di Amedeo Barbagallo
- L’alba della tradizione
«L’antico era sinonimo di proporzione, di quiete, di sintesi equilibrata, sia nell’arte sia nel pensiero»[1], analizza Franco Cambi. Ma l’antico è soprattutto l’archè di ciò che noi occidentali siamo adesso. Come gran parte delle tradizioni europee, anche la storia dell’educazione trova le fondamenta nell’antica Grecia. I figli di Atena chiamavano paideia l’azione intellettuale e culturale mirata alla formazione dell’individuo; ideale «di una formazione umana che è prima di tutto formazione culturale e universalizzazione (tramite la cultura e la “coltivazione” del soggetto che essa implica e produce) dell’individualità»[2].
Nonostante la Grecia antica non fu mai un unico corpo dal punto di vista politico, bensì un sistema di diverse e autonome galassie, i greci erano consapevoli della profonda unità spirituale che li riuniva. Tale simbiosi dello spirito è rappresentata dai due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, biglietto da visita della Grecia arcaica e primo chiaro esempio di educazione in Europa.
Nell’Iliade l’educazione possiede dei tratti eroici, come nel caso di Achille. Consiste in un’educazione nella maggior parte dei casi pratica, concentrata sul corpo e sul suo sviluppo. Vi era spazio anche per l’oratoria, sempre importante per il mondo greco. Caratteri simili riguardo la formazione dei giovani sono presenti anche nell’Odissea, dove però è la famiglia a essere l’epicentro dell’ambiente formativo.
Molto diverso, invece, risulta essere il sistema spartano, delineato dal leggendario legislatore Licurgo. L’educazione dei figli maschi di Sparta era improntata allo sviluppo di una società che potesse continuare a incarnare, nonostante lo scorrere delle generazioni, i valori fondativi della città. I bambini in ottimo stato di salute, infatti, venivano sottratti alle famiglie intorno all’età di sette anni, per essere trasferiti in rigide scuole controllate dallo Stato che miravano a formare cittadini-guerrieri guidati da forza e coraggio. Il percorso si concludeva al compimento dei 16 anni di età. Essi altro non erano che il bene comune spartano.
All’interno della scuola si teneva l’addestramento delle armi, fondamentale per i guerrieri del domani. Non esisteva la proprietà privata, si conduceva una vita in comune. Amicizia e obbedienza erano vere e proprie stelle polari del percorso. Poco spazio veniva dedicato alla cultura, anche se gli allievi erano chiamati ad avvicinarsi ad Omero ed Esiodo.
Platone, nel Protagora, cita brevemente le capacità culturali dei temibili allievi di Sparta: «Se qualcuno si intrattiene a conversare anche con il più inetto degli Spartani, troverà che nella maggior parte dei suoi discorsi appare insulso, ma poi, al momento buono, come un arciere abilissimo, ti scaglia un motto considerevole, conciso e denso di significato, tanto che l’interlocutore nei suoi confronti fa la figura di un bambino»[3].
Non solo gli uomini, ma anche le donne, possedevano una forte formazione interiore, che li portava a essere amanti della sapienza e abili nell’oratoria. Oltre qualsivoglia stereotipo antistorico. A Sparta, infatti, le donne si trovavano in una posizione di privilegio rispetto alle altre poleis greche, e la loro educazione si avvicinava molto a quella degli uomini.
Tali accenni rendono onore a Gorgò, la leggendaria regina di Sparta compagna di vita di Leonida, l’eroe delle Termopili. Basta leggere due passi tratti dagli Apoftegmi di donne spartane dei Moralia di Plutarco, per rendersi conto della sua caratura. «Avendole chiesto una donna dell’Attica “Come mai voi Spartane siete le uniche a comandare agli uomini?, lei rispose: “Perché siamo anche le uniche a mettere al mondo uomini”»[4].
Insomma, l’educazione spartana aveva un solo obiettivo: la conservazione della supremazia dello Stato grazie alla formazione di nuove generazioni di cittadini-guerrieri.
