Recensione a:
Alberto Vanolo
La città autistica
Einaudi, Torino 2024
Pagine 136
€ 12,00
di Mattia Spanò
Sembra che i più recenti studi condotti nell’alveo dell’epigenetica stiano gradualmente avvicinandosi a quanto, tra gli stridenti cigolii delle fabbriche, Karl Marx e Friedrich Engels avevano, con i loro strumenti e modi, già tematizzato. Sebbene si tratti di ricerche ancora in cammino (come potrebbe essere altrimenti?), occorre riferirsi sinteticamente a ciò a cui si allude: l’inestricabile relazione che intercorre tra gli esseri viventi e il loro ambiente. Più precisamente, nel caso dell’umano, l’irrevocabile co-emersione, co-implicazione e co-evoluzione di soggetti e contesti: stando agli studi riportati in apertura, infatti, sembra che la dimensione sociale, letteralmente, si incarni nel soggetto biologico. Il che significa, perlomeno, dover assumere seriamente le implicazioni a cui questo scenario rimanda: la multifattoriale, multi-scalare e metamorfica specificità di ogni contesto non è affatto un elemento trascurabile nella costruzione di qualsivoglia discorso soggettivo; sia che con «discorso soggettivo» si intenda il discorso del soggetto, sia che con l’espressione ci si riferisca al discorso sul soggetto.
In altri termini, ragionare sulla trama costitutivamente relazionale dell’esistenza umana – che non può che darsi nella circostanza corporea che ognuno di noi è – invita almeno alla problematizzazione di qualunque approccio che, pretendendosi essenzialista, proceda sul manto di presunte cose in sé, presupponendo che esistano parole-cose dall’immodificabile e predefinita sostanza. Al contrario: non vi è nulla che non sia, in una qualche misura, localizzato. E, per quanto banale possa apparire sottolinearlo, il posizionamento non si imprime su uno sfondo immobile e impassibile ma accade in (e con) un dispiegarsi spazio-temporale che, mai uguale a sé stesso, partecipa del poli-scalare movimento della vicenda umana-e-terrestre.
Rifacendomi al mio attuale contesto: nel tentativo di accostarmi allo spirito di quanto Alberto Vanolo ha affrescato nel saggio La città autistica, il mio discorso ha preso le mosse – chissà perché[1] – dal modo in cui una branca della biologia sta peculiarmente rielaborando, con i suoi strumenti e discorsi, la reciproca influenza tra assetto sociale e dimensione biologica; operazione da un lato confinante con alcuni degli snodi cruciali dell’opera di Vanolo; dall’altro impensabile – in questi termini – fino a qualche secolo fa e, probabilmente, ancora oggi al variare di longitudine e latitudine. Difficilmente i già citati Marx ed Engels avrebbero potuto assumere questo mutevole punto di vista, pur riferendosi a qualcosa di simile, perché cinti da discorsi, linguaggi, vicende, scenari, strumenti, lavori diversi. Impossibile, a quell’epoca, sarebbe stato anche scrivere un saggio come La città autistica, dato che il termine è stato «originariamente coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuer nel 1911 per descrivere le strutture di pensiero autocentrate nelle personalità schizofreniche» (p. 5). Una visione dell’autismo – quella degli “albori” – abissalmente distante dall’attuale, poiché costruita da (e con) saperi, strumenti ed ambienti parimenti remoti. Anche la condizione urbana, che un geografo[2] come Vanolo definisce «il nostro ecosistema» (p. XIV), ha assunto una dimensione «globale» (p. XV) che in altri tempi e luoghi sarebbe stata difficile anche solo da concepire. Scenario che non può essere eluso se – continua l’autore – non solo i più recenti «movimenti politici e sociali hanno una forte matrice urbana» (p. 50), ma anche e soprattutto perché l’orizzonte urbano si scompagina come uno spazio, ad un tempo, fisico-simbolico e politico-performativo, da assumere non «solamente in termini geometrici e materiali, ma anche appunto come assemblaggio di relazioni, traiettorie, situazioni, contesti» (p. 82).
