di Enrico Palma
Walter Benjamin, cittadino e abitante di questa città per ritrovare com’è noto la libertà politica, civile e intellettuale che gli era stata negata nel suo paese natale, nella sua Berlino, con un’espressione ormai celebre ha definito Parigi la capitale del XIX secolo. L’Ottocento, insomma, si sarebbe fatto nella città francese, che costituisce al giorno d’oggi una vera e propria isola all’interno del proprio territorio nazionale. Numeri alla mano, Parigi, con la sua conurbazione, conta poco più di un sesto dell’intera popolazione francese, condensata in un centro storico sempre più disertato per il carovita e quindi soprattutto nelle periferie, in quei comuni circondariali che sono diventati parte integrante della città, come Saint-Denis, Nanterre e Argenteuil. Per uscire veramente dalla città bisogna percorrere diverse decine di chilometri e impiegare, se si prende il treno o il bus, anche parecchie decine di minuti (con la benevolenza del traffico). Questi caratteri urbanistici e sociali la rendono la più grande città d’Europa, la seconda se consideriamo la Londra pre-Brexit.
Ma perché Benjamin utilizza questa espressione? Ha certamente ragione nel dirlo: alcuni eventi nevralgici come l’avventura napoleonica, la Restaurazione, la propagazione e l’affermazione dei valori rivoluzionari, i moti indipendentistici, l’Esposizione universale di fine secolo, rappresentano dei fortissimi indizi in favore del suo giudizio; o se ci riferiamo, inoltre, alle innovazioni tecnologiche, alle sfide ingegneristiche e alla totale e pervasiva ridefinizione dell’assetto urbano concepita dal barone Haussmann (che si acuiscono nella costruzione così controversa della Tour Eiffel, adesso simbolo di Parigi e della Francia nel mondo), anche qui Benjamin coglie nel segno; per non parlare, infine, dei rinnovati orientamenti culturali, per lo più artistici e letterari, che fanno capo all’impressionismo e al naturalismo, oltre che ai prodromi del romanzo modernista, nella categorizzazione del quale entrano di diritto un parigino doc come Proust e un altro di adozione come Joyce.
Ergendo quindi una città a metonimia di una temperie culturale o, come vorrebbe Benjamin, di un intero secolo, è vero allora che Parigi coincide con l’Ottocento. Come Atene coincide con il V secolo a.C., Firenze con il XV secolo d.C., Madrid con il XVI secolo d.C., e via di questo passo. Riserverei a Vienna, Berlino e New York la tripartizione cronologica delle città rappresentative del Novecento. Oggigiorno, nei tempi della globalizzazione delocalizzante, quando le aree urbane di Pechino o Shanghai equivalgono la superficie di stati europei come l’Austria e il Belgio, questa assegnazione risulta molto difficile. Il Weltgeist, per così dire, sembra assumere più delle caratteristiche continentali che propriamente cittadine, in cui è chiaro che l’Europa sta naufragando.
E tuttavia Parigi è molto di più, ovviamente, del solo secolo XIX come vorrebbe Benjamin. Tra i boulevards, gli alti palazzi, i negozi di lusso, una vita frizzante e snob, locali floreali (benché quasi tutte le volte sintetici), Parigi mostra un’eleganza opulenta che nell’estremo ordine di una raffinatezza indiscutibile associa comunque tratti contraddittori, direi quasi una pomposità grottesca. È la città ottocentesca in cui svetta una torre sensuale e matematica certamente suggestiva ma pochissimo filologica; in cui nel pieno di un giardino reale, tra le braccia di uno dei musei più importanti e visitati al mondo, custode di bellezze senza tempo e incontestabili, giace un altro esempio di geometria, le Piramidi del Louvre di Ieoh Ming Pei. E però, nonostante queste incursioni della modernità, in quello che altrimenti sarebbe stato inguaribilmente ottocentesco, il centro di Parigi conserva un fascino unico, una suggestione comparabile, forse, solamente con quel tratto che può farsi a piedi, costeggiando il Tevere, dai Fori Imperiali fino a Piazza San Pietro.
