario ritorni sull’uomo, testimonia il cammino mai-del-tutto-esauribile della ricerca umana: la stessa nozione di uomo, che sia agita o saputa, muta al mutare degli strumenti e degli ambienti di riferimento. E questa riflessione, beninteso, si estende anche sul resto dei – potenzialmente indefiniti – versi che può assumere: l’uomo si costruisce in relazione ai suoi supporti che si definiscono, a loro volta, in relazione all’uomo; il che, inevitabilmente, causa una mutazione complessiva del quadro complessivo in cui queste costanti modificazioni accadono anche e soprattutto sulla base delle stesse pressioni e occasioni di un ambiente che incontra determinati corpi (più o meno dotati di preventiva disponibilità agli input) in determinati tempi. Ecco che, allora, la definizione dell’uomo – così come di ogni altro concetto-scenario che maneggiamo – è un cammino che si articola in un complesso intreccio di pratiche o (e a breve si vedrà in che senso) in una nicchia ecomediale. In questo senso riluce di altri orizzonti semantici la chiusa della celebre manovra operata da Foucault nel saggio Le parole e le cose: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima»[28]. Perché l’uomo si inscrive in un inizio già iniziato che lo precede ed è di gran lunga più antico del gesto linguistico, sebbene nella bussola della parola la ricerca umana scandagli origini e avvenire. Un inizio abissale, l’esistente puro e semplice, in cui homo sapiens co-emerge e si co-evolve nella costante e asintotica relazione e ibridazione con supporti e ambienti: non una specie sorta ex nihilo ma il risultato mobile di uno dei tanti – come direbbe Telmo Pievani – accrocchi proverbiali di una selezione naturale che «non […] perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo»[29]. In questo percorso, nell’atto stesso di fissare un mondo che, nel frattempo, lo fonda ed eccede, l’uomo si ridefinisce continuamente con i suoi – di volta in volta attuali – supporti e mondi-ambiente, in un cammino bioculturale senza posa. È sulla scorta di quanto finora riattraversato, allora, che si impone un itinerario di ricerca che, innanzitutto, diriga il suo asse «dagli elementi alla relazione, all’atto del mediare, al processo […] enfatizzando la vocazione metamorfica di una teoria evolutiva dei media, ma riducendo al minimo, da un lato, le tentazioni antropomorfizzanti […] e, dall’altro, anche le derive naturalistiche […]»[30]. In altri termini, se l’uomo non è misura di tutte le cose – tanto dal punto di vista cognitivo-interpretativo quanto sul piano della prassi – è pur vero che quanto assume non può che elaborarlo dal punto di vista che gli è proprio; che, per quanto tautologico possa apparire, è appunto lo sguardo umano, «che non potrebbe mai soffocare in sé il bisogno di tradurre, di passare da un linguaggio all’altro, da figure concrete a parole astratte, da simboli astratti a esperienze concrete, di tessere e ritessere una rete di analogie. Non interpretare è impossibile, così come è impossibile trattenersi dal pensare»[31].
D’altro canto, il rischio che una teoria bioculturale dei media ci possa esporre ad un non meno integralista filtro naturalistico, è reale: intendere l’uomo come frammento dell’intero, scampolo tra gli scampoli della meravigliosa e terribile trama naturale, non significa appiattirlo tout court su un ordine naturale indifferenziato.
Il geografo francese Augustin Berque, a tal proposito, contrappone al concetto-scenario di ambiente, la nozione di ecumene, nell’intento di superare quei dualismi che restituiscono, appunto, o uomo e natura nei termini di due poli opposti da conciliare o che pretendono di fondare l’etica – appannaggio dell’universo cognitivo-semantico umano – su una natura che «senza la presenza umana» presenterebbe «solo trofismi ecologici, ma non etica»[32]. Ecco che, allora, l’introduzione del concetto di Ecumene – «la relazione dell’umanità con l’estensione terrestre»[33] – permette di intendere la terra non solo in quanto pianeta o in termini ecologici ma anche dal punto di vista di sistema ecosimbolico, così come si dà ad uno sguardo umano che è tale in quanto abita la terra (che, dal punto di vista umano, è a sua volta abitata dall’uomo). In questa cornice, la proposta del geografo francese – che sostiene con fermezza il recupero di concetti quali scala e luogo – risiede nel proporre una visione del mondo che né pretende di fondare l’etica a partire dall’etica stessa (dove la terra verrebbe dopo), né di desumerla da uno sfondo meramente ecologico (molti degli innumerevoli ecosistemi ne sono privi), ma sulla scorta di una ritrovata relazione dell’essere umano con la terra. Da questo punto di vista, allora, possiamo e forse addirittura dobbiamo «abituarci a rivedere la nostra storia come parte di una storia più grande. Il che ci indurrebbe, probabilmente, a un rispetto per quell’ininterrotta catena dell’essere di cui facciamo parte nel quadro di un’interpretazione bioculturale di ciò che abita il pianeta»[34]. La natura, per l’uomo, è sempre natura-attraverso-la-cultura (stiamo, infatti, dicendo culturalmente natura), ma ciò non significa che né esistano altre forme di cognizione e mediazione, né che l’intero possa ridursi a ciò che l’uomo è riuscito a modellizzare. Tuttavia, è in questi supporti, in questi fogli-mondo, che si svolge l’asintotica e ininterrotta scompaginazione e configurazione della complessità del reale, ed è su questi che l’uomo deve continuare a incidere nel segno della perfettibilità e nell’iterazione dell’interrogativo kantiano «che cos’è uomo?».
