Rousseau. Miseria della civiltà e grandezza del selvaggio

 

di Matteo Zonta

 

  1. Il selvaggio virtuoso

  

Il problema proposto dall’Accademia di Digione, a cui Jean-Jacques Rousseau rispose con il suo celebre Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes, era relativo all’origine delle disuguaglianze sociali fra gli uomini e se esse fossero autorizzate dalla legge naturale. Il testo di Rousseau, composto tra il 1753 e il 1754, era scritto con il fine di concorrere al premio indirizzato a chi avesse meglio risposto alla questione.

Il Discorso inizia con la precisa distinzione dell’autore fra disuguaglianze naturali e disuguaglianze politiche, ovvero convenzionali e stabilite dalla società sulla base del consenso. Le disuguaglianze naturali riguardano la salute, l’età, la forza e tutte le altre qualità del corpo. Le disuguaglianze sociali sono invece presenti ogni volta che un uomo è assoggettato ad un altro perché meno ricco, meno stimano o meno potente. La precedente distinzione ci permette di entrare immediatamente nel cuore del Discorso, ossia nel concetto di stato di natura, momento antecedente a quello dell’uomo civilizzato e stadio dello sviluppo in cui gli uomini vivevano liberi, sereni e selvaggi. L’intento iniziale di Rousseau è fortemente polemico. Egli va contro la concezione hobbesiana dello stato di natura come stadio ferino e brutale dell’umanità in cui l’uomo era solamente lupo per gli altri uomini e a cui la società civile avrebbe posto rimedio. Ricordiamo che, secondo Hobbes, questa condizione di crudeltà e di lotta propria degli uomini in assenza di leggi e di un potere, è fattualmente osservabile nelle lotte tra gli Stati e nella guerra civile. 

L’errore di Hobbes è, agli occhi del filosofo ginevrino, aver dipinto lo stato di natura attraverso immagini e idee appartenenti alla nostra società e aver attribuito ai selvaggi il peggio dell’uomo civilizzato. È opportuno subito chiarire che, secondo Rousseau, questo stato di natura è una realtà dichiaratamente ipotetica, una ipotesi filosofica da lui ritenuta altamente probabile ma non certa. Inoltre, i selvaggi che abitano la Terra nel momento in cui Rousseau scrive, non sono uomini viventi allo stato di natura.  Così alla fine dell’Introduzione si esprime Rousseau:

 

C’è, lo sento, un’età a cui l’uomo come individuo si vorrebbe fermare; tu cercherai l’età a cui desiderasti si fosse fermata la tua specie. Scontento del tuo stato presente per ragioni che preannunciano alla tua infelice posterità ancor più gravi insoddisfazioni, vorresti, forse, poter tornare indietro; e questo sentimento deve essere l’elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei tuoi contemporanei, lo spavento di quelli che avranno la disgrazia di vivere dopo di te[1].

 

Questa età è lo stato in cui si trovano i selvaggi che abitano la Terra all’epoca di Rousseau, non più uomini di natura ma non ancora civilizzati. Rousseau farà una ricostruzione filosofica di un percorso tra questi due estremi e vedrà nel selvaggio abitante dell’America centrale quel giusto mezzo tra natura e civiltà. Rousseau colloca la figura del selvaggio americano all’interno di un percorso di sviluppo che non tende teleologicamente al meglio, bensì verso una sorta di corruzione dell’umanità.

L’uomo selvaggio, essendosi allontanato di meno dallo stato di natura, è più forte fisicamente in quanto ha abituato meno il suo corpo a utilizzare armi e utensili allenandolo così di più. L’autore ci riferisce che i viaggiatori presentano i selvaggi come vigorosi, agili e con una padronanza del corpo e in particolare delle mani fuori dal comune. L’autore ci riporta in particolare l’esempio degli Ottentotti, per cui ci spostiamo per un momento in Africa meridionale, che sono in grado di pescare usando solamente le mani, di nuotare nel mare in burrasca e di avere una vista talmente sviluppata da prendere un bersaglio con un sasso anche a cento metri di distanza e colpire con le frecce gli uccelli in volo per potersene cibare[2]. Secondo l’autore «i selvaggi dell’America settentrionale non sono meno famosi per la loro forza e la loro destrezza»[3] rispetto agli Ottentotti.

Sullo sfondo è importante la polemica con Thomas Hobbes. Quest’ultimo vedeva nella condizione dei selvaggi americani la precedentemente accennata condizione di bellum omnium contra omnes. Nell’antropologia hobbesiana, in assenza di un contratto e di un potere statale, si manifesta la vera natura intrepida e spietata dell’uomo. Rousseau è convinto esattamente del contrario. L’uomo, non sottoposto al dominio di un altro e non vincolato dai limiti della proprietà, sarebbe timido, cauto e spaventato di fronte alle insidie che la sua esistenza selvaggia gli può portare. Il selvaggio segue maggiormente i suoi istinti rispetto all’individuo civilizzato, che presenta invece un impeto smodato nel soddisfare desideri e passioni ed è sempre stanco ed esaurito a causa della costante ricerca di soddisfazione che non lo porta mai a sentirsi realizzato.