- L’idea platonica di paideia
Il passaggio dal V al IV sec. a.C. è fondamentale per la Grecia e per tutta la civiltà umana, dato che la scrittura cominciò a diffondersi in maniera sempre più considerevole. L’epicentro fu Atene, che dal punto di vista intellettuale si era sviluppata maggiormente rispetto a tutta l’Ellade. Si tratta di un’era di cambiamenti e trasformazioni dal punto di vista sociale, che provocò mutamenti anche nel versante dell’educazione.
Le polemiche platoniche intorno alla validità dell’insegnamento scritto, infatti, considerato secondario rispetto alla cultura arcaica di omerica memoria, ci testimoniano la portata di tale fase. Il filosofo «ha difeso l’oralità, ponendola assiologicamente al di sopra della scrittura, affermando addirittura la tesi che il filosofo deve riserbare per l’oralità le cose che per lui sono di maggior valore»[5].
A causa del contesto mutevole, si venne a delineare il bisogno di una cultura più tecnica e scientifica, «che esalta la dimensione libera e il libero esercizio della ragione, proprio di ogni individuo e rivolo a sottoporre ad analisi ogni credenza, ogni ideale, ogni principio della traduzione»[6]. Fu la sofistica a interpretare questo nuovo bisogno, inaugurando un metodo educativo che attirò le critiche di Socrate prima e Platone poi. I sofisti, infatti, erano maestri di retorica e non di sapienza.
Il paradigma culturale che prese forma si basò su «una educazione pubblica, sottratta alla famiglia e al santuario, che guarda alla formazione del cittadino e delle sue virtù»[7]. Dietro un compenso, giravano i territori della Grecia alla ricerca dei ceti sociali emergenti, ai quali tentavano di insegnare la techne dell’oratoria. I sofisti abbandonarono qualsivoglia riflessione cosmologica, naturalistica e religiosa, concentrandosi esclusivamente sui problemi dell’antropos.
Protagora e Gorgia, infatti, ricordati per essere i sofisti più celebri, affermarono rispettivamente il relativismo di ogni sapere e la forza di ogni parola. Mentre per il primo l’uomo è misura di tutte le cose, dunque, gli individui sono gli “arbitri” di ciò che esiste, il secondo cercò di dimostrare la potenza rappresentata dall’utilizzo dei logoi a proprio piacimento.
Nell’ottica platonica, la virtù è un’arte che si può raggiungere dopo una corretta disciplina. Dunque, chi è capace di raggiungere l’epistème nella propria arte deve essere anche in grado di trasmetterla. E ciò avviene dopo un esercizio interiore, non a seguito di un mero contributo. «E come la funzione sociale del medico è terapeutica riguardo al corpo, sarà funzione del filosofo che ha raggiunto l’epistème in assoluto quella di curare la mente e l’anima e quindi di insegnare la virtù»[8].
Obiettivo del platonismo è il prendersi cura delle anime, posizione che fa prendere le distanze da chi dichiarava esplicitamente di voler far diventare migliori i propri allievi. Quest’ultimi, esponenti delle famiglie di primo piano della polis, venivano preparati per l’inserimento nella vita sociale, con l’obiettivo di voler primeggiare sul resto della classe dirigente.
Risulta evidente come tale visione raccolga l’opposizione più dura da parte di Platone, il quale combatteva «non solo la pretesa di formazione politica dell’individuo, ma anche quella di un qualsiasi tipo di insegnamento da parte dei sofisti»[9]. Nelle sue opere, l’ateniese presenta la sofistica nella dimensione di arte mimetica, capace di raggirare le anime e di creare realtà illusorie per la comunità. Essi si rivolgevano ai sensi piuttosto che alla mente, seducendo l’ascoltatore invece di sedurlo con dati concreti.
Di conseguenza, anche la politica deve diventare un’arte. Questo è l’auspicio platonico. In tal modo, si eviterebbe di abbandonare la vita associata nelle mani degli autori di false speranze. I sofisti si servivano dell’oratoria solo per acquisire l’attenzione degli uditori e per portarli sulle loro posizioni. La politica, invece, come ci suggerisce l’essenza stessa del termine, deve essere considerata un’attività rivolta allo sviluppo e al bene della comunità. In funzione di tale obiettivo si deve muovere l’intera architettura sociale.