Tocca mettersi in cammino, nel complesso intreccio di pratiche entro il quale co-emergono e si co-evolvono soggetti, supporti e ambienti. In cammino verso l’umano.
[1] C. Sini, Al di là del testo in C. Sini, Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, Jaca Book, Milano 2013, p. 117.
[2] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 27.
[3] C. Sini, Il potere invisibile in C. Sini, Inizio, Jaca Book, Milano 2016, p. 38.
[4] C. Sini, Le ragioni del mito in C. Sini, Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., p. 50.
[5] C. Sini, Platone e la visione alfabetica in C. Sini, Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., p. 56.
[6] Sull’espressione «concetto-scenario» ci si permette di rimandare a M. Spanò, “Pensiero dell’Antropocene. Geografia cognitiva e cognizione geografica di un concetto-scenario”, in D. Chiricò (a cura di), Prospettive moniste nelle Scienze Cognitive. Esplorazioni interdisciplinari, Corisco, Roma-Messina-Madrid 2024, pp. 253-274. Sebbene il saggio in questione si articoli nel tentativo di accostarsi agli orizzonti dell’Antropocene, nell’inquadrarlo – appunto – come «concetto-scenario», il dispositivo prospettico dell’espressione anche qui impiegata possiede, a modesto parere di chi scrive, una ben più ampia gittata performativa.
[7] S. Belvedere, Mens extensa. L’anima di Prometeo in un mondo di macchine, Lekton Edizioni, Acireale 2019, p. 113.
[8] C. Sini, Al di là del testo in C. Sini, Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., p. 122.
[9] F. Parisi, La tecnologia che siamo, Codice edizioni, Torino 2019, p. 25.
[10] Su ciò cfr. I. Illich, Nella vigna del testo, a cura di A. Serra e D. Barone, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 119-120.
[11] Su ciò cfr. L. Floridi, Pensare l’infosfera, a cura di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2020; A. Baricco, The game, Einaudi, Torino 2018.
[12] Su ciò cfr. D. Borghetti, intelligentIA, Lekton edizioni, Acireale 2022; N. Cristianini, La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano, il Mulino, Bologna 2023; N. Cristianini, Machina Sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza, il Mulino, Bologna 2024.
[13] Su ciò cfr. M. Spanò, Considerazioni nell’epoca dell’IA: la tecnologia in quanto testimonianza dell’umano in Il Pequod, anno IV, n. 8, dicembre 2023, pp. 68-78.
[14] S. Belvedere, Mens extensa. L’anima di Prometeo in un mondo di macchine, cit., p. 113.
[15] C. Sini, T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, Jaca Book, Milano 2020, p. 55.
[16] J. N. Entrikin, The Betweennes of Place. Towards a Geography of Modernity, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991, p. 1 (traduzione dell’autore).
[17] C. Sini, Al di là del testo in C. Sini, Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., pp. 121-122.
[18] R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, Milano 1992, p. 24.
[19] S. Natoli, Il posto dell’uomo nel mondo. Ordine naturale, disordine umano, Feltrinelli, Milano 2022, p. 82.
[20] Su ciò cfr. M. Bedetti, V. Fano (a cura di), Le scienze e l’Antropocene, Meltemi, Milano 2023.
[21] S. Natoli, Il posto dell’uomo nel mondo. Ordine naturale, disordine umano, cit., p. 60.
[22] M. Cometa, La svolta ecomediale. La mediazione come forma di vita, Meltemi, Milano 2023, p. 18.
[23] Su ciò cfr. A.C. Dalmasso, “Il corpo come spazio espressivo. La figura del templum divinatorio in Merleau-Ponty” in Scenari, n. 19, 2023, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, pp. 139-156.
[24] P. Furia, Spaesamento. Esperienza estetico-geografica, Meltemi, Milano 2023, p. 41.
[25] Su ciò cfr. C. Sini, C.A. Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?, Jaca Book, Milano 2018.
[26] M. Cometa, La svolta ecomediale. La mediazione come forma di vita, cit., p. 20.
[27] I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano 2016, p. 51.
[28] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, a cura di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 2016, p. 413.
[29] T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 71.
[30] M. Cometa, La svolta ecomediale. La mediazione come forma di vita, cit., p. 144.
[31] I. Calvino, Palomar, cit., p. 89.
[32] A. Berque, Essere umani sulla terra. Principi di etica dell’ecumene, a cura di M. Maggioli e M. Tanca, Mimesis, Milano 2021, p. 92.
[33] Ivi, p. 91.
[34] M. Cometa, La svolta ecomediale. La mediazione come forma di vita, cit., p. 145.