L’uomo europeo rappresenta il vizio, la corruzione e gli abusi di ogni tipo e per giunta, avendo smesso di contare sulla potenza del suo corpo, ha perso nel tempo sempre più forza fisica e coraggio. Il progresso che ha plasmato la società civile è dovuto alla volontà degli individui di perfezionarsi e li ha portati necessariamente a scontrarsi tra di loro e a essere invidiosi e avidi. Il bisogno di difendere o accrescere se stessi ha portato l’uomo a godere degli insuccessi altrui prima che dei propri successi. Per natura l’uomo prova, secondo Rousseau, il bisogno di soddisfare le sole necessità fisiche principali mentre la maggior parte dei bisogni che all’interno della società civile si considerano necessari sono in realtà ritenuti tali solo per la forza dell’abitudine. Sono proprio questi bisogni superflui di cui riempiamo la nostra vita molto di più di quanto non facciano i popoli selvaggi, a renderci infelici e sempre manchevoli di qualcosa. Anche a livello di passioni nei confronti di se stesso, l’ipotetico uomo allo stato di natura provava solo l’amor di sé ovvero uno spirito di autoconservazione mentre in società si è poi artificialmente sviluppato l’amor proprio ovvero quel sentimento che spinge gli uomini a voler primeggiare e a immaginarsi sempre come osservati da un punto di vista esterno giudicante ed esigente.

Nella seconda parte del Discorso, l’autore ginevrino espone con precisione le diverse tappe della sua ricostruzione filosofica e ipotetica della storia dell’uomo. Il momento in cui l’uomo uscì dal suo stato primitivo di pura natura fu l’invenzione dei primi linguaggi che, seppur grossolani e imperfetti, permisero agli uomini di comunicare e allargare il gruppo di persone con cui venivano a contatto quotidianamente. La lingua fu un vero motore per fornire la collaborazione degli uomini che cominciarono presto a costruire utensili e capanne, uscendo dalla loro vita animale.  La costruzione di capanne in cui vivere in maniera sedentaria permise di fissare i termini di parentela e creò le coppie fisse di mariti e mogli a differenza degli accoppiamenti casuali che avvenivano nello stato di natura. Secondo Rousseau questo generò anche un modo diverso di vivere l’appartenenza ai due sessi conferendo alla donna il ruolo più sedentario di occuparsi dei figli e all’uomo quello più avventuroso di procurare il cibo.

La ricostruzione fatta da Rousseau sull’uscita dell’uomo dallo stato di natura risulta sicuramente frustrante e imprecisa agli occhi di uno storico o di un paleontologo. È svolta senza nessun tipo di rigore né storico né scientifico perché mancano del tutto periodizzazioni storiche e prove volte a confermare la sua tesi. Il filosofo ginevrino ci aveva però messo in guardia da subito specificando che la sua sarebbe stata una ipotesi filosofica e noi in quanto tale la dobbiamo considerare. L’uomo da errante nelle foreste diventa un essere sociale appartenente a una famiglia o a un gruppo di vicini. Questo è per Rousseau lo stadio in cui vanno collocati i selvaggi americani che vivono ‹‹a egual distanza dalla stupidità dei bruti e dai funesti lumi dell’uomo civilizzato››[4]. Rousseau è chiarissimo nell’esaltare questo stadio come il giusto mezzo tra l’indolenza animale dell’uomo naturale e l’amor proprio dell’impetuoso ma sempre stanco uomo civilizzato. Ecco il passaggio forse più chiaro di tutto il Discorso al fine di comprendere la sua idea di sviluppo e il suo tenere sempre come riferimento costante i selvaggi americani, esempio virtuoso di giovani abitanti del mondo:

 

Più ci si riflette più si trova che questa condizione era la meno soggetta a rivoluzioni, la migliore per l’uomo; a fargliela abbandonare può essere stato solo un caso funesto che nell’interesse comune non avrebbe mai dovuto verificarsi. L’esempio dei selvaggi che sono stati trovati quasi sempre a questo stadio sembra confermare che il genere umano era fatto per restarvi definitivamente, che questa è la vera giovinezza del mondo e che tutti gli ulteriori progressi sono stati in apparenza dei passi verso la perfezione dell’individuo, mentre in realtà portavano verso la decrepitezza della specie[5].