Un centro di cui sempre Benjamin coglie la ragione di salvaguardia, per così dire, essendo l’ideale urbanistico di Haussmann corrispondente «alla tendenza che si osserva continuamente nell’Ottocento a mobilitare necessità tecniche con finalità artistiche»[1]. Finalità senz’altro raggiunte, dato che ancora oggi i parigini e i loro ospiti possono godere del risultato. Ma la diffidenza e il senso critico di Benjamin vanno oltre. L’opera di Haussmann va incontro alle richieste borghesi e dell’interesse finanziario, spingendo così i più poveri a riparare nei sobborghi, individuando in questo modo l’onda lunga di un processo iniziato più di centocinquant’anni fa e ancora in atto. L’obiettivo era consolidare il dominio dell’alta finanza, del lusso, dell’eleganza escludente. Infatti: «Il vero scopo di Haussmann era di garantire la città dalla guerra civile. Egli voleva rendere impossibile per sempre l’erezione di barricate a Parigi»[2]. Per farla finita, insomma, con ogni eventuale rivolta o rivoluzione.
Salendo sulla Basilica del Sacro Cuore a Montmartre, o arrampicandosi sulla terrazza di qualche palazzo in centro – famosa è quella delle Galeries Lafayette subito dietro il Palais Garnier (l’Opéra) – i tetti di ardesia – di quel colore così tipico della città, una gradazione di blu inconfondibile, un’iridescenza d’ala di libellula, posti su palazzi di un bianco opaco – ci si può costruire l’idea, o al più la sensazione, di come una mesta malinconia possa sciogliersi in una raffinata dolcezza, qualcosa che fa perdonare i turbamenti, dimenticare i misfatti, rimettere i debiti esistenziali. Forse è per questo che Parigi è una meta così gettonata dalle coppie, perché la sensazione che si prova in essa rilancia il sentimento amoroso con cui ci si arriva. O suscita la nostalgia in chi era in coppia e ora non lo è più, oppure non lo è mai stato.
Come tutte le grandi città, anche Parigi non è stata risparmiata dalla ferocia della gentrificazione, che ha investito quasi ogni zona del centro. La cosa che colpisce è che, pur trattandosi di monumenti abbastanza recenti – fatta eccezione, ad esempio, per il cosiddetto “vecchio Louvre” o per la cattedrale di Notre-Dame – sono stati oggetto di una risemantizzazione dell’utilizzo, ed esempio massimo di ciò è certamente il Museo d’Orsay.
Per farsi un’idea apprezzabile, densa e circostanziata di cosa siano l’impressionismo e il post-impressionismo, non c’è posto migliore in cui si possa andare dell’Orsay, un luogo – notoriamente una stazione ferroviaria adesso adibita a museo – in cui il tempo, scandito dai grandi orologi interni ed esterni all’edificio, si è fermato a quel secolo diciannovesimo di cui parlava Benjamin, con le maggiori collezioni al mondo – e non poteva del resto che essere così – delle opere, su tutti, di Manet, Monet e Van Gogh. In Manet c’è tutto il gusto spagnolo e lo stile pastoso e pittoricamente formoso del pennello di Velázquez, traslato a Parigi per fare scandalo morale ed estetico, per porre nella verità squarciando il velo della causerie e della noblesse, in cui anzi erompe «il coraggio dell’arte nella sua barbara verità»[3], per citare l’ultimo e memorabile Foucault della parresia, soprattutto con l’impressionante Olympia rispetto alla quale il nostro sguardo è «lampadoforo, porta la luce»[4]; in Monet c’è l’archistoria dell’impressionismo e la modellizzazione della materia della realtà che diventa luce nella pittura, per meglio dire la materialuce[5], l’idea per cui la materia è questa luce invincibile che l’arte rende visibile, appunto mette in luce, nelle commoventi versioni della facciata della cattedrale di Rouen, nella House of Parliament di Londra rarefatta nel brouillard, e soprattutto nel Saggio di figura en plein air, in cui la componente organica, caduca e fallibile dell’umano si mescola con la natura, con il resto dell’essere, nel trionfo della materia viva, energica, luminosa; in Van Gogh c’è «la porta occulta di un aldilà possibile»[6], la lotta per la felicità, la resa alla depressione, la saggezza del riposo dalla fatica di vivere, l’auscultazione di sé attraverso il pennello che tratteggia uno sguardo magnetico, ossessionato, persino intollerabile nella sua richiesta di aiuto.