E ancora: al di là del concetto “generale” di città o di autismo che si possa impiegare, qualsivoglia soggetto accusi la necessità di rivolgersi a simili tematiche – come ad altre – deve necessariamente scendere a patti con il fatto che qualsiasi pratica verbale e/o categorizzazione sia inscindibilmente connessa alle (di volta in volta) attuali pratiche di vita. Finanche i dati, dai quali dipende il prezioso quanto parziale studio statistico dei fenomeni umani, non possono essere considerati neutri: «è semplicistico pensare che i dati siano elementi passivi, raccolti attraverso le capacità razionali di chi osserva, e che essi riflettano perfettamente una presunta realtà esterna. I dati operano e dispiegano i propri effetti all’interno e all’esterno delle pratiche di osservazione, contribuendo a costruire le categorie stesse» (p. 18).
Assumere questa postura non significa affatto sminuire la decisività dei significati di cui, giocoforza, l’esistenza umana è intrisa, avendo l’uomo – per dirla alla Augustin Berque – un rapporto irrevocabilmente eco-simbolico con il mondo. Ma, al contrario, si dà nella necessità di riconsiderare la consistenza di ciò che si fa, di mettere in scala la complessità dell’esistenza e, al contempo, mettersi in scala, consci del fatto che qualunque gesto di categorizzazione del reale non può che accadere in un contesto già in cammino.
L’esempio incarnato di quest’attitudine risiede nel fatto che l’attuale modo di intendere e “trattare” l’autismo, è sicuramente più “confinante” al “reale” delle precedenti modalità d’approccio, ma non per questo univoco e de-finitivo. Vanolo lo premette: «Non sono un medico»; e riconosce, subito, che il «punto di vista medico» sia «di fondamentale importanza». Mette, però, subito in guardia da alcuni pericoli: «l’autismo è un oggetto di cui si sa relativamente poco», un campo di ricerca «ancora in evoluzione» (p. XI); e a questi passi introduttivi segue, infatti, una ricostruzione storico-critica dell’avvicendarsi dei suoi quadri interpretativi (pp. 3-26); ma, nell’estendersi dal e oltre il raggio visivo dello sguardo strettamente medico, aggiunge ancora: «Rappresentazioni mediche, diagnosi e trattamenti non prendono forma in maniera indipendente dalla società, dalle pratiche culturali o dalle ideologie dominanti» (pp. XI-XII). Nel caso dell’autismo, diverse sono le tecniche ad oggi impiegate in termini di «interventi riabilitativi», spesso – ma non sempre – proficue; a queste Vanolo affianca un territorio di opportunità che può discendere tanto dall’applicazione di terapie differenti quanto dall’esperienza dei singoli caregiver; il senso della proposta, che arricchisce la mera «riabilitazione» con forme di «attività» (p. 65) maggiormente coinvolgenti, risiede nel tentativo di agire nel rispetto delle diverse «individualità in gioco» (p. 8). Tra queste Vanolo – lui stesso caregiver – menziona le «esplorazioni psicogeografiche o passeggiate situazioniste» (p. 27), giocose quanto interessanti modalità di attraversamento dello spazio urbano svolte nel segno di contingenza e casualità; si tratta di esperienze tematizzate e praticate da Guy Debord già intorno agli anni Cinquanta del Novecento, al fine di «decostruire e porre in tensione le prospettive della vita urbana» (ibidem). Attività che, in piena linea con la psicogeografia, permette altresì di insistere «con serietà su questioni di metodo, possibilità e produzione di conoscenza» (p. 28). Su questa scia, «lo spazio urbano può essere immaginato come un immenso contenitore di occasioni di apprendimento. Qualsiasi momento di incontro e lavoro comune con altre persone, a prescindere dal loro bagaglio di esperienza e sapere esperto sull’autismo, aggiunge un tassello importante per una persona neurodivergente» (p. 66).