 

Il passaggio chiave che portò l’uomo dalla giovinezza di cui parla Rousseau verso la sua decrepitezza fu l’invenzione della proprietà e la conseguente possibilità di godere del lavoro degli altri. Questi due aspetti per il nostro autore crearono le condizioni di possibilità del diffondersi della schiavitù e della miseria. Ancora una volta Rousseau vuole portare motivazioni e ricostruire la possibile storia che ha portato a questo secondo cruciale passaggio. Due arti hanno permesso all’uomo di civilizzarsi: la metallurgia e l’agricoltura ovvero la scoperta e il conseguente uso del ferro e il suo impiego nella coltivazione attraverso strumenti di ferro. Queste nuove tecniche di coltivazioni, che resero possibile accumulare risorse al di là dell’uso nel breve periodo, contribuirono al diffondersi del concetto di proprietà. Secondo Rousseau, da questo momento in poi la storia dell’uomo sarebbe diventata un susseguirsi di aumenti continui di disuguaglianze, conflitti e sopraffazioni degli uni sugli altri. I selvaggi americani prima di entrare in contatto con gli europei non conoscevano il ferro e i suoi possibili impieghi e questo per Rousseau era la prova che si erano fermati proprio in quello stato ideale e giovane dell’umanità, senza ferro e senza proprietà.

 

  1. Odiare i viaggiatori?

         

Rousseau si scaglia contro la mancanza di sensibilità e di metodo dei viaggiatori europei nell’osservare le alterità. L’autore ci presenta i viaggiatori come invasori intenzionati a raccogliere informazioni o curiosità ma non a conoscere con rispetto gli abitanti delle altre zone del mondo. Ma chi sono questi viaggiatori? Rousseau ci fornisce l’elenco delle categorie di uomini che si sono recati nel Nuovo Mondo: marinai, mercanti, soldati e missionari. A detta dello stesso autore, da nessuna di queste quattro c’è da aspettarsi molto in quanto tutte quante ancorate ai pregiudizi sui selvaggi o agli interessi specifici della loro professione, della loro missione o del loro guadagno.

Rousseau entra poi nel vivo della questione e ci spiega in che cosa consiste concretamente lo sguardo pregiudiziale: esso è ciò cha fa scorgere dei popoli selvaggi solo le cose già risapute o quelle ritenute più bizzarre ma senza mettere a questione il punto di vista europeo.

L’altro aspetto importantissimo dal punto di vista teorico riguarda gli attori in campo. Accertato che le quattro categorie di viaggiatori elencate non sono in grado di fare dei loro viaggi un’esperienza rilevante per lo studio dei costumi dei popoli selvaggi, il peso di questo compito ricade sulle spalle dei filosofi. Secondo Rousseau i filosofi devono recuperare il fascino per i lunghi viaggi che aveva contraddistinto grandi autori dell’antichità come Platone e Pitagora. Grazie ai viaggi, i filosofi andranno a ‹‹scuotere il gioco dei pregiudizi nazionali, a imparare a conoscere gli uomini attraverso le loro affinità e le loro differenze››[6]. Ancora un compito arduo per la filosofia. L’errore principale dei viaggiatori contemporanei a Rousseau starebbe anche negli oggetti studiati oltre che nei soggetti che studiano, poiché si darebbe più importanza alle pietre e alle piante che ai costumi degli abitanti. Rousseau fa il paragone con chi, studiando con occhio da geometra una casa, si dimentica di conoscere i suoi abitanti. Gli europei sono infine definiti ‹‹più desiderosi di riempire la borsa che la testa›› [7].

La proposta finale della decima nota del Discorso, nota da cui sono stati presi gli ultimi passi relativi al problema della condotta dei viaggiatori e del compito dei filosofi, va in controtendenza rispetto a tre secoli di storia coloniale di abusi e di ricerca smodata di ricchezze che hanno posto in secondo piano lo studio dei popoli selvaggi. Qualora i nuovi viaggiatori decidessero di superare i loro pregiudizi e di occuparsi con rispetto e interesse di queste diversità presenti nel continente americano, vedremo ‹‹uscire dalla loro penna un mondo nuovo e ci servirebbe per imparare a conoscere il nostro››[8].   

 

  1. Modelli viventi di un passato primitivo

 

Considerando la frase di cui sopra, della nota decima del Discours, risulta evidente che i selvaggi americani non rappresentano solamente una diversità di usi e costumi ma sono anche lo specchio del nostro passato, rappresentando così l’infanzia del genere umano. L’autore porta avanti in parallelo questi due aspetti: lo studio del selvaggio come operazione di ricostruzione di ciò che l’umanità era nel suo secolo d’oro e quello di una società per l’autore più felice al fine di criticare quella a lui coeva. La grandezza del selvaggio serve a Rousseau per mostrare ai lettori la miseria della civiltà.

