di Pietro Cagni
0.
La trasparenza. Il sussurro di Lady Macbeth coagulato in un nuovo poema: è un ulteriore compimento della sua presenza non più «disincarnata e confusa». La storia di Shakespeare ha chiesto a Rossella Pretto «di ripetersi», prendere forma ancora una volta perché ciò che era rimasto inespresso trovasse parola. In poesia le vere presenze possono riaccadere e nostro compito è saperle ospitare, ampliando i loro confini e il loro dominio: compiere ciò che manca. Così Macbeth diventa un altro, possibile nome del presente, il fondale a cui l’autrice può attingere la verità dei suoi eventi. Riaccade quella «tragedia famosa e perfamosa / di Macbet e della Ledi», come l’aveva chiamata Giovanni Testori, e il tempo va in corto-circuito, le cose lontane si chiamano tra loro, si ripetono in un legame di annuncio, attesa e compimento. Dopo quindici anni di lettura e inesauribile ossessione per l’opera, Rossella Pretto accetta di sprofondare nella misteriosa somiglianza, accettandone persino lo spavento. La folgorante similitudine d’apertura chiarisce che la poesia di Nerotonia è «come pulire un vetro»: fa vedere attraverso, permette l’attualità della storia, il miracolo della sua trasparenza. Così l’autrice può fare brillare la componente più spesso trascurata, inesistente della tragedia shakespeariana: l’amore che pure deve esserci stato, prima della lontananza, e prima dei propositi delittuosi, dello spargimento di sangue. Quella soglia ancora non impestata né rovinata che pure ha unito, deve avere unito i due amanti. Ad accadere è un innamoramento in cui si nasconde una guerra «ormai vinta e persa»[1]. Come Tiresia nella Terra desolata Rossella Pretto ritrae i due amanti «seduti nello studio a tentare l’improbabile / accordo, o in una sala, in piedi per terra», mentre si scoprivano disponibili l’uno all’altro, loro che pure sarebbero poi rimasti sempre irraggiungibili, tragiche e doloranti post-figurazioni dei personaggi di Shakespeare.
1.
tu che quando non dormo e ti penso mi perdo
e l’idea ossessa fa tempesta
nei fruscii degli incatenati lenzuoli,
fantasmi che abitano la casa
come io abito i loro crani lisci d’ossa
tu che mi fai l’amore come battaglia
e titilli le orecchie della quieta calma noia
di una vita sempre uguale inespressa
e guasta
dove nessun passero cinguetta tra rosse lame
tu e le tue invenzioni, nessuna dolcezza
o dolcezza puntuta a tratti
dai germi della tua ambizione
che è mia di voglia,
possesso e sangue
La prima poesia di Nerotonia fa accadere l’incontro. Avviene e fa collassare ogni equilibrio, in un «tempo che non c’era / in quel tempo del sentire di non esserci». La figura degli amanti si scopre molteplice: «i nostri tanti corpi da suonare». Persino in un amore che prepara e già conosce l’incubo e il —-finale resiste una assurda tenerezza: viene «la notte scura degli amplessi / impestata di scorpioni». Almeno nei suoi momenti sorgivi, questo amore non è interamente scuro, ma si screzia, conosce il calore, un incontro pieno: «cavalco le tue turbe, genio dei disturbi», «contratto inesausta con te / generale delle nubi indecenti». Infine è «voglia, / possesso e sangue»: questi tre sussulti scandiscono lo sprofondamento reciproco degli amanti l’uno nell’altro. Nerotonia inquadra un amore «estasi e spreco di ogni cosa», abisso che conduce al disgregamento perché «non crediamo a niente / e non ci inginocchiamo». Nelle ginocchia è tatuata l’incapacità dei due amanti di pronunciare un amen (II, 2, 30). Ogni promessa si incenerisce tra le mani, la cenere scorre via dalle dita: «sei mio, generale, incagliato / in un orizzonte riarso d’incendio // insieme siamo fottuti […] maschio e femmina schiantati». In questi versi risuonano prima armonici leggeri e poi si incrinano con violenza le stonature, le dissonanze persino triviali: siamo fottuti. Sono questi movimenti ad agitare il libro. Davvero la poesia di Rossella Pretto incanta e fa collidere.
2.
amami
di nuovo amami per ciò che scrivo
per ciò che faccio amami
[…]
non amarmi
per quello che i tuoi occhi vedono
dammi la realtà del verbo.