L’individualità è chiamata a sacrificarsi in nome del bene comune, in nome della realizzazione degli interessi comuni. Il proprio sé si realizza in funzione degli altri, in funzione di una precisa organizzazione statale sapientemente teorizzata dal filosofo. “L’idea platonica di Stato” è costruita sulla base di una concezione unitaria, che però sintetizza al proprio interno, in modo armonico, tutti gli aspetti della vita pubblica articolati dialetticamente, «cioè come parti integranti di un complesso convergenti tutte all’attuazione dell’idea di bene»[10].
La società, secondo tale ottica, altro non è che un mosaico, dove ogni cittadino rappresenta una tessera, necessario e indispensabile solo nel posto che gli spetta secondo natura. Platone aveva compreso che il corretto funzionamento dell’apparato che aveva in mente, necessitava di un nuovo percorso educativo rivolto alle generazioni in formazione. Da qui, come vedremo più avanti, l’esistenza di dedicare alla paideia una larga parte del dialogo Repubblica.
Nella tradizione che lo aveva preceduto Platone non ricercò l’ispirazione, bensì l’autorevole convalida delle proprie tesi. Cancellando totalmente ciò che la sofistica aveva prodotto, il platonismo si riagganciò al passato, al mito di Creta e alla leggenda di Sparta, a ciò che la storia aveva consacrato a stabili modelli politico-sociali. Quella che ad Atene si stava affermando come democrazia, a Platone sembrò più che altro demagogia. Ai suoi occhi, la volontà popolare non può che esprimersi tramite il rispetto del compito che ciascuno ha nel contesto sociale, compito che guarda e tende sempre al Bene, l’impianto metafisico che regge l’intera riflessione platonica.
Platone, d’altro canto, ritiene che senza l’insegnamento filosofico non possa esistere arte politica. Solamente chi è stato in grado di condurre una ricerca verso alètheia tòn ònton, verso la vera realtà delle cose che sono, sarà in grado di far valere la propria virtù e la propria scienza all’interno di quella complessità che è il corpo sociale. In tal modo, esso «sarà capace di abbracciare la totalità delle forme e dei modi di esistenza in una visione unica e, allo stesso tempo, di tornare indietro all’universale, attraverso i nessi e le varie articolazioni della realtà, fino al singolo particolare»[11].
Mentre la formazione derivata dalla sofistica gorgiana rimase sempre legata al tentativo di silenziare e confondere l’avversario, la formazione platonica non si discostò dall’eredità socratica, figlia del motto delfico, basata sul dialogo. I discorsi socratici altro non sono che dei “semi”, semi che non possono che condurre a una critica della società e del clima politico-culturale dell’Atene del tempo.
Il contatto diretto con il discepolo è una lezione socratica che Platone assunse totalmente. Nell’antico maestro emergeva il senso autentico dell’educazione, il voler “tirare fuori” il discente dalla massa, mirando alla sua interiorità. «Il rapporto personale con i propri discepoli […] è estremamente più stimolante di una semplice formulazione delle proprie riflessioni da far imparare a memoria e ingerire senza alcuna possibilità di uno scambio di idee»[12].
Il sospetto che Platone nutriva nei confronti del sapere scritto, come anzidetto, non era legato alla sola mancanza di confronto e dibattito ma, come magistralmente dichiarato nella Lettera VII, nessun testo scritto sarà in grado di argomentare le proprie posizioni come farebbe, invece, l’autore in carne e ossa. Un qualcosa messo nero su bianco è incapace di difendersi.
La novità più importante assunta dalla rivoluzione socratica, inoltre, è l’utilizzo del metodo dialettico, cioè del corretto modo di ragionare. A questo punto, «il pensare corretto non può che essere dialogo»[13], dato che “discorrere” e “ragionare” in greco antico derivano entrambi da lèghesthai. L’insegnamento a saper ragionare rappresenta il metodo sulla base del quale, attraverso l’analisi delle ipotesi, fa sorgere la tesi che diventa condizione del discorso corretto. Tale metodologia dimostra come l’ateniese abbia abbandonato la presunta aporeticità giovanile, in funzione dell’acquisizione «non solo dei modi del ragionamento, ma anche di quelli che vengono ad essere i contenuti della scienza»[14].