La tendenza a considerare i popoli americani come un’immagine dei nostri antenati non è propria del solo Rousseau. L’idea che conoscere i selvaggi del Nuovo Mondo fosse una possibilità per capire come avevano vissuto i popoli europei nella loro preistoria si può trovare già nei Saggi di Montaigne e nel Thomas Hobbes del Leviatano e del De cive. Anche John Locke nei Due trattati sul governo scrive che ‹‹Al principio tutto il mondo era come l’America››[9] e che il Nuovo Mondo ‹‹è ancora un esempio delle prime età dell’Asia e dell’Europa››[10], frasi che non possono che generare l’idea che recarsi in America sia come compiere una sorta di viaggio nel tempo. Ciò che distingue Rousseau dai sopra citati è la nostalgia verso questa condizione selvaggia. Egli è l’unico che scommette sulla bontà del selvaggio non ancora corrotto dalla società civile[11] a differenza dei suoi contemporanei che rimangono convinti della bontà del progresso sociale ed economico delle loro nazioni.

Lo studio delle altre società presenti nel Nuovo Mondo, non solo non porta gli europei a dimenticarsi di se stessi, ma anzi è proprio occupandosi di queste alterità che ci si occupa di se stessi proprio in virtù del loro rappresentare il nostro passato primitivo. Alla luce dell’opera dei contemporanei di Rousseau, che come il ginevrino hanno utilizzato l’America come modello vivente di un passato primitivo, è ora più chiaro cosa intendesse il nostro autore quando diceva che dalle descrizioni e dai resoconti dei nuovi filosofi viaggiatori dovrà uscire un Nuovo Mondo in grado di darci innumerevoli informazioni sul nostro, perché secondo  il ginevrino senza la corruzione della civiltà gli europei sarebbero esattamente come loro: sono stati come i selvaggi americani, infatti, anche gli europei, in un passato dall’autore ben descritto anche se non rigorosamente situato dal punto di vista storico.

 

  1. Rousseau primo antropologo?

 

Claude Lévi-Strauss nel suo saggio Jean-Jacques Rousseau, fondateur des sciences de l’homme[12] del 1962 ci presenta il filosofo ginevrino come il precursore dell’etnologia in quanto avrebbe proposto un metodo da etnologo con un secolo di anticipo rispetto all’origine della disciplina. La volontà di Rousseau era infatti quella di volgere lo sguardo lontano, oltre l’Oceano, per comprendere realmente l’umanità, in quanto non basta limitarsi alla conoscenza della propria nazione e di ciò che ci è più familiare per emettere dei giudizi sul mondo intero. Non è possibile parlare di uomo in sé o di umanità dal momento in cui della maggior parte dei popoli che abitano la Terra conosciamo appena il nome. L’invito di Rousseau era un invito a viaggiare, a non avere paura a conoscere gli altri intesi come altre forme di società, altre modalità di essere nel mondo. Lévi-Strauss ci ricorda l’importanza di questo confronto con l’alterità selvaggia all’interno dell’opera di Rousseau che, secondo l’autore di Tristi tropici, farebbe di Rousseau il fondatore dell’etnologia. Il prezioso monito di Rousseau è rivolto a una filosofia che non viaggia ma che è sempre pronta a spingersi oltre nell’emettere giudizi definitivi sull’umanità intera.

L’ultima parola va lasciata allo stesso Lévi-Strauss, il quale, sull’opera di Rousseau, si esprime come segue:

 

E noi le riserviamo un posto a parte nelle grandi produzioni del genio umano, non solo perché questo autore ci ha rivelato, con l’identificazione, il vero principio delle scienze dell’uomo e il solo possibile fondamento della morale; ma anche perché egli ce ne ha restituito l’ardore, fervido ormai da due secoli e una volta per tutte, in quel crogiuolo in cui si uniscono esseri che l’amor proprio dei politici e dei filosofi si accanisce, altrimenti, a rendere incompatibili: l’io e l’altro, la mia società e le altre società[13].

[1] J.-J. Rousseau, Discorso sulla disuguaglianza (Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes, 1755), Laterza, Roma-Bari 2017, p. 35.

[2] Per questa descrizione degli Ottentotti si fa riferimento alla nota F del Discorso.

[3] Ivi, p. 136.

[4] Ivi, p. 90.

[5] Ivi, pp. 90-91.

[6] Ivi, p. 160.

[7] Ivi, p. 161.

[8] Ivi, p. 162.

[9] J. Locke, Due trattati sul governo, cit. in R.L. Meek, Il cattivo selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 5.

[10] Ibidem.

[11] Per Rousseau società civile è sinonimo di proprietà e, come ci ricorda l’autore stesso all’inizio della seconda parte del suo Discorso, fu il primo a parlare di proprietà il vero fondatore della società civile.

[12] C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, fondateur des sciences de l’homme, in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 87.

[13] Ivi, p. 96.

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