Evidenziare, dunque, i limiti di visioni e strategie articolantesi su pacchetti precompilati ed assumere, di conseguenza, l’autismo nel perimetro “essenzialista” della patologia dipendente solo ed esclusivamente dallo stato di un corpo, non significa dequalificare il fondamentale contributo degli addetti ai lavori sulla questione ma, al contrario, prendere le distanze tanto dagli approcci tendenzialmente scientisti quanto da quelle prospettive che tendono a obnubilare il profondo ed irrevocabile influsso della dimensione sociale e culturale sull’esistenza dei singoli individui[3].
Se qualsiasi “problema” è confinato nel perimetro dei singoli corpi, è forte il rischio di dimenticare che ogni «condizione» e «poter fare» soggettivi non possano che dipendere – in considerevole misura – dal contesto fisico, ambientale, sociale, politico, economico di riferimento: «I corpi sono capaci di azioni nella misura in cui entrano in relazione con altri corpi, umani e non-umani, e con questi ultimi si intendono oggetti, tecnologie, edifici o mezzi di trasporto»; e se «le possibilità di azione sono il risultato di assemblaggi di relazioni e collaborazioni, spesso parziali e transitorie (pp. 89-90) anche «le identità non precedono le persone: sono costantemente negoziate, contestate, accettate, rifiutate, dichiarate o nascoste nell’ambito di relazioni sociali che si sviluppano quotidianamente» (pp. 52-53).
Ecco, dunque, che «la condizione di disabilità» non è solo definita «dai limiti dei nostri corpi o delle nostre menti rispetto a una condizione considerata statisticamente normale» (p. 12), né si tratta di «negarne la dimensione medica, o di occultare sofferenze, dolore, difficoltà e limiti»; ma «di mettere in discussione l’idea stessa della categoria, sottolineandone altre dimensioni, erodendone i margini, enfatizzandone la fluidità» (p. 15).
Sulla scorta di ciò: in che termini si può parlare, indiscriminatamente, di «autismo» per riferirsi ad una “categoria” unitaria, quando «lo spettro autistico comprende […] un gran numero di situazioni peculiari?» (p. 31); differenze, non di rado abissali, che intercorrono non solo tra soggetti neurodivergenti[4] ma, portando il discorso alle estreme conseguenze, anche tra neurotipici: «Mi piace immaginare che ogni corpo abbia un modo peculiare di percepire ed elaborare gli stimoli e di muoversi nel mondo, al di là delle categorie neurologiche. […] Per assimilare l’idea di neurodiversità si può forse partire dal riconoscere che la differenza neurologica è comunque una condizione universale» (p. 98).
Accogliamo, in questa sede, la provocazione di Vanolo a riferirsi alla neurodiversità come un tratto che caratterizza ogni essere umano e non solo i soggetti considerati patologicamente neurodivergenti; in effetti, la considerazione ben si accorda con quanto – nell’ambito delle Scienze Cognitive – viene discusso, con particolare incisività, almeno dalla pubblicazione dell’opera Cosa si prova ad essere un pipistrello? In questo breve saggio – articolo scientifico diventato, in breve tempo, bestseller a diffusione planetaria – Thomas Nagel evidenzia come l’accesso cognitivo all’altro da sé non si arresti sul piano interspecifico ma abbia una pregnanza anche a livello intra-specifico. In altri termini: se l’essere umano può effettivamente comprendere cosa voglia dire sentirsi un pipistrello solo ed esclusivamente dal punto di vista umano, allo stesso modo ogni uomo può accostarsi al significato di essere un altro uomo sempre e comunque dalla propria prospettiva. In tal senso, in effetti, arriva forte e chiaro il messaggio di Vanolo: in una certa misura, ognuno di noi rispetto all’altro – pur nel terreno della dotazione di struttura e funzionamento cognitivo-percettivo statisticamente “dominante” (neurotipicità) – può essere considerato neurodivergente.