Il tutto è stato sublimato da una mostra temporanea in cui è stato riprodotto quasi integralmente il primo Salone degli impressionisti presso lo studio di Nadar del 15 aprile 1874, un’occasione unica in cui poter fare esperienza diretta di uno dei momenti più iconici e fondamentali della storia della cultura. Passeggiare tra quelle sale è un’immersione totale nello splendore della luce, nella gloria della physis, nella giovialità dell’esistere.
Una grandiosità forse maggiore colpisce il visitatore che entra nei corridoi apparentemente senza fine del Louvre. Attraversare il corridoio della statuaria, avvicinandosi allo scalone sulla cima del quale svetta imperiosa e trionfante la Nike di Samotracia, con il profluvio di gente che vi si riversa ripartendosi nelle altre sale, è una delle visioni più maestose e potenti che si possano mai avere nella vita. Essa è metafora di vittoria su qualunque negativo, l’ascesa dal male paludante per poi giungere redenti in cima, un colpo d’ala sulle bassezze in cui, spesso, la vita viene tirata e trattenuta, per partecipare a quella festa immensa, immane, opulenta, che è Le nozze di Cana del Veronese, e che è anche Parigi, la Festa mobile, come l’aveva chiamata Hemingway, il senso della trasfigurazione, dell’essere-tra gaudente, ciò che la vita non è e che dovrebbe comunque aspirare a essere. Il corridoio della pittura italiana è questa galleria del fastoso, nella quale i grandi maestri, da Giotto e Cima di Conegliano a Caravaggio e Guido Reni, convergono tutti in una gioia estetica ineguagliabile.
Parigi è anche la città monumentale nel senso della celebrazione, di un popolo che notoriamente è tra i più patriottici, un attaccamento alla Cité che spesso fa affermare non soltanto ai francesi parigini che Paris c’est la France. L’impressione infatti è che il popolo francese abbia impegnato se stesso nella costruzione della propria capitale sacrificando molto altro, per rendere questa città sempre più grandiosa e affascinante. E questo lo si nota nel tributo postumo a Napoleone, nel monumento forse più stucchevole degli Invalides, o nel Pantheon, una rivisitazione del concetto romano, e poi italiano, del famedio nazionale.
Ma Parigi, almeno nelle mie intenzioni, dans mon cœur, è il nome di Marcel Proust. Ha ancora ragione Benjamin nel dire che questa città «si è iscritta così indelebilmente nella letteratura perché in essa opera uno spirito che è affine ai libri», poiché, facendo un passo indietro di qualche riga, «Parigi è la grande sala di una biblioteca attraversata dalla Senna»[7]. Ogni monumento parigino, dice Benjamin, ha ispirato un’opera letteraria. Eppure, all’alba della fotografia come medium, la realtà si frantuma, lo specchio che sarebbe Parigi si tramuta in prisma e scompone la realtà in innumerevoli raggi, come lo sono, diversamente da quelli unidimensionali di Zola, i miroirs proustiani, «che si riflettono l’uno dentro l’altro in una serie senza fine», facendo «pendant a quell’infinito ricordo del ricordo nel quale la penna di Marcel Proust ha trasformato la propria vita»[8].
L’autore della Recherche amava profondamente la propria città pur non risparmiandole critiche; come non le risparmiò, del resto, alla fauna umana che popola il suo capolavoro, che non ha mancato di mostrare e comprendere intuendo le curve e le leggi dei loro comportamenti individuali e sociali. Probabilmente, Proust ha descritto i parigini come ha descritto l’umanità in generale, con la massima acutezza, ed è per questo che leggere le peripezie di uno Charlus o di una Odette costituisce una rappresentazione perspicua dell’essere dell’umano.
Ad ogni modo, visitando Parigi mi è parso chiarissimo come Proust non abbia senso senza la sua città, senza quell’umanità stancamente ottocentesca che, nella propria decadenza e grottesca contraddittorietà interna al proprio carattere, ha esibito l’universale di se stessa, la natura più profonda, la meschinità, l’insolenza, la ferocia, la civetteria, il patetico che si trovano in ognuno di noi. Proust è nato nell’anno in cui terminò, a spese della Francia, la guerra franco-prussiana, e ha vissuto la trasformazione parigina che grossomodo si è conservata fino a oggi. La Parigi di Proust, ovviamente, è scomparsa secondo la regola metafisica che ha descritto magnificamente nel suo libro. Ma resta l’eco, al 101 di Boulevard Haussmann (lo stesso barone responsabile del riassetto urbanistico), sugli Champs-Elysées, al Bois de Boulogne, a Rue de Rivoli, nella sua tomba nel cimitero di Père-Lachaise, dallo stile severo, spoglio, umilissimo.