Ricerca della verità significa abbandonare qualsivoglia dispositivo dogmatico, in funzione del dubbio come stella polare della propria ricerca, che deve avvenire in comunità, in modo da crescere reciprocamente. Anche nella fase finale della speculazione dell’ateniese, quella apparentemente più lontana dal socratismo, permane un germe derivante dall’insegnamento del maestro.
L’esercizio filosofico, all’opposto degli insegnamenti della sofistica, è continuo movimento della psyché verso il Bene. Colui che ama la sapienza non può che desiderare di percorrere il sentiero verso homòiosis theò, l’assimilazione al Divino che avvicina i brotoi al benessere spirituale rappresentato dalla sapienza posta al di là del cielo. La concezione del Bene come causa finale, dunque il vertice dell’impianto metafisico teorizzato, deriva dal desiderio di Socrate di ricercare l’universale, senza basarsi esclusivamente su ciò che il singolo fenomeno fa trasparire. Platone, peraltro, ci testimonia come Socrate abbia sacrificato la propria vita per rispettare l’Eidos della Giustizia, nonostante tale rispetto abbia portato alla sua condanna a morte e al successivo rifiuto di raggirare la pena inflittagli dall’agorà.
Lo sfondo sempre metafisico del platonismo giustifica quell’atteggiamento ascetico che riguarda la cura dell’interiorità dell’individuo. La disciplina alla virtù spinge il cittadino a mantenere sempre in vita l’Idea del Bene. L’esercizio interiore, tuttavia, non significa un distaccamento dalla realtà, ma «sarà la fonte stessa dello stimolo a partecipare con la propria esperienza all’organizzazione di un piccolo “cosmo” in cui si possano riprodurre le stesse leggi razionali che il filosofo ha già potuto riconoscere nell’intero universo»[15].
Da questa riflessione emerse una sorta di gerarchizzazione dell’ente spirituale. La psyché, sulla base dell’elemento che la governa grazie al controllo della ragione, può essere concupiscibile, irascibile o razionale. Risulta evidente come solo la psyché razionale venga inquadrata dal filosofo all’interno del percorso alla ricerca del Bene. Chi non si lascia guidare dal divino che risiede nel proprio sé, bloccato e incastrato tra i desideri e le pulsioni della materia, non sarà in grado di contemplare le Idee.
Sulla base dell’intero platonismo, solo chi, su uno sfondo dialettico, è stato in grado di cogliere l’unitarietà delle forme della virtù, sarà in grado di contemplare il Bene con il suo ente spirituale. Questo è il risultato dell’insegnamento platonico, partito dal socratico momento di ricerca del metodo conoscitivo, passato alla fase centrale di “stabilizzazione”, e terminato con la fase della maturità, quella della dialettica, dove il filosofo cercò di comprendere l’intelligibile sfondo della realtà.
- La prospettiva del dialogo Repubblica
Educazione non significa solo trasmettere “fredde” nozioni, ma significa preparare alla vita pubblica, significa mettere in grado l’individuo di poter entrare a far parte della classe dirigente “illuminata”, perché figlia di un nuovo modello di educazione, non più basato sulla poesia bensì sull’esercizio della ragione. Sulla filosofia. A tal proposito, cuore pulsante del dialogo Repubblica è la ricerca dell’armonia negli ingranaggi che reggono la polis. E tali ingranaggi non possono funzionare senza un paradigma educativo mirato al corretto collocamento e funzionamento di ogni tessera di quel mosaico rappresentato dal singolo che compone la comunità.
Il filosofo, però, mette in discussione il paradigma educativo contemporaneo, tentando di delineare un nuovo modello che potesse sostenere lo sviluppo dello Stato ideale che andava teorizzando, rappresentato come proiezione dell’anima individuale. In precedenza, è stata sottolineata la tripartizione che l’ateniese opera della psyché, sulla base della natura individuale. La kallipolis è dominata dall’armonia, armonia che si realizza se ognuno assolve il proprio compito naturale. Lo Stato è necessario perché la comunità va incontro a dei bisogni, che solo una sapiente divisione dei ruoli sarà in grado di soddisfare.