Prima, seppur mobile, conclusione: «Per assimilare l’idea di neurodiversità si può forse partire dal riconoscere che la differenza neurologica è comunque una condizione universale: una città autistica deve semplicemente esplorare differenti maniere di incorporare quest’idea, aprendo il campo a possibilità di immaginare il vivere insieme distanti dalla logica comune» (p. 98). In questo senso, pur in assenza di «regole assolute», per cui «ogni soluzione va costruita in relazione alla peculiarità dei soggetti divergenti», «ci sono […] molti modi […] in cui si può mostrare sensibilità e spirito di intraprendenza per progettare ambienti maggiormente piacevoli e inclusivi» (pp. 40-41): dagli impianti di illuminazione agli spazi pubblici – aperti o chiusi che siano – transitando dalla sensibilizzazione degli attori (civili ed istituzionali) che si incontrano nei più disparati teatri della vita comunitaria. Sebbene in Italia «la sensibilità rispetto al tema dell’ergonomia e del design degli ambienti per persone neurodivergenti» è «pressoché inesistente» (p. 40), «alcune indicazioni sono fornite da studi a cavallo di discipline differenti e, in particolare, nell’intersezione fra architettura, studi sulla salute, scienze sociali e design urbano» (p. 44). Si tratta di lavori centrati sul tema della leggibilità del contesto urbano: scenario che, se nel caso «delle persone autistiche» sarebbe da inquadrare nella «necessità di limitare l’uso della parola scritta e di privilegiare […] disegni simboli ben definiti» (p. 45), riguarda tutti, nel segno della vivibilità dei contesti. In questo quadro – dove, continua Vanolo, si potrebbe anche pensare ad un impiego inclusivo delle più recenti tecnologie digitali – inizia a farsi spazio anche un ulteriore questione: se, come evidenziato dall’autore, una progettazione urbana che si imperni sulla leggibilità ha delle ricadute a cascata sull’intero corpo collettivo, «Forse […] è utile ripensare la categoria della dipendenza come una questione umana universale, riconoscendo come tutte e tutti siamo dipendenti nella nostra vita quotidiana da altre persone, da tecnologie, da oggetti, da ambienti materiali costruiti sulla base delle specificità dei nostri corpi e da mille relazioni di ogni tipo» (p. 91).
Da qui, lo straordinario ribaltamento di prospettiva d’ordine ontologico ed epistemologico: «Non si tratta affatto di negare le differenze dei corpi e delle menti, ma di accettare la natura universale della dipendenza e, di converso, attenuare l’insistenza sul mito dell’indipendenza e dell’autonomia come principi fondativi di qualsiasi strategia o politica per la disabilità» (ibidem). L’accessibilità, il welfare, la sostenibilità – qui emersi in quanto imperativi di una città giusta poiché filtrati da uno sguardo «autistico» – riguardano l’intera popolazione. Se la «città capitalista disabilita le persone che posseggono corpi e menti disallineate rispetto ad un certo standard ideale» (p. 77), una città autistica può anche assurgere al ruolo di contraltare collettivamente riabilitante: ritrovare sfere e possibilità esistenziali ed esistentive ormai solo marginali in uno scenario – quello del neoliberismo – dove la città è «comunemente rappresentata, celebrata e promossa insistendo su idee di velocità produttività e frenesia, con stimoli e possibilità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7» (p. 87). Proprio perché non è “scritto” che la maggioranza delle persone neurotipiche accolgano necessariamente con favore questo ipertrofico bombardamento sensoriale – né, d’altronde, che le persone neurodivergenti preferiscano ambienti meno frenetici – una città autistica suggerisce il ritorno su luoghi ormai sopiti, ma non meno vitali: contemplazione, silenzio, intensità, riposo e, provocatoriamente, anche «noia», che i «prodigi dell’economia digitale e delle tecnologie mobili sembrano aver rimosso completamente» (ibidem); «sembrano», appunto, perché in un’epoca caratterizzata dal mantra della rimozione della noia, sembra che ci si annoi più che mai. Scenari che ben si accordano con la promozione di «un’attitudine positiva di apertura» non soltanto «verso la neurodiversità» ma anche nei confronti di «stranezza» ed «eccentricità in tutte le sue forme non violente», nel segno di uno sguardo rinnovato e rinnovante: «Una città autistica incoraggia trasformazione, sperimentazione, immaginazione e apertura a modi alternativi di guardare e intendere la realtà urbana» (p. 101).