Bisogna ricordare, allora, il finale tanto solenne quanto elegiaco del primo volume, in cui trova spazio un’affermazione tra le più poetiche e dolorose della Recherche, sulla fallibilità della ritenzione esperienziale umana e sull’ineluttabilità del divenire: «I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le case, le strade, i viali, sono, ahimè, fugaci come gli anni»[9]. È la stessa frammentazione di immagini che Benjamin coglieva nello stile e nella poetica di Proust in riferimento a Parigi, alla città, alle migliaia di occhi e di obiettivi che vogliono specchiarsi in essa e che la capitale riduce in mille pezzi. Ma non coglie la volatilità del tempo, della vita, e dunque anche delle città. Proust non è più ed è ancora, è divenuto luce e redenta parola che salva chiunque vi si accosti, nell’immane fatica, per il lettore contemporaneo una vera e propria impresa, di leggere le sue pagine, nell’esperienza di verità che l’arte in generale riesce a offrire.
Proust, Parigi, le sue tante facce, le sue numerose identità, racchiudono un segreto della luce, come la Nike in cima allo scalone monumentale, il vero e proprio ingresso del Louvre, la forza invitta dell’antico: la vittoria, che deve essere vendetta. Vendetta sulla sofferenza, l’arte di trasformare e di vincere la sofferenza in comprensione luminosa. Perché, altrimenti, tutto è perduto; è il tentativo di non farsi sopraffare, di non cedere, di non fallire al dovere di rompere quella catena che lega al dolore dell’essere nati, dell’essere apparsi nella forma che siamo destinata a perire e a dissolversi.
Ho trovato tutto questo non in un francese, bensì in un italiano, un’opera del quale, per le imprevedibili vie che le grandi opere d’arte sono destinate a percorrere, si trova proprio al Louvre. Assecondando Benjamin è sempre un angelo, ma diversamente da quello di Klee, al quale tributò un Denkbild tra i più impressionanti della storia del pensiero, la IX tesi sul Concetto di storia, non è impotente, il suo desiderio di destare i morti e di ricomporre i frantumi non è frustrato. Il San Michele sconfigge Satana di Raffaello (la cui paternità non sembra essere totale) è un angelo di vittoria, le sue ali e la sua corazza sono dorate, il suo viso intatto, nessuna imperfezione corruga la sua espressione. È bellissimo nel calpestare il male, nel relegarlo alla terra, e con la sua lancia sta per trafiggerlo, facendo così culminare il suo gesto, e anche il suo sorriso, in una gaiezza tripudiante. I San Michele di Guido Reni a Bologna o di Luca Giordano a Vienna sono grandi quadri, ma non raggiungono l’eleganza di questo bellissimo, biondo giovane loricato che plana sul Maligno a passo di danza. È anzi con questa raffinata eleganza, raffaellesca o parigina che dir si voglia, che ci si deve vendicare del male, del dolore, delle perdite, degli abbandoni. È questa l’immagine integra della vita, se vita vuole essere.
*Al mio amico Vito, sulla spalla del quale, come il Raffaello del Louvre, poggio la mano.
[1] W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014, p. 157.
[2] Ivi, p. 158.
[3] M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1984 (Le courage de la verité. Le gouvernement de soi e des l’autres II. Course au Collège de France 1984, 2009), trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2018, p. 185.
[4] Id., La pittura di Manet (La peinture de Manet, 2004), trad. di S. Paolini, SE, Milano 2005, p. 57.
[5] Cfr. A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Leo S. Olschki, Firenze 2020.
[6] A. Artaud, Van Gogh il suicidato della società (Van Gogh le suicidé della societé, 1974), trad. di J.-P. Manganaro, Adelphi, Milano 1988, p. 27.
[7] W. Benjamin, Parigi, la città allo specchio, in Id., Immagini di città (Städtebilder, 1963), a cura di E. Gianni, Einaudi, Torino 2007, p. 65.
[8] Ivi, pp. 68-69.
[9] M. Proust, Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann, 1913), in Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu, 1913-1927), ed. diretta da L. De Maria, trad. di G. Raboni, Mondadori, «I Meridiani», Milano 2014, p. 515.