Tale divisione dei ruoli favorisce una corrispondente divisione dei modelli di educazione, azione che nella kallipolis assume un carattere fondamentale, perché il funzionamento dell’ingranaggio statale dipende totalmente dal corretto svolgimento dei compiti individuali. «Condizione del successo in una qualunque attività è la conoscenza tecnica delle sue procedure. Una società in cui non vi sia una corretta divisione delle competenze, e dove gli uomini o i gruppi pretendano di esercitare funzioni per le quali non hanno una conoscenza adeguata […], vive in preda al disordine ed è destinata al fallimento»[16], fa notare Franco Trabattoni.
Alla base della kallipolis, dunque, bisogna raggruppare una classe deputata al soddisfacimento dei bisogni materiali della comunità. Gli uomini, tuttavia, a causa dello sviluppo non arriverebbero più ad accontentarsi di ciò che già hanno. Dunque, le attività e i produttori si moltiplicheranno, fino al momento in cui sorreggeranno contrasti che causeranno guerre tra le varie nazioni.
In tal modo, dato che i conflitti saranno inevitabili, a causa dello sviluppo del territorio statale, sorgerà l’esigenza della nascita di una seconda classe: quella dei guardiani, che avranno il compito di difendere la polis. Essi non sono solamente esperti nell’arte della guerra. Dovranno, soprattutto, essere in grado di rivolgersi con durezza verso i medici e con benevolenza nei confronti degli amici. Si tratta, però, di qualità opposte e incompatibili.
Risulta necessario che il guardiano riconosca il nemico tra gli amici, quindi il bene dal male. Si tratta di una figura corrispondente a quella del filosofo, dato che «dovrà essere naturalmente predisposto allo studio e amante del sapere»[17]. «Tale qualifica conferisce al guardiano una più ampia responsabilità di difesa e custodia dello stato, nella forma della conoscenza e della condivisione dei valori etici fondamentali su cui esso si regge»[18]. La loro educazione risulta dunque imprescindibile, per il bene e la difesa dello Stato.
Tra i guardiani, come detto, emergeranno i filosofi, i sapienti che saranno chiamati a reggere lo Stato. Il loro processo educativo risulta dunque fondamentale. Ginnastica e musica – che comprende le discipline umanistiche e letterarie -, rappresentano la base. Ma su quali elementi si basa tale divisione? Se il “primo Platone”, il filosofo della fase giovanile di impianto orfico-pitagorico, si dedicò totalmente alla salute dell’interiorità, il Platone della maturità arrivò a concepire l’individuo nella sua unità psicosomatica, estromettendo qualsivoglia visione dualistica.
Essendo l’individuo un composto di soma e psyché, «la ginnastica e la musica sono necessarie e devono collaborare allo stesso fine, cioè a produrre negli individui l’armonia psicofisica, ossia una equilibrata uniformità di intenzioni e comportamenti[19]. L’educazione degli impulsi e dei comportamenti irriflessi rappresenta la stella polare di questa fase.
L’attenzione dedicata al soma non mirava solamente allo stato di salute, ma piuttosto allo sviluppo nell’individuo di determinati attributi morali, come equilibrio e temperanza, imprescindibili per chi è chiamato a reggere lo Stato. Nonostante il dualismo giovanile sia stato superato, le parole del Socrate platonico ci testimoniano come lo sfondo dell’educazione sia sempre rivolto alla psyché.
In questo frangente, fondamentale è la stimolazione delle due parti che compongono l’individuo. È scorretto sia coltivare la ginnastica senza dare spazio alla musica, dunque educare solamente il soma, che il contrario. La conclusione è più che chiara: «mi parrebbe che un dio ha fatto dono agli uomini di due arti, appunto la musica e la ginnasiale, rispettosamente in funzione della facoltà irascibile e di quella amante del sapere»[20]. «Colui che sa fondere insieme nella miglior proporzione la ginnastica e la musica e riesce a trasferirle alla sua anima in misura equilibrata, questo sì lo potremmo chiamare con tutte le ragion musico perfetto e perfettamente accordato»[21]. È l’armonia a guidare il tutto, come in ogni ambito del platonismo.