Se Testori, nel suo terribile Macbet, aveva voluto affondare il suo sguardo nello sfacelo, negando quasi ogni slancio, ogni mossa verticale dei personaggi, le pagine di Nerotonia si illuminano di implorazione. Pur precipitando, Lady Macbeth chiede amore per un gesto “abitato”. Culmine di coraggio e desiderio, che tutto affida alla libertà del suo amante, lei chiede di essere desiderata, sottratta all’indistinzione, e scelta: «non dirmi / che mi ami solo al guardarmi». Via via con maggiore limpidezza il componimento giunge al culmine, nella misura di un nitido endecasillabo, che sostiene gli altri versi più fragili: «non governo i confini della penna / amami ancora / e solo / perché la prendo». Anche nel dramma di Shakespeare avevamo visto Lady Macbeth scrivere (nel sonno, mescolando incubo e veglia in un’agitazione febbricitante, preludio dell’assassinio): per Rossella Pretto questo minimo gesto, dimesso, che nulla ha di spettacolare, indica il luogo in cui le figure degli innamorati possono toccarsi. Tra loro si annuvola una distanza incolmabile, una estraneità definitiva. Con pazienza la donna subisce i dubbi, la ritrosia dell’amato: «è l’ambizione / che ti manca che mi sfianca». La avverte fisicamente, sui fianchi, nel ventre.
3.
e dunque a me:
cos’è che manca, che si assenta?
sarà forse il grido della strega,
schiacciato dalla gara
ingaggiata con un uomo,
un dovere imposto
per stare al tuo livello,
usare il cervello…
e tu allora stermina il ferro
e dammi l’uccello
che becchetti sul mio
infinitamente introiettabile vascello
Tutta la materia verbale del libro si dispone su due colonne, a destra e a sinistra della pagina, che si alternano liberamente per brevi strofe: sono messe in scena le controvoci, sono gli incisi di uno scambio concitato che modula i pensieri. L’andamento va in frantumi, i versi si coagulano in unità precarie, secondo un’ulteriore distinzione grafica del corsivo. Questo avvicendarsi delle voci comporta un costante attrito dei significati, costringe l’interpretazione a una inarcatura: ogni incremento testuale porta a un passo inatteso, perché le voci non sono coerenti a loro stesse, non sembrano restituire la medesima temperatura, dialogante e lucida la prima, intima e turbinosa la seconda: talvolta i passi sono concordi, altre volte innescano un conflitto, secondo precipizi, ripensamenti, auto-correzioni che disinnescano questa distinzione. Graficamente distinte, le due voci sono indistinguibili, a suggerire che si tratti di una sola fisionomia che parla, rappresentata nella dolorosa torsione verso di sé. Il culmine drammatico si raggiunge nei passaggi interrogativi (rivolte a chi, queste domande? Sembrano girare a vuoto). Comunque, la poesia di Rossella distoglie sempre da sé l’attenzione: le innumerevoli immagini che vivificano il libro, con picchi espressivi di grande violenza e suggestione, sono immesse in una tessitura sonora spaziosa, larga, dove la sintassi compone un’alleanza con la versificazione, e l’avvicendarsi dei suoi si scioglie in canto. Nulla ostruisce né complica mai: quella di Rossella Pretto è una lingua priva di cadute, musicalmente accordata, che asseconda i movimenti del suo significato e dà forma (come si è visto) alla leggerezza, alle increspature, alle dissonanze di un amore «canagliesco e nero».
4.
Rossella Pretto ha impresso dunque accenti inediti alla storia o, meglio, li ha rivelati. La sua tragedia è quasi più acuminata dell’originale:non compaiono infatti le altre vittime, re Duncan, Banquo, la moglie e i bambini di Macduff (i suoi cuccioli, i pulcini innocenti). Sono sempre e soltanto i due amanti a subire un desiderio «senza gioia». I loro gesti sveleranno un’intima tarlatura, che prima era nascosta. «Ciò che è fatto non può essere disfatto», ripetevano le streghe di Shakespeare: si compie adesso un evento immutabile. Senza aver inflitto la morte, Lady Macbeth ne è visitata: la «regina dei malcontenti, regina degli aghi spinti» perde il figlio, è «assassina assassinata». Turbinano la vita e la morte e questa poesia non fa chiudere gli occhi.
[1] «quando ci ritroveremo noi?», chiedevano le tre streghe nella prima scena del dramma shakespeariano, «Quando il ribollio sarà finito. / Quando la battaglia sarà perduta e vinta».