La riflessione di Vanolo si snoda tra tornanti ed orizzonti, scevra di qualsiasi pretesa oggettivizzante, lontana dall’operazione che vuole farsi manifesto generalizzante, distante da quelle “messe in discorso” di visioni che presumono di potersi scindere dalla restante parte della vicenda sociale: «la sfida», piuttosto, consiste nell’«immaginare come una città autistica possa offrire qualcosa di buono per qualsiasi abitante, a prescindere dalle sue caratteristiche neurologiche. In un momento storico in cui la coscienza circa l’invivibilità delle nostre città è elevata […] e in cui il dibattito pubblico si interroga su possibili modelli alternativi […], forse l’idea di città autistica ha qualcosa di importante da suggerire al mondo» (p. 83). Il lavoro di un caregiver ha un contesto, non un inizio o una fine. Non ha turni, zone, pause, ferie. Forse – per quanto limitato e limitante possa risultare quanto, con estremo rispetto, si sta per affermare – un caregiver non concepisce un’esistenza che non significhi lavoro costante, nella speranza che quanto si semini possa avere una risonanza che ne ecceda l’effettiva possibilità di intervenire. In altri termini, l’annosa e terrificante «questione del dopo, del quando» cioè «chi si prende cura di loro in maniera predominante non ci sarà più» (pp. 88-89), alla quale solo una vita urbana intesa in termini sociali e comunitari può rispondere. Per quanto «decisamente in controtendenza rispetto all’individualismo e alla frammentazione che caratterizzano la città contemporanea» (p. 89), occorre lavorare affinché si possano offrire spazi e possibilità che restituiscano un futuro a tutti. Lavorare ininterrottamente, come un caregiver o forse anche come chi crede fortemente alla profonda dimensione performativa e politica del lavoro culturale. Da questo punto di vista, trovo che le due figure cantino all’unisono, costantemente e autenticamente chiamate – per dirla alla Calvino – a un «iperlavoro», o «infralavoro» o «ultralavoro».
[1] Espressione che non equivale ad una semplice e inoltrepassabile resa conoscitiva ma che rinvia, piuttosto, alla catena di rimandi (questa, sì, inoltrepassabile perché mai del tutto ricostruibile) che mi ha condotto a questo, e non ad un altro, incipit. Il punto, nel darsi e ritrarsi, allora è: questo scritto non avrebbe mai assunto le attuali fattezze, finanche avessi spostato una sola virgola della mia vita.
[2] Gli «studi critici urbani» – presentati, dallo stesso Vanolo, come suo principale e intersezionale asse di ricerca – si configurano come un mobile teatro d’incontro tra «giustizia sociale, ricerca di alternative» e «tensione trasformativa» (p. XIV).
[3] Come sta recentemente accadendo nell’orbita di diversi e variegati ambienti (non solo) scientifici, sarebbe forse più “corretto” parlare di «con-dividui», se ogni soggetto è l’esito mobile dell’indomito gioco di mescolanza tra ontogenesi, filogenesi e contesto ambientale; in tal senso, ad incidere su ognuno di noi sono sia i cosiddetti «tempi profondi», sia quello che i neuroscienziati Vittorio Gallese e Ugo Morelli, definiscono lo «spazio noi-centrico», quella dimensione comunitaria entro il cui orizzonte ci si muove e ci si con-figura mentre la si con-figura.
[4] Lo si ribadisce: non da intendere entro la fissità di categorie calcificanti ma come «gruppi di persone con “affinità collettive” determinate» anche «da circostanze sociali e politiche» (p. 23).