Aritmetica e geometria sono imprescindibili, perché preparano l’individuo alla dialettica e abituano la psyché al pensiero intelligibile. «Se studiate nel loro aspetto teoretico: elevano l’anima verso i principi e verso la contemplazione»[22]. In tal modo, l’individuo comincia ad abbracciare lo sguardo teoretico, che lo rende diverso da chi è estraneo alla filosofia, perché gli permette di osservare il mondo tramite gli occhi della ragione.
In queste pagine, emergono le coordinate del platonismo politico, così come le citazioni più usate dagli studiosi. La scelta di chi, tra il gruppo dei custodi, dovrà governare, verrà da sé: «Dovremmo allora scegliere fra tutti i guardiani quelli che per tutta la vita ci risulta abbiano preso decisioni nell’interesse dello Stato, operando con la massima disponibilità, e che mai, per nessuno motivo, si presterebbero ad agire in maniera diversa»[23].
Chi la pensa diversamente non lavorerà mai per il bene dello Stato, perché curerà esclusivamente i propri interessi. L’ateniese, in questo frangente, si dimostra molto realista. Non pretende un uomo politico “ideale”, che metta sempre il bene comune come priorità. Sarebbe una concezione velleitaria. Così come non avrebbe senso discutere sulla bontà delle varie forme di governo, perché i protagonisti sarebbero sempre gli stessi. L’unica possibilità è che l’individuo chiamato a governare segua gli interessi della comunità perché identici ai propri. Solamente in queste condizioni non ci saranno imbrogli o corruzioni da parte della classe al potere. È naturale che non tutti gli uomini abbiano tale caratteristica. Ecco perché i candidati a tale ruolo devono essere scelti con cura, con profonda attenzione alle loro attitudini naturali.
È la natura stessa dell’individuo a selezionarlo nella scelta del suo compito. Sulla scia della tradizione, il filosofo utilizza nel testo l’utile e nobile menzogna del mito delle razze, racconto rielaborato a partire da un testo di Esiodo. Il divino, che ha creato gli uomini, ha distinto i caratteri. Ciascuno è destinato a un determinato compito. Solitamente, ci si aspetta che il figlio abbia le stesse caratteristiche del padre. Ma, come sottolinea il filosofo, si tratta di una menzogna, perché il figlio potrebbe essere migliore o peggiore rispetto al padre. E allora, ciascun individuo deve entrare a far parte della classe che gli spetta secondo le sue sensibilità interiori, e non per appartenenza familiare. Sfondo del mito è un forte attacco alla sofistica. Una parte di questo movimento culturale prometteva lo sviluppo della virtù dietro un pagamento, senza alcuna attenzione nei confronti delle attitudini personali.
«Platone vorrebbe dunque mostrare al pubblico cui si rivolge, formato in massima parte dall’aristocrazia del sangue e del denaro, che il figlio di un nobile o di un possidente dovrebbe fare il contadino o l’artigiano, se privo di attitudini per rivolgersi alla cura dello stato»[24]. Risulta dunque falso ritenere aristocratica la visione di Platone. La divisione del lavoro non ghettizza alcuna classe sociale. Anzi, si tratta dell’esatto contrario: secondo l’ateniese, anche il figlio del più rozzo artigiano potrebbe diventare il nuovo capo politico della kallipolis, così come il figlio del più ricco aristocratico non commetterebbe alcun crimine se diventasse un “semplice” agricoltore. È la natura della propria psyché che indirizza l’individuo verso la propria strada. Nient’altro.
Inoltre, è bene sottolineare che la divisione del lavoro secondo le attitudini personali corrisponde anche alla divisione secondo i bisogni personali. È chiarissimo, in tal senso, il messaggio del Socrate platonico: «Nessuno deve possedere in proprietà alcun bene, a meno che non sia di primaria necessità»[25]. Qui nasce il senso del cosiddetto “comunismo platonico”, cioè la comunanza dei beni all’interno della classe dei guardiani e dei governanti. Essi non devono possedere alcunché, dato che riceveranno sussistenza dagli altri cittadini. In tal modo, si tenta di preservare la purezza delle loro intenzioni. La custodia dello Stato e la promozione del suo Bene solo gli unici obiettivi delle due classi. Possedere beni o creare ricchezze non li riguarda. Platone, naturalmente, non demonizza in alcun modo la ricchezza. Chi mira alle ricchezze materiali, tuttavia, è ben lontano dall’ideale che ha in mente il filosofo. Potrà, in modo legittimo, esercitare la sua attitudine al commercio, ma non sarà mai degno di reggere la kallipolis.
Governanti e custodi saranno educati ad assumere comportamenti atti allo sviluppo del benessere dello Stato. In tal senso, l’educazione diventa il fondamento politico della comunità, perché senza lo sviluppo delle capacità già possedute per natura non può esserci classe dirigente. Classe dirigente composta da pochi elementi, perché non tutti sono in grado di distinguere tra bene e male, ciò che ogni uomo di Stato dovrebbe fare.
Nel corso del testo è già stata citata la tripartizione della psyché presente nel Fedro, elemento che nel dialogo Repubblica assume un risvolto sociale. Se alla parte animosa corrisponde la virtù del coraggio, e alla parte concupiscibile la virtù della temperanza, chi sarà in grado di “subire” il dominio della razionalità, dunque di possedere la virtù della sapienza, avrà raggiunto l’obiettivo prefissato dall’educazione dei custodi.
Lo Stato sarà giusto, dunque armonioso, e governato dall’Eidos del Bene, solo se l’ordine gerarchico metafisico verrà sempre rispettato. Ed è la filosofia, l’eterno amore per la sapienza, lo strumento che risveglia nella psyché dei custodi quella scintilla che li trasforma in servi della polis: «Non ci sarebbe tregua dai mali nelle Città, e forse neppure nel genere umano, […] se prima i filosofi non raggiungessero il potere negli Stati, oppure se quelli che oggi si arrogano il titolo di re e di sovrani non si mettessero a filosofare seriamente e nel giusto modo, sì da far coincidere nella medesima persona l’una funzione e l’altra […] e da mettere fuori gioco quei molti che ora perseguono l’una senza l’altra»[26].
Perché il filosofo, così come delineato poco più avanti, è l’amante della Bellezza, del suo Eidos, ogni oltre apparenza. «L’oggetto del suo amore non sono le cose che si percepiscono con i sensi ma quelle che si colgono con l’intelletto e il pensiero, e consistono nel giusto, nel bene e nel bello in sé»[27]. Il filosofo si differenzia dalla comunità perché ha lo sguardo fisso sull’eterno, non sulla mutevolezza della dimensione materiale. E quell’eterno altro non è che il Bene che domina la visione iperuranica. Infatti, il filosofo-sovrano avrà a disposizione la conoscenza della dimensione ideale: «I filosofi sono coloro che hanno la capacità di attingere alle realtà che sono sempre nello stesso modo e identiche a sé»[28].
[1] F. Cambi, Manuale di storia della pedagogia, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 27.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Platone, Protagora, 342 D-E, trad. di G. Reale.
[4] Plutarco, Moralia, 240 E-5, trad. di I. Berti.
[5] G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, BUR, Milano 1998, p. 20.
[6] F. Cambi, Manuale di storia della pedagogia, cit., p. 45.
[7] Ivi, p. 46.
[8] M.S. Funghi, Platone e l’educazione, Loescher, Torino 1979, p. 15.
[9] Ivi, p. 15.
[10] Ivi, p. 16.
[11] Ivi, pp. 19-20.
[12] Ivi, p. 22.
[13] Ivi, p. 23.
[14] Ivi, p. 24.
[15] Ivi, p. 27.
[16] F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 113.
[17] Platone, Repubblica, II 376 C, trad. di G. Reale.
[18] F. Trabattoni, Platone, cit., p. 113.
[19] Ivi, p. 114.
[20] Platone, Repubblica, III 411 E, trad di R. Radice.
[21] Ivi, 412 A.
[22] F. Cambi, Manuale di storia della pedagogia, cit., p. 50.
[23] Platone, Repubblica, III 412 D-E, trad di R. Radice.
[24] F. Trabattoni, Platone, cit., p. 116.
[25] Platone, Repubblica, III 416 D, trad. di R. Radice.
[26] Platone, Repubblica, V 473 C-D, trad. di R. Radice.
[27] F. Trabattoni, Platone, cit., p. 124.
[28] Platone, Repubblica, VI